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Il Toro sudamericano e la storia di quella #EternaAmicizia che dopo Superga unisce il River Plate al Grande Torino.

Eterna Amistad. Una eterna amicizia, un racconto di quelli che, forse più di altri, attribuiscono un senso alla memorabile affermazione di Gianni Brera: “Il calcio è straordinario proprio perché non è mai fatto di sole pedate. Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato”. Il legame fra la squadra argentina del River Plate e quella italiana del Torino, non ha eguali nel mondo del calcio e, più in generale, dello sport. Il racconto di questo episodio, che appartiene alla Storia, quella con la S maiuscola, è dedicato ad Antonio V. Liberti – uomo poliedrico, argentino e genovese, il presidente che per primo ha reso grande il River – e a Ferruccio Novo, ingegnere ed industriale piemontese, presidente ed architetto del Grande Torino. Il rapporto di amicizia fra il sodalizio albirrojo [biancorosso] e quello granata, maturato dopo la tragedia di Superga, è cosi intenso e attuale da giustificare la celebrazione dedicata dallo sponsor tecnico del River Plate, che ha deciso di valorizzare il cosiddetto “rito granata”, attraverso una splendida camiseta con historia realizzata per accompagnare il River durante le trasferte nel campionato argentino e in Coppa Libertadores, nel nome di un hashtag rivolto al pubblico di tutto il mondo: #EternaAmicizia!

Ho scoperto questa magnifica storia mentre mi trovavo a Mendoza, il capoluogo di una vasta regione dell’Argentina, addirittura la quinta fra le aree vinicole più importanti al mondo. Avevo scelto quella città come base ideale per il mio progetto di esplorare le bodegas [cantine] che si trovano nel suo circondario e a quello scopo ero partito da Buenos Aires con un volo interno della compagnia di bandiera. Luoghi incantevoli, ai piedi delle Ande, dove cresce la materia prima che poi l’uomo trasforma nei migliori interpreti della personalità argentina: il Malbec, un vino rosso intenso dalla struttura possente e quasi impenetrabile, e il Torrentés, un vino bianco aromatico e morbido, ma esplosivo, autentici campioni dell’enologia nazionale. Tuttavia, passeggiando per il centro cittadino di Mendoza, fui attratto dalla vetrina di un negozio di articoli sportivi dove accanto alla maglietta della squadra di calcio locale – il Godoy Cruz – e alle immancabili divise del Boca Juniors e del River Plate di Buenos Aires, avevo riconosciuto un gagliardetto sociale e la maglia del Torino. Non dell’Inter, della Juventus o del Milan, ma del Toro. Non seppi resistere alla curiosità, e decisi di entrare per domandare il motivo di quella preferenza. Mi fu svelato quindi il legame del Toro con il Sudamerica: che nacque in ragione di ben tre storiche tournée estive, avvenute nel 1914, 1929 e 1948, e venne poi esaltato dal River Plate quando decise di onorare i caduti a Superga del Grande Torino, giocando nel 1949 allo stadio Comunale del capoluogo piemontese contro il cosiddetto Torino Simbolo, e ancora a Buenos Aires nel 1951 e quindi di nuovo a Torino nel 1952: quello fu il principio di questa storia di #EternaAmistad [Eterna Amicizia].

Ma andiamo con ordine, e quindi dal principio. Vittorio Pozzo non ha bisogno di presentazioni, tuttavia non tutti sanno che, prima di diventare il più vincente tecnico di sempre, campione del mondo con la nazionale italiana nel 1934 e nel 1938 e campione olimpionico nel 1936, fu uno dei primi allenatori del Torino, squadra che aveva contribuito a fondare, si dice. Comunque, fra le tante intuizioni non scontate Pozzo ne ebbe una, che oggi può persino sembrare ovvia: se il Torino voleva crescere e migliorare doveva giocare tanto e non solo in Italia, misurandosi con avversari di caratura e tradizioni differenti, allo scopo di imparare da ognuno di loro. Fu così che, convinta la dirigenza, Pozzo ottenne per la prima volta nella storia del Toro, il permesso di disputare in quella estate del 1914 una tournée oltreoceano: la squadra si imbarcò da Genova, attraversando l’Atlantico sul piroscafo Duca degli Abruzzi e arrivò dopo quasi un mese di navigazione, e tanti palloni finiti in mare, al porto della città di Santos in Brasile, dove le squadre locali erano desiderose di confrontarsi con un’avversaria italiana di primo piano, capace di contendere in quella stagione al leggendario Genoa il titolo di campione d’Italia; i brasiliani li avrebbero quindi ospitati volentieri per circa un mese ai granata e diviso con loro gli incassi delle partite. La comitiva del Toro in quella estate lasciò il segno: São Paulo era una grande città, una metropoli, e gli italiani furono sommersi da inviti e occasioni mondane, come accadde alla Pro Vercelli, altra squadra piemontese che stava visitando il Sudamerica, che invece si distinse in negativo, sia per la condotta in campo e fuori; invece quanto ai granata l’inflessibile Pozzo ridusse al minimo ogni distrazione e tutte le tentazioni, imponendo come suo costume regole di condotta ferree, improntate alla disciplina e alla massima sobrietà, e i risultati furono evidenti anche in campo. Il Torino, con un vigore insospettabile, liquidò all’esordio, il 9 agosto 1914, lo Sport Club International (0-6), per ben due volte la rappresentativa del São Paulo (1-5; 1-7) e lo Sport Club Luzitano (0-3), vincendo due volte anche contro i campioni nazionali dello Sport Club Corinthians (0-3; 1-2) destando così grande ammirazione anche nella vicina Argentina, dove il calcio era già una malattia, e ricevendo un invito fuori programma: quello di raggiungere Buenos Aires. Nella capitale argentina il Torino – tanto era stimato – affrontò la Nazionale bianco-celeste, che lo sconfisse di misura (2-1), perse poi contro il Racing Club de Avellaneda (1-0), che era l’imbattuto campione d’Argentina, congedandosi però con una vittoria netta contro una selezione dei migliori giocatori della Liga argentina (0-2): era il 6 settembre 1914. Poco dopo il rientro in patria della comitiva granata, anche l’Italia sarebbe stata travolta dalla prima guerra mondiale.

Il Torino di Pozzo sfiorò in diverse occasioni il successo nel campionato italiano, ma non lo vinse; mentre la formazione granata del cosiddetto “Trio delle Meraviglie”, composto dai campionissimi Libonatti, Baloncieri e Rossetti, viaggiò in Sudamerica nella tournée del 1929 avendo vinto l’anno prima lo scudetto della stagione 1927/28, bissando il titolo (ingiustamente) revocato nel 1926/27; a dispetto del palmares tuttavia quel Torino non brillò, anche se fu apprezzato dai tantissimi immigrati italiani (e piemontesi) che andarono ad applaudirlo. I granata iniziarono a Buenos Aires il 28 luglio 1929 e giocarono in quella prima settimana ben tre partite contro la Nazionale argentina, perdendone due (1-0; 4-1) e infine riuscendo a pareggiare (1-1), in seguito furono sconfitti severamente dall’Estudiantes de la Plata (5-0) ma espugnarono il fortino dell’Independiente de Avellaneda (1-2); quindi si trasferirono nella città di Rosario dove sconfissero il Central (2-4) e persero nettamente di fronte all’altra squadra di casa, il Newell’s Old Boys (2-0). A quel punto la comitiva granata raggiungerà Montevideo, dove subirà una sconfitta netta contro la Nazionale uruguagia (5-1) ma riuscirà a pareggiare coi campioni d’Uruguay, i giallo-neri del Club Atlético Peñarol (1-1), prima di mettersi in viaggio per il Brasile. Questa volta il Torino – sicuramente affaticato dalle centinaia di chilometri macinati in treno – sarà duramente sconfitto al São Januário (6-0; 2-1), all’epoca lo stadio più grande del paese, dalla “combinata” carioca di Rio de Janeiro (composta dai giocatori di América, Botafogo, Fluminense e, sopratutto, Vasco de Gama), e dopo aver pareggiato (0-0) con il Paléstra Italia, che poi diventerà il Palmeiras, il Toro sarà travolto (6-1) da una “combinata” paulista, composta essenzialmente dai giocatori dello Sport Club Corinthians di São Paulo, chiudendo così quel lungo ed estenuante viaggio il 14 settembre 1929.

Anche il Grande Torino visiterà il Sudamerica. Nell’estate del 1948, anticipato dall’etichetta di squadra più forte del mondo e quindi generando aspettative e curiosità. La società granata, costruita dal presidente Ferruccio Novo, stava in effetti dominando il calcio italiano dal 1943 (e da allora non perdeva una partita in casa, al mitico campo del Filadelfia) e il 4 luglio aveva trionfato nel campionato italiano ancora una volta, annichilendo ogni avversario: in quel torneo il Grande Torino aveva schierato appena 15 giocatori, nell’arco di una lunga stagione a 21 squadre, confermandosi la migliore difesa (33 gol subiti) e il migliore attacco (125 gol realizzati), con il capitano Valentino Mazzola, oramai leggendario condottiero del cosiddetto “quarto d’ora granata” – quando si arrotolava le maniche e il Toro travolgeva chiunque – capace di segnare 25 gol. I granata, che si erano fatti apprezzare anche in Europa vincendo diverse amichevoli di prestigio, dal Belgio alla Spagna, conquistarono quello scudetto con diverse giornate di anticipo e con ben 16 punti di vantaggio sulle seconde classificate: il Milan, la Juventus e la Triestina. Quindi, dopo essersi imbarcati su un volo di linea della compagnia aerea brasiliana, i giocatori granata raggiunsero São Paulo dove rimasero dal 18 al 28 luglio, giocando in quei pochi giorni, ben quattro amichevoli: persero contro lo Sport Club Corinthians (2-1), pareggiarono con il Palmeiras (1-1) e il São Paulo (2-2), e vinsero poi contro la Portoguesa (4-1), entusiasmando il pubblico brasiliano e approfittando per prendere confidenza con l’ambiente del paese che avrebbe ospitato i campionati mondiali di calcio nel 1950, dove la Nazionale italiana avrebbe difeso il titolo conquistato nel 1934 e bissato nel 1938; Nazionale azzurra che – è bene ricordarlo – solo l’anno prima aveva sconfitto l’Ungheria, schierando dieci giocatori del Grande Torino su undici, in campo.

Nello stesso decennio però anche un squadra argentina era accreditata da molti critici e osservatori come la più forte al mondo: il River Plate, la grande squadra di Buenos Aires, che in quella decade segnò una vera e propria epoca. Negli anni Quaranta del secolo scorso infatti la Primera División era contesa principalmente da tre squadre, tutte molto forti: il Boca Juniors, campione nel 1943 e nel 1944 e il San Lorenzo de Almagro, campione nel 1946; ma nessuna si affermerà come il River che sarà campione nel 1941, 1942, 1945 e 1947 mancando per un soffio la vittoria, arrivando secondo, nel 1943, 1944, 1948 e 1949. Quella squadra impressionò, grazie a uno stile di gioco mai visto a quelle latitudini in precedenza: l’occupazione tattica degli spazi si sommava alla velocità di esecuzione e alla precisione delle giocate dei suoi cinque formidabili attaccanti: Juan Carlos Muñoz, José Manuel Moreno, Ángel Amedeo Labruna e Félix Loustau e Adolfo Pedernera, soprannominato El Maestro è il giocatore che ha inventato in Sudamerica il ruolo di trequartista, e che favorì l’inserimento – nell’ingranaggio, è proprio il caso di usare questo termine – di un altro mostro sacro Alfredo Di Stéfano. Infatti, ci si riferisce abitualmente a quel River Plate definendolo “La Máquina”, che potrebbe apparire un soprannome poco evocativo e quindi va contestualizzato: fu Ricardo Rodríguez, uno dei più grandi giornalisti sportivi sudamericani a coniarlo, quando nel 1942 dopo una partita contro il Chacarita Juniors, annientato per 6-2 al Monumental, scrisse a proposito del River su “El Gráfico” un articolo titolato “Jugó como una máquina”, dove esaltava il collettivo biancorosso: “El tiempo, el buen entrenamiento, la moral que posee el equipo y el valor individual de sus componentes, todo ha contribuido para que River en los actuales momentos dé la sensación de ser una máquina”. Dopo di lui, Eduardo Galeano, una delle personalità più autorevoli della letteratura latinoamericana e grande appassionato nonché fine conoscitore di calcio, proiettò quel River nella giusta dimensione paragonando quel gioco al totaalvoetbal di Rinus Michels, che alla guida dell’Olanda e dell’Ajax di Amsterdam rivelò al mondo il “calcio totale”, che La Máquina in realtà giocava trenta anni prima.

Un uomo in particolare segnò la storia del River Plate, assemblando “La Máquina”, esattamente come Furruccio Novo, che in quegli anni costruiva il Grande Torino: il presidente don Antonio Vespucio Liberti; fin da ragazzo trascorreva tutto il suo tempo aiutando i magazzinieri al campo di allenamento del River, dove lo chiamavano El Gordo, a causa della costituzione pingue, già in tenera età, ma tutti gli volevano un gran bene, considerandolo una sorta di mascotte. Una volta cresciuto, raggiunto il successo negli affari e addirittura la ricchezza, don Antonio venne eletto a furor di popolo – di soci, pardon – alla presidenza del club, governandolo a più riprese in un arco temporale di oltre due decadi, riuscendo a realizzare il suo sogno: rendere grande il River, ma grande davvero, senza badare a spese e attingendo largamente alle proprie finanze personali. Appena arrivato alla presidenza del sodalizio, che da circa un ventennio non vinceva, in un clima generale di rassegnazione dei propri tifosi, don Antonio decise di scuotere l’ambiente: fece confezionare, rinnovandole, le mitiche maglie bianche con la banda rossa in diagonale, provvedendo a consegnarle personalmente ai suoi giocatori, che ammoniva, uno per uno: “Cuídenla mucho, porque ésta es la camiseta de River”, come dire, cerca di averne cura e di meritarla, perché questa è la maglia del River!, in seguito decise di mettere mano al portafoglio per acquistare due giocatori straordinari: Carlos Peucelle, dal Club Sportivo, e Bernabé Ferreyra, dal Club Tigre, per una somma a quei tempi inaudita, pagata per la maggior parte in lingotti d’oro, meritando così il soprannome che da allora accompagnerà il club della capitale: “Los Millonarios”.

Don Antonio però aveva appena iniziato. E con l’entusiasmo che cresceva in modo irrefrenabile intorno al club decise di comprare un vasto terreno ai margini del prestigioso quartiere di Núñez e nel 1935 diede inizio alla costruzione di uno stadio gigantesco, inaugurato non appena furono agibili tre delle quattro tribune previste: nel 1938 era pronto. Il Monumental si presentava con il suggestivo aspetto di un ferro di cavallo, aperto verso il Río de la Plata, già in grado di ospitare ben oltre 60 mila spettatori; alla fine degli anni Cinquanta verrà attuata poi la chiusura dell’ovale, con la costruzione del primo anello della quarta tribuna, finanziata con il denaro pagato dalla Juventus al River, a seguito della cessione di Omar Sívori ai bianconeri. Don Antonio decise di affidare la sua squadra che iniziava a prendere forma a un giovane tecnico ungherese: Imre Hirschl, che aveva trasferito in Sudamerica il proprio know-how mitteleuropeo; don Antonio fu coraggioso, ma il giovane tecnico lo ripagò: grande equilibrio difensivo e rapidi cambiamenti in campo nella disposizione dei ruoli, a seconda delle fasi di gioco, portarono il River Plate alla vittoria del campionato nel 1936 e nel 1937 gettando le basi di quel gruppo formidabile che il suo successore affinerà. Toccherà infatti a Renato Cesarini, la celebre ex mezzala sinistra della nazionale italiana e della Juventus, di trasformare quella squadra già molto forte ne “La Máquina”, ovvero la rappresentazione dominante, anche sul campo da gioco, di quello che era diventato il River Plate: un club ambizioso e solido finanziariamente, ottimamente organizzato e gestito secondo criteri imprenditoriali, con uno stile che Liberti amava definire fútbol empresa e che Cesarini, insieme a Carlos Peucelle, nel frattempo ritiratosi dall’attività agonistica e diventato il direttore tecnico del club, riuscirà a trasferire nella prestigiosa “Escuela de River”. Lì nasceranno talenti del calibro di Alfredo Di Stéfano e Omar Sivori, per citare solo i due più celebri.

In quel periodo così denso di successi Don Antonio amava ripetere: “Dios no me dio la posibilidad de tener hijos pero me dio otra chance: ese lugar para mí lo ocupa River!” Non aveva mai avuto i figli che tanto avrebbe desiderato, ma Dio gli aveva concesso il privilegio di colmare quel vuoto occupandosi del River Plate!, che peraltro era di grande supporto alla Nazionale argentina, capace in quella decade di vincere quattro volte su cinque il massimo trofeo continentale, la Coppa América. Intanto, sulla sponda europea dell’Atlantico, un altro uomo aveva attraversato quel decennio dedicando tutta le sue energie alla squadra di calcio del suo cuore: il Torino; anche lui con l’obiettivo di renderla grande. L’Ing. Ferruccio Novo però stava per vivere un dramma senza pari, che nessuno al mondo avrebbe mai più dimenticato: accadde il 4 maggio 1949, la tragedia di Superga. Quel giorno sul Piemonte ed in particolare su Torino era in corso una tempesta di vento, pioggia e lampi, mentre la nebbia avvolgeva le pendici delle colline lambendo la città; ad un certo momento del pomeriggio, pochi minuti dopo le cinque, si avvertì un boato terribile che rintronò nel grandioso edificio della Basilica. Il trimotore Fiat G.212 delle Avio Linee Italiane, con a bordo 31 persone, fra le quali l’intera squadra sportiva del Torino, di ritorno dall’estero, si schiantò a piena velocità contro il muraglione del terrapieno posteriore del grande tempio. Il cappellano, don Tancredi Ricca, accorse sul luogo dello schianto, dove erano nel frattempo convenuti alcuni volenterosi contadini per portare soccorso, ma purtroppo non c’erano sopravvissuti fra i rottami dell’aereo, solo sagome annerite dal fuoco. Uno spettacolo spaventoso. I bagagli della comitiva erano stati scaraventati lontano dalla carlinga, letteralmente esplosa e accartocciata contro il muraglione, e fu allora che fra i soccorritori si levò una voce: “C’è una maglia rossa … misericordia, sono quelli del Torino!” Al sacerdote, rientrato in Basilica, non restò che dare l’allarme per telefono: “Sono tutti morti!”

“Il Grande Torino è calcio, ma non soltanto”. Fu Dino Buzzati a scriverlo, quando il Corriere della Sera gli chiese, come inviato speciale, di seguire – e spiegare agli italiani – la tragedia; “Anche chi non sa di sport, anche chi non mai ha sentito nominare – ma è impossibile – Valentino Mazzola, e così anche l’intellettuale che non ha mai letto di sport e disdegna il calcio, oggi si sono sentiti stringere il cuore”, così scriveva Buzzati, perché “Il dolore è davvero di tutti. Il tifo non conta”. Secondo Gianni Brera la spiegazione di tanto affetto diffuso era che “Quei calciatori, considerati pressoché imbattibili da oltre quattro anni, ossatura della Nazionale, non sono per una città, non sono solo per una sua parte: perché il Torino era lo sport, era la sua sintesi più armoniosa. Il Torino era l’Italia”. Forse anche in ragione di questa speciale grandezza, la Federazione decise di proclamare ufficialmente il Torino vincitore del torneo e quindi conferirgli il titolo campione d’Italia 1948/49; anche se il sodalizio granata in realtà aveva totalizzato sino a quel momento 52 punti, e mancavano quattro turni alla fine del campionato (tre di quelli li avrebbe disputati in casa nell’inespugnabile Filadelfia); erano ben quattro i punti di vantaggio sulle inseguitrici dell’Inter e del Milan (ma il Torino non poteva contare più nemmeno un titolare da mandare in campo) è vero, ma furono proprio i dirigenti delle due squadre milanesi – che con 48 e 46 punti avrebbero potuto ancora aggiudicarsi lo scudetto – a proporre generosamente la proclamazione del Torino, approvata all’unanimità. Tuttavia alla ripresa del torneo, dopo Superga, il presidente Novo decise che il Torino sarebbe tornato in campo per disputare le ultime partite di campionato, allo scopo di onorare il gesto delle avversarie di proclamarlo campione d’Italia, schierando i migliori ragazzi delle giovanili, cosa che fecero cavallerescamente anche gli avversari del Genoa, della Sampdoria, del Palermo e della Fiorentina, vincendo così – il Torino – anche sul campo.

Quando la notizia della tragedia arrivò a Buenos Aires il presidente del River, don Antonio, si commosse profondamente: da tempo accarezzava l’idea di organizzare una sfida senza precedenti, il suo River Plate contro il Grande Torino, per incoronare la più forte squadra al mondo. Entrambe le compagini erano infatti senza rivali in patria e nessuno avrebbe osato mettere in discussione la loro superiorità, nemmeno a livello continentale. Purtroppo non sarebbe stato più possibile giocarla quella sfida. Allora Don Antonio decise: “Nos vamos a Turín”, perché il River aveva il dovere morale, secondo il suo presidente, di recarsi in Italia per rendere omaggio alla memoria di quei campioni appena caduti e alla squadra che era un mito sportivo e adesso era diventata immortale, offrendo inoltre l’occasione al sodalizio torinista di una concreta solidarietà verso le famiglie dei caduti, destinando loro l’incasso di una partita celebrativa da organizzare. Il presidente Novo giudicherà il gesto “Una immediata prova di fraterno amore, e di una grandiosità pari a quella della tragedia”. Fu così che il River, con tutti i suoi campioni e con l’approvazione del presidente argentino, il generale Juan Domingo Perón, e di sua moglie Evita, partì alla volta dell’Italia. Il 26 maggio 1949 ebbe quindi luogo a Torino una partita unica. Infatti, il Club Atlético River Plate, con indosso le casacche bianche attraversate dall’iconica banda trasversale rossa, scese in campo per affrontare un gruppo di undici fuoriclasse, prestati da tutte le squadre italiane, che per l’occasione indossavano la maglia granata e si chiamavano Torino Simbolo, in un Comunale al limite della capienza; la partita-spettacolo terminò 2-2, e fu bella davvero. Così, prima di tornare a Buenos Aires, sia il presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, che Sua Santità, il papa Pio XII, vollero incontrare i calciatori del River Plate applaudendo il loro comportamento tanto nobile, che rinsaldava il vincolo fra i popoli fratelli dell’Italia e dell’Argentina.

E questa magnifica pagina di sport e amicizia troverà una degna replica quando – in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario della sua fondazione – il River Plate inviterà a Buenos Aires proprio il Torino Simbolo a giocare al Monumental; così il 29 giugno 1951, davanti a quasi centomila spettatori, niente meno che il generale Perón scese sul terreno di gioco per salutare uno a uno quei calciatori giunti dall’Italia, passando in rassegna le squadre e dando il calcio d’inizio. La partita la vinceranno nettamente gli argentini per 3-1, ma il Torino sarà applaudito con entusiasmo e salutato da un magnifico striscione granata apparso sulle gradinate e dedicato al capitano del Grande Torino: “Mazzola presente”. A fine partita il presidente Novo, distrutto dal lutto sempre vivo per i suoi ragazzi scomparsi e scosso dalla commozione, aveva omaggiato gli argentini regalando loro le maglie granata, che i giocatori del River Plate indosseranno nelle stagioni successive, preferibilmente nel mese di maggio, onorando così eternamente la memoria del Grande Torino. Trascorsi sette mesi da allora il River tornerà in Italia per affrontare il Torino: accadrà il 16 gennaio 1952 al Comunale, coi granata che (quell’anno arrivarono al 15° posto su 20 e non retrocessero in Serie B per soli due punti) pur non essendo all’altezza dei loro avversari riuscirono con orgoglio a difendere un memorabile pareggio, e fu comunque grande spettacolo, sempre allo scopo di raccogliere fondi, per ovviare in questo caso ad una situazione finanziaria assai difficile per Novo, il quale – commosso sino alle lacrime – consegnerà al presidente del River, don Antonio, un piatto d’argento con inciso il motto latino Cordium consensus vitam parit novellam [Il consenso dei cuori prepara il rinnovarsi della vita], come ringraziamento per l’amicizia e la sensibilità dimostrate.

Nella successiva stagione, quella 1952/53, il Torino vestirà per la prima volta una casacca ispirata alla divisa del River Plate, aggiungendo alla tradizionale seconda maglia bianca una striscia diagonale granata; peraltro, dopo aver fantasticato di riuscire a ricostruire una grande squadra in tempi brevi e non esserci riuscito, ormai deluso, sfiduciato e annichilito dal dolore, Ferruccio Novo abbandonerà la presidenza della società, sostituito da un gruppo di dirigenti passato alla storia come il Comitato di reggenza, che governerà la società per stagioni in cui la squadra per due volte otterrà un dignitoso 9° posto; in seguito arriverà, nella stagione 1955/56, un nuovo presidente: un industriale, banchiere e senatore, Teresio Guglielmone; egli tuttavia lascerà presto per motivi di precaria salute, e gli subentrerà in una condizione di precarietà un Comitato esecutivo che, nella stagione 1956/57, cercherà di mettere ordine e del quale faranno parte: Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio Vespucio Liberti. Sì, proprio “quel” don Antonio Vespucio Liberti, che addirittura dovrà assumere la direzione tecnica del Toro, accompagnando per 4 giornate di campionato sulla panchina granata – dopo l’esonero di Fioravante Baldi – il fidato Oberdan Usello, che cederà poi la guida tecnica della società a un personaggio pittoresco ma inaspettatamente efficace: un allenatore serbo, Blagoje Marjanovic, che arriverà quasi per caso e salverà il Toro che, da ultimo in classifica su 18 squadre, condurrà a fine campionato al 7° posto, realizzando una vera e propria impresa, sempre fedele al suo proclama: “Per salvarsi le tattiche difensive non servono. Bisogna avere coraggio, rischiare. Per andare avanti occorrono gol e vittorie. E convinzione!”

Questa storia di #EternaAmicizia o, se preferite, #EternaAmistad, certifica la correttezza di un’affermazione impegnativa: oltre all’amore dei suoi tifosi il Toro aveva guadagnato il rispetto di tutti gli avversari e l’ammirazione di ogni sportivo, ovunque; nessuna squadra al mondo infatti ha mai rappresentato per il calcio quello che ha significato, e significa – perché, come scrisse Indro Montanelli, gli eroi sono sempre immortali – il Grande Torino.

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Il calciatore diventato un modo di dire (quello della zona Cesarini), nel bel mezzo del Ventennio e nonostante lo Stile Juve …

Cesarini, Renato. – Giocatore di calcio (Senigallia 1906 – Buenos Aires 1969), mezz’ala sinistra nella nazionale italiana e nella Juventus. Famoso per aver deciso l’esito di un incontro internazionale, Italia-Ungheria del 13 dicembre 1931, marcando proprio sul finire della partita il gol della vittoria per 3-2, onde la locuzione segnare in zona Cesarini, realizzare un gol sullo scadere del tempo regolamentare, e per estensione, riuscire in extremis in una cosa.

Era nato a Senigallia, Renato. I suoi genitori avevano atteso la nascita del bimbo per poi dirigersi tutti insieme alla volta di Genova, un viaggio non confortevole (neanche) all’epoca, e da lì imbarcarsi per raggiungere l’Argentina, come tantissimi altri connazionali in cerca di un futuro migliore. Il Genoa intanto aveva già vinto sei volte il campionato italiano di calcio, una volta c’era riuscita la Juventus e il Milan stava per vincere il terzo alloro, quando i Cesarini arrivarono, dopo un mese di navigazione, a Buenos Aires, una metropoli elegante che si stava conquistando l’appellativo di “Parigi del Sudamerica”, dotata di grandi edifici governativi, come la Casa Rosada, e istituzioni culturali di fama mondiale, come il Teatro Colón. Al principio del XX secolo l’economia argentina stava crescendo tumultuosamente e per questo attirava, in un paese immenso e praticamente spopolato, milioni di immigrati dalla vecchia Europa. Il censimento del 1909, riferito a Buenos Aires, aveva registrato una popolazione di oltre un milione di abitanti (il doppio di Roma, per avere un’idea) dei quali oltre cinquecentomila erano stranieri (278 041 italiani, per la precisione), che andavano ad abitare i nuovi quartieri sorti nel frattempo accanto agli impianti industriali della città, e fra loro – da un paio d’anni – nella capitale c’erano anche i Cesarini.

Il giovane Renato crescerà aiutando i genitori a sbarcare il lunario attraverso tanti lavoretti, pensando poi a divertirsi coi pochi spiccioli di cui all’epoca poteva disporre, e un po’ come molti altri ragazzi della sua età e della sua condizione sociale scoprirà – dopo le ragazze e il tango – il fútbol, giocandolo come si praticava nei campi polverosi di strada, e in seguito praticandolo non più come un passatempo, ma come un mestiere: lo strumento che gli consentirà di emanciparsi dalla miseria. Renato infatti, che era dotato e aveva personalità da vendere, arrivò a debuttare nella prima divisione nazionale con la squadra del Club Atlético Chacarita Juniors – fondato venti anni prima da alcuni giovani, cattolici e socialisti, proprio nel suo stesso anno di nascita, il 1° maggio del 1906 – i cui colori sociali rosso, bianco e nero erano stati scelti in ragione del richiamo al socialismo (il rosso), alla purezza d’animo dei fondatori (il bianco) e al Cementerio de la Chacarita (il nero), in onore dell’enorme cimitero cittadino (esteso per circa 95 ettari), che ha sede proprio nello stesso barrio ed è all’origine del singolare soprannome del club: el Funebrero; perché in Argentina qualunque soggetto animato e qualsiasi oggetto inanimato devono avere un apodo, altrimenti non esistono.

Sarà l’Athletic Club Alumni in quegli anni a dominare il campionato argentino di calcio, capace di vincere dieci titoli in undici stagioni, e in seguito toccherà al Racing Club de Avellaneda, che ne vincerà sette di campionati, in dieci stagioni. Nel frattempo soprattutto in Europa si era consumato il dramma della prima guerra mondiale, che ebbe inizio il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia e che, a causa del gioco di alleanze formatesi negli ultimi decenni del XIX secolo, vide poi schierarsi le maggiori potenze mondiali in due blocchi contrapposti: da una parte i cosiddetti “Imperi centrali” (la Germania, l’Austria-Ungheria e la Turchia), dall’altra gli “Alleati”, rappresentati principalmente da Francia, Gran Bretagna, Russia, Giappone e Italia, che si affrontarono fino all’11 novembre 1918. E proprio in Italia la situazione si rivelò particolarmente precaria. Infatti, il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre mezzo milione di caduti e un milione e mezzo tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse sul fronte bellico nell’Italia nord-orientale, con la perdita di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggiti dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.

Era drammatica anche la situazione economica dell’Italia. Il paese infatti dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone, e se aveva pesanti debiti con gli Stati Uniti, le casse statali erano quasi vuote mentre la lira, durante il conflitto, aveva perso buona parte del suo valore e il costo della vita era aumentato a dismisura. A causa della mancanza di un solido mercato interno, e della crisi di quelli esteri, molte manifatture semplicemente chiusero determinando fra gli altri anche il problema dell’assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell’industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati, che erano in fibrillazione perché molte delle promesse fatte loro durante la guerra (come l’espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocandone il grave malcontento. Intanto anche la situazione politica diventava incandescente: i partiti e movimenti di sinistra, in particolare modo il Partito Socialista Italiano, crescevano a fronte delle pessime condizioni dei più deboli, galvanizzati anche dal successo della rivoluzione russa, mentre a destra le formazioni nazionaliste e interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace. Intanto, in questo clima di grave tensione, era ricominciato il campionato di calcio: aveva vinto l’Internazionale, che riprendeva il filo sospeso dall’ultima vittoria prima della guerra, che era stata attribuita al Genoa a campionato quasi concluso per manifesta superiorità, si esauriva in quegli anni anche l’epopea gloriosa della Pro Vercelli, capace di vincere sette volte il campionato, con il contorno degli squilli piemontesi del Casale, prima del conflitto, e dopo la guerra, della Novese.

Attorno ai circoli dannunziani veniva creata l’idea della “vittoria mutilata”, che sarebbe poi divenuta il simbolo della delusione dell’opinione pubblica italiana, che aveva sperato invano in accrescimenti territoriali e coloniali e invece si trovava a fare i conti con il grave peggioramento delle condizioni di vasti strati delle classi medie, e più in generale delle condizioni economiche e sociali che preoccupavano la grande borghesia industriale e agraria, assediate di fronte alle agitazioni sociali, che arrivarono nelle città sino all’occupazione delle fabbriche e nelle campagne a non minori prevaricazioni, nel cosiddetto “biennio rosso”. Il fascismo cresce allora, dapprima come movimento, poi via via si rafforza nel contesto dello sconcertante vuoto politico di un paese oramai allo sbando, attribuendosi la “missione” di salvare l’Italia dal bolscevismo; sorse così e si estese l’azione delle “squadre”, che miravano con le loro “spedizioni punitive” a scompaginare le organizzazioni di socialisti e popolari, tra il favore dei ceti agrari e industriali e la condiscendente passività delle forze dello Stato. Giolitti, il dominus della politica italiana dell’epoca, infatti illuso di poter riassorbire il fascismo nello stato liberale, come vent’anni prima gli era riuscito con i socialisti, diede un tacito appoggio all’attività delle squadre fasciste e alla loro violenza, permettendo così al movimento di Mussolini di estendere la sua influenza attraverso l’intimidazione e la prevaricazione delle sue “camicie nere”.

Nel 1921 il movimento fascista, si trasforma in partito e dichiara espressamente l’obiettivo della conquista dello Stato, Mussolini prova a dare la “spallata” alla sua maniera, favorito dalla crisi profonda delle istituzioni liberali, dal succedersi di governi deboli e inconcludenti e dalla divisione parlamentare delle sinistre: il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. All’esito di questa coreografica manifestazione di forza, la situazione precipita quando il re Vittorio Emanuele III deciderà di affidare proprio a Mussolini il compito di formare il nuovo governo; quello che poi diventerà il Duce, dopo una prima fase, nel contesto di una ampia coalizione, vinte le elezioni del 6 aprile 1924 svoltesi in un clima plumbeo di intimidazioni e violenze, abbandonerà la tattica della collaborazione con i fiancheggiatori, incamminandosi – dopo essersi addirittura assunto la responsabilità “politica” dell’omicidio del deputato Giacomo Matteotti – sulla via della dittatura e del regime totalitario. Intanto il campionato va avanti fra il sempre maggiore entusiasmo degli italiani che oramai vanno pazzi per il calcio; mentre un Genoa quasi invincibile si aggiudicava due lunghissimi campionati nel 1922-23 e 1923-24, grazie a una squadra magnifica, che perfino Mussolini volle incontrare a Palazzo Venezia, emergeva il Bologna che in un clima arroventato in linea con quei tempi difficili, piegava i campioni in carica del Genoa – che difesero strenuamente lo scudetto, invenzione dannunziana, per la prima volta cucito sulle maglie dei detentori – vincendo una sfida, durata per cinque partite svoltesi nell’arco di undici settimane, segnata da querelle arbitrali, scontri istituzionali e financo atti di violenza ispiratori del nome con cui lo scudetto del 1924-25, vinto dai rossoblu felsinei sui grifoni genovesi, è popolarmente conosciuto: quello “delle pistole”.

L’organizzazione dello Stato fascista procedette spedita, si sciolsero partiti e sindacati, fu abolita la libertà di stampa e di riunione, fu creato un tribunale speciale per la difesa dello Stato, e ogni potere di fatto passò a Mussolini, capo del governo e capo del fascismo, con il concorso del cosiddetto Gran consiglio, che a partire dal 1926 attuerà una politica economica deflazionistica allo scopo di favorire l’industrializzazione. Si persegue l’autarchia, ovvero si tenta di rendere autosufficiente l’economia italiana attraverso il potenziamento della produzione interna e si accentua il dirigismo economico con la nascita delle corporazioni e, prima ancora di affrontare il tema della religione – con il processo di conciliazione tra Stato e Chiesa che sarà sublimato nei “Patti Lateranensi” dell’11 febbraio 1929 – si mette mano anche al calcio; Mussolini non amava questo sport e solo nel corso del tempo (e con l’esperienza) imparò ad apprezzarlo, soprattutto perché riuscì a comprendere la portata sociale e popolare di questo gioco “nazionale”, stando bene attento a non ostacolarne il gradimento e anzi ad incoraggiarlo, ad esempio attraverso la costruzione di nuovi impianti in grado di magnificare la potenza del regime: oltre allo Stadio Mussolini di Torino (poi Comunale) e allo Stadio dei Cipressi (poi Olimpico) all’interno del Foro Mussolini (poi ribattezzato Foro Italico) di Roma, il simbolo più importante dell’architettura calcistica fascista sarà il Littoriale di Bologna (poi Renato Dall’Ara), il migliore impianto di tutta Europa.

Dalla partenza della famiglia Cesarini, quando il Genoa e il Milan erano le squadre di maggiore successo e i campionati duravano poche settimane, si era giunti al momento della nascita della Serie A, quando si stavano rafforzavano, in particolare, il Torino del Conte Marone Cinzano, erede della famiglia fondatrice dell’omonima azienda alimentare e di bevande, e la Juventus, che programmava il futuro grazie all’arrivo di Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT, che sarebbe diventato il più importante gruppo finanziario e industriale privato italiano. Il regime fascista intervenne dunque al fine di sottomettere al proprio disegno totalitario questo sport così amato; successe in occasione della grave crisi che colpì la FIGC nella primavera del 1926, a causa delle “liste” con cui le società calcistiche ricusavano arbitri a loro non graditi e del conseguente sciopero a oltranza dei direttori di gara, che non poteva però essere tollerato. Fu così che il CONI, già allineato al regime, esautorata la FIGC, nominò una commissione di esperti col compito di redigere un documento concernente la nuova organizzazione del calcio italiano. In pochi giorni, il 2 agosto dello stesso anno verrà pubblicata in effetti la cosiddetta “Carta di Viareggio”, dal luogo in cui si erano ritirati i commissari, la località della Versilia, che andava a riformare profondamente l’ordinamento calcistico nazionale.

La Carta impose una prima svolta, attuando il primo storico strappo verso il professionismo, dividendo infatti i calciatori in due categorie: dilettanti e non-dilettanti, consentendo così il riconoscimento dei numerosi precedenti di passaggio da una squadra all’altra avvenuti clandestinamente nel torneo italiano, e dei relativi stipendi pagati ai giocatori più talentuosi mascherandoli dietro rimborsi-spese o salari fittizi (come era successo per Renzo De Vecchi, passato dal Milan al Genoa, Virginio Rosetta, dalla Pro Vercelli alla Juventus, o Adolfo Baloncieri, dall’Alessandria al Torino, sempre per somme esorbitanti), questo approccio consentì inoltre di legalizzare il calciomercato, che da allora inizierà a strutturarsi; la Federazione venne riorganizzata in maniera verticistica in modo da essere controllata dal regime, e si arrivò (finalmente) all’introduzione di un girone unico nel campionato italiano, i princìpi di unità nazionale mal si rispecchiavano infatti in un torneo che fin dalla sua nascita era stato suddiviso fra campionati regionali (come in Germania si sarebbe continuato a fare fino agli anni Sessanta del Novecento): venne quindi disposta la creazione di una Divisione Nazionale unica per tutta Italia, per l’assegnazione dello scudetto, formata da due gironi, che si sarebbe trasformata di lì a poco in un unico torneo a venti squadre con partite di andata e ritorno in cui tutti affrontavano tutti (il cosiddetto girone all’italiana, che poi si chiamerà: Serie A).

Alle idee di nazionalismo del fascismo fu invece ispirata la regola che chiudeva il campionato italiano agli stranieri: infatti, dal 1928 non sarebbe stato più ammissibile nessun tesseramento di calciatori stranieri nel torneo nazionale. In Italia però si sa come va a finire: fatta la legge trovato l’inganno, anzi l’oriundo, tramite la concessione di re-italianizzare i cosiddetti rimpatriati; in altri termini, se l’oriundo nasceva in una famiglia di emigrati (italiani) nel luogo di destinazione dello spostamento migratorio (poniamo l’Argentina), pure in assenza di legami formali con il luogo di provenienza dei suoi ascendenti, in ragione del contrasto fra la provenienza culturale (supponendosi che la famiglia emigrata abbia conservato almeno in parte tradizioni e valori, e spesso lingua, del sito di provenienza, quindi l’Italia) e il contatto con la cultura locale del luogo ove il nucleo familiare si è stabilito era sufficiente la volontà dell’interessato di scegliere la cittadinanza italiana, per ottenerla. E così niente più austriaci e ungheresi che fino a quel momento tanto avevano offerto al nostro calcio, e benvenuti ai sudamericani: argentini e uruguagi in particolare, che doneranno caratteristiche uniche alla nostra scuola. Il 1° dicembre 1929 sarà l’occasione per un doppio esordio di oriundi in Nazionale; la partita è Italia-Portogallo, che terminerà 6 a 1, ed in campo in azzurro scenderanno il paraguaiano Attila Sallustro, un attaccante rapido, che giocò a lungo nel Napoli, venerato dai media di allora alla stregua di un divo per la sua imponente bellezza, ma soprattutto l’argentino Raimundo “Mumo” Orsi, un giocatore assolutamente imprendibile che quando era in vena (e ne aveva voglia) faceva cose strabilianti: la Juventus scommise su di lui dopo averlo visto con la maglia dell’Argentina, sconfitta in finale dall’Uruguay alle Olimpiadi di Amsterdam, nel 1928, e ritenendolo l’ala sinistra più forte di tutti i tempi, senza limiti di età, decise si assicurarselo prelevandolo dall’Independiente di Avellaneda, per una cifra enorme, che all’epoca fece molto discutere.

“Mumo” in effetti aveva scatto, velocità, un perfetto controllo della palla e disponeva di un dribbling e di un repertorio di finte di corpo che allora nessuno era in grado di riprodurre. I giornali di allora evidentemente non pubblicavano fotografie, perciò vi era grande attesa di vedere di persona quel prodigioso fenomeno, dopo averne sentito parlare ed averlo immaginato – chissà perché – grande e grosso, con una grinta feroce; invece, quando arrivò con il piroscafo a Genova, apparse ai giornalisti in trepidante attesa un uomo magro e stretto di spalle, si seppe anche che suonava il violino, e in molti si dissero a dire poco perplessi. E preoccupati, gli juventini. Orsi inoltre non avrebbe giocato per un anno, per questioni regolamentari, lo si vedeva solo in allenamento e dopo la partita di campionato della domenica mentre faceva gli esercizi; la gente si fermava per osservarlo, piena di curiosità e di scetticismo, mentre quel campionato del 1928-29, lo vinse il forte Bologna. Terminato l’anno di “quarantena”, Orsi poté finalmente debuttare in bianconero e iniziò a sbalordire, segnando in tutti i modi: di destro, di sinistro, con il ginocchio, di testa, direttamente dal calcio d’angolo – era la sua specialità – e anche su rigore, perché l’incaricato del tiro dagli undici metri, nella Juventus, era proprio lui, contrariamente all’abitudine vigente in quell’epoca, in cui il rigore veniva tirato dai terzini. Comunque, dopo l’esordio in azzurro Orsi diede un grande contributo anche alla causa della Nazionale, e si laureò campione del mondo con l’Italia nel 1934, nella Coppa Rimet disputatasi nella penisola per la felicità del regime, risultando decisivo anche nei successi della Nazionale già dal 1930 nella Coppa Internazionale; frattanto con la sua squadra di club, “Mumo” vinse quattro scudetti consecutivi, tra il 1930-31 e il 1933-34; non poté formalmente fregiarsi del quinto e ultimo titolo del cosiddetto “Quinquennio d’oro” juventino, solo perché nell’aprile del 1935 dovette lasciare Torino per fare ritorno in patria, al capezzale della madre malata, per poi rimanere a Buenos Aires.

Orsi alla Juventus fece un altro regalo. Era infatti amico fraterno di Renato Cesarini e convinse la società bianconera che quel ragazzo, peraltro nato a Senigallia in Italia, e quindi “meno oriundo” di lui, doveva essere acquistato, senza ritardo. Era difficile non assecondare le richieste di “Mumo”, che spesso veniva accontentato perché con il suo talento dimostrava di valere quel patrimonio che era servito ad acquistarlo, cosa che Edoardo Agnelli teneva bene a mente. E fu così che – grazie alle illimitate disponibilità assicurate al club dalla facoltosa proprietà – il giovane Cesarini fece a ritroso il viaggio affrontato tanti anni prima da neonato, partendo questa volta da Buenos Aires, il 27 gennaio del 1929, a bordo del transatlantico Duilio, e sbarcando a Genova il 13 febbraio, dove lo attendevano giornalisti, curiosi e un’automobile della Juventus con tanto di autista, incaricato di verificarne i documenti e accompagnarlo a Torino. Il giovane Renato era agghindato come un divo del cinema, abiti stretti e colori sgargianti, e mentre scendeva dal piroscafo alla stazione marittima, raccomandava ad uno dei facchini di fare molta attenzione a una valigia morbida e nera: era la sua valigia delle cravatte, ne possedeva a centinaia. Non era (ancora) ricco, ma era fatto così, vivere alla grande era per lui come respirare e forse per questo il suo ambientamento fu immediato; prima delle innegabili, ma non ancora conosciute, doti del giocatore, vennero infatti alla ribalta le qualità dell’uomo: schietto, gioviale, arguto, generoso oltre ogni immaginazione, tanto che in pochi giorni divenne l’amico di tutti.

Con Renato Cesarini prese così corpo la Juve dei sogni di Edoardo Agnelli. Il figlio del senatore Giovanni Agnelli – fondatore della FIAT – era un grande appassionato di sport, e divenne presidente della Juventus nel 1923 e per i seguenti dodici anni, sino al drammatico incidente che gli stroncherà la vita a soli 43 anni, il 14 luglio 1935. Egli rese la sua Juventus una delle squadre più vincenti d’Europa nel periodo interbellico, ma oltre ai successi sportivi riuscì a organizzare una delle prime vere e proprie società sportive nel senso moderno del termine. Edoardo Agnelli introdusse nel club quel peculiare modello gestionale noto a posteriori come lo “Stile Juventus”, riconosciuto come uno degli elementi che più contraddistinguono l’identità della società bianconera, inerente all’amministrazione aziendale, alla cultura organizzativa, alla pianificazione strategica e all’insieme di valori che Edoardo Agnelli pretendeva da dirigenti, giocatori e tecnici: concretezza, disciplina, eleganza, parsimonia, serietà, semplicità e serietà, nonché la capacità di conseguire il risultato sportivo con tutte le proprie forze, ma con correttezza e professionalità. Caratteristiche apprezzate dalla piccola borghesia torinese, che la contraddistinguono agli occhi della popolazione media italiana, riconosciute alla stessa “dinastia” Agnelli, e intrinsecamente legate al cosiddetto “stile sabaudo” strettamente affine alla cultura piemontese.

In campo, il mosaico che risulterà tanto vincente era stato composto dal tecnico Carlo Carcano, studioso e precursore del Metodo, che porta con sé dall’Alessandria un mediano di classe purissima come Giovanni Ferrari, capace di trovare i compagni in campo con passaggi perfetti e diventare il motore della squadra. In attacco, la “Signora” ha un’anima sudamericana, fatta di estro e fantasia: le invenzioni sono di “Mumo” Orsi e di Renato Cesarini, ai quali si affianca Giovanni Vecchina, arrivato dal Padova e subito rivelatosi fondamentale; mentre in difesa nasce il mito del “trio dei ragionieri” della Juve e della Nazionale: il terzino destro nonché capitano della squadra Virginio Rosetta – il primo calciatore “professionista” in Italia – il portiere Gianpiero Combi e il terzino sinistro Umberto Caligaris, tutti e tre campioni del mondo nel 1934, così diversi in campo e nella vita e così complementari. Quella Juventus vince lo scudetto del 1930-31, il terzo della sua storia dopo quelli del 1905 e del 1925-26, e l’idea di un ciclo è nell’aria. Idea che si consoliderà quando arriverà a Torino, l’altro oriundo: Luisito Monti, in un primo momento guardato con sospetto pure lui, avendo smesso di giocare a calcio da qualche mese, in Argentina. Invece, il nuovo acquisto, affidato alle cure del “generale” Carcano, in pochi mesi inizierà una seconda vita agonistica: perse venti chili di peso, tornò in perfetta forma e andò a completare la linea mediana bianconera, portando un contributo di potenza e forza fisica inaudita. Quella Juventus divenne la prima formazione nella storia del calcio italiano a vincere cinque campionati consecutivi, dal 1930-31 al 1934-35, raggiungendo le semifinali della Coppa dell’Europa Centrale per quattro anni consecutivi.

Estroso come nessun altro giocatore venuto alla Juventus, considerato un po’ matto addirittura, Renato Cesarini sembrava fatto su misura per mettere a dura prova il severo codice previsto fra i bianconeri e provocare la disperazione del vicepresidente bianconero, il barone Mazzonis, che era solito vigilare come un gendarme sulla buona condotta dei giocatori, disponendo addirittura di una rete di informatori. Un giorno Edoardo Agnelli entrando in un ristorante in centro-città scorge Cesarini seduto a tavola, impegnato a corteggiare una donna, per giunta in orario di allenamento. Allora il presidente si siede comodamente e fa recapitare a Cesarini dal cameriere una bottiglia di champagne, accompagnandola con un biglietto che ricorda al giocatore l’allenamento e la partita del giorno dopo; Cesarini, per nulla a disagio, gliene fa arrivare cinque di bottiglie a Edoardo Agnelli, con tanto di biglietto: «Domani vinciamo e segno così». Illuminante aneddoto sulle mattane del Cè (così lo chiamavano in squadra), che si sprecano: adorava le carte da gioco, l’eleganza, le belle donne, i locali notturni, e lo champagne. Spesso se ne andava a spasso per la città accompagnato da una scimmietta, e pagava senza scomporsi tutte le multe che la società gli comminava, e va detto che gliene piovevano letteralmente addosso, a cura del vicepresidente Mazzonis.

Funzionava così, Carlo Carcano – fine psicologo e uomo pragmatico – non interveniva mai di persona, e il controllo dei ragazzi era coordinato dal severo Mazzonis, che riceveva notizie dei “misfatti” compiuti dai suoi ragazzi attraverso una fitta rete di informatori, reclutati tra i ragazzini per le strade di Torino, che prezzolava alla somma di un paio di lire per prestazione. I piccoli in pratica si appostavano in vicinanza delle abitazioni dei calciatori, attenti a riferire in società ogni movimento. Tuttavia Cesarini, che si era accorto di questa pratica, era riuscito a individuare i ragazzini e gli aveva offerto più soldi di quanto non facesse Mazzonis, neutralizzandolo e riuscendo a limitare i danni. Nella vita privata in effetti l’estroso giocatore non era un modello di serietà: giocatore di carte fenomenale e appassionato ballerino, spesso passava le notti senza riposare, andando a letto solo all’alba, non riuscendo quasi mai a svegliarsi in tempo per presentarsi puntuale all’allenamento. Spesso arrivava al campo a bordo di un taxi, e sotto il cappotto o all’impermeabile non aveva che il pigiama, perché magari si era alzato dal letto cinque minuti prima, e non aveva avuto tempo di vestirsi. Tuttavia, quando iniziava l’allenamento, si impegnava al massimo, senza mai dimostrare stanchezza o tirarsi indietro, e il mister bianconero Carcano non si poteva lamentare.

Una volta informato, il vicepresidente Mazzonis formulava un primo avvertimento amichevole verso chi aveva mancato, che se rimaneva lettera morta, precedeva l’avviso ufficiale, con l’invito a presentarsi in sede per comunicazioni “che La riguardano”. Cesarini gli toglieva il sonno a Mazzonis, e giunse persino ad aprire un locale da ballo molto lussuoso in Piazza Castello, sopra il famoso Gran Bar Combi, che apparteneva all’epoca alla famiglia del portiere bianconero: due orchestre vi si alternavano per buona parte della notte, offrendo al pubblico infinite serie di tanghi, la danza che a quei tempi furoreggiava. Le multe per le infrazioni più gravi erano di mille lire, che peraltro non erano pochi soldi. Cesarini dichiarava di volerle pagare senza battere ciglio, ma cercava poi di scendere a patti: «Se gioco da campione e segno almeno un goal nella prossima partita la multa viene cancellata!» E quasi sempre Cesarini riusciva ad ottenere la cancellazione della punizione, del resto sul terreno di gioco, l’estroverso Renato sapeva essere sempre protagonista: non aveva paura di nessun avversario, era dotato di un fisico eccezionale, in possesso di una tecnica personale e di un’intelligenza di gioco raramente riscontrabili, e aveva spesso intuizioni tattiche tanto improvvise quanto felici; lo dimostrerà anche da allenatore, sia in Argentina al River Plate che in Italia, proprio alla Juventus, in un’altra fase della sua vita.

Quella Juventus riusciva a mobilitare le masse quasi alla pari di un partito politico, e in migliaia aspettavano i bianconeri alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, per festeggiarne la vittoria ottenuta in trasferta e il ritorno a Torino. Un compagno di squadra nella Juve e nella Nazionale lo descrive come “il più imprevedibile degli uomini che ho conosciuto” a Renato Cesarini, e racconta, a sostegno della sua affermazione, un aneddoto che rende bene l’idea. Si doveva affrontare la Spagna a Bilbao, dice Luigi Bertolini, formidabile difensore, sempre riconoscibile perché per proteggersi dai colpi del pallone indossava un fazzoletto bianco sulla fronte; era durante una tournée nella penisola iberica, per affrontare Portogallo e Spagna. Vittorio Pozzo meditò la maniera di annullare la mente della squadra spagnola – una forte mezz’ala dell’Athletic Bilbao di nome Ignacio Agirrezabaka, conosciuto come Chirri II – e decise di piazzargli alle costole Renato Cesarini con il compito di non perderlo mai di vista, di marcarlo a distanza ravvicinata. «Dove lui va, tu devi andare», disse il commissario tecnico a Renato. Cesarini rispettò le direttive, cancellando dalla gara il pur valido avversario, e lo fece in un modo così implacabile e deprimente per lo spagnolo che, a un quarto d’ora dal termine, con i nervi a pezzi, Chirri II lasciò volontariamente il terreno di gioco. E Cesarini gli andò appresso, fra lo stupore di tutti, seguendolo fino negli spogliatoi e ristabilendo la parità numerica. Pozzo, annichilito, a fine gara tentò di rimproverare Cesarini – che non amava affatto – con una certa durezza, ma ne venne disarmato quando l’azzurro gli replicò con angelico candore: «Quando una sentinella ha una consegna, deve rispettarla fino in fondo».

E allora vediamolo quel minuto lì, straordinario e unico. Quello della “zona Cesarini”. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c’è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l’Italia gioca contro l’Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, 1-0, goal di Libonatti. Avar fa l’uno pari, Orsi riporta l’Italia in vantaggio ma Avar segna di nuovo: 2-2 al novantesimo. Tutto o niente da rifare. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. A un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per 3-2. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro».

Alessandro Baricco, il grande autore e scrittore torinese (e torinista) lo celebra da par suo: «Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di tempo – il quale è solo di Dio, dice la Bibbia – qualcosa nella vita lo hai fatto».

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Christmas truce ovvero Weihnachtsfrieden, semplicemente l’amichevole più speciale di sempre. Quella di Natale.

Grande Guerra. Chiamiamo così il più grande conflitto armato mai combattuto sul pianeta, fino alla successiva Seconda guerra mondiale. Fu un massacro, ed ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra austro-ungherese rivolta al Regno di Serbia, in seguito all’assasinio dell’arciduca erede al trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e della moglie Sophie Chotek von Chotkowa avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo durante la solenne celebrazione della festa nazionale serba, per mano del nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo Princip. Certo è paradossale: l’arciduca infatti era forse l’unico austriaco autorevole che fosse comprensivo verso i nazionalisti serbi, eppure per un gioco del destino morì. Da questo avvenimento scaturì tuttavia una drammatica crisi diplomatica che infiammò l’Europa, e non solo. A causa del gioco di alleanze formatesi nei decenni precedenti, nella guerra furono coinvolte le maggiori potenze mondiali, e le rispettive colonie, in due blocchi contrapposti: da una parte gli Imperi centrali (quello tedesco, quello austro-ungarico e quello ottomano), dall’altra gli Alleati (principalmente la Francia e la Gran Bretagna, l’Impero russo e quello giapponese). Risultato? Morirono ventiquattro milioni di persone, solo durante il conflitto, fra militari e popolazione civile.

3 agosto del 1914. Quel giorno la Germania dichiarava guerra alla Francia e iniziava le operazioni sul suo fronte occidentale, secondo il cosiddetto “Piano Schlieffen” che prendeva il nome dal suo autore, il capo di Stato Maggiore tedesco e feldmaresciallo Alfred Graf von Schlieffen, appunto. La strategia prevedeva una rapida vittoria sulla Francia attraverso la mobilitazione del potente esercito tedesco, che, senza tenere conto della neutralità di Belgio e Paesi Bassi, doveva di sorpresa – e molto scorrettamente – dilagare attraverso di essi in direzione sud-ovest attraverso le Fiandre verso Parigi, colpendo la Francia in un settore completamente sguarnito. Tuttavia le cose non andarono come previsto, e dopo alcuni iniziali successi i tedeschi iniziarono a rallentare la loro corsa. Intanto i belgi resistettero. Anche se militarmente travolti, i civili di quel paese non si persero d’animo e non collaborarono affatto con l’invasore, sabotandone sistematicamente le manovre: a volte allagando la campagne altre volte trasformandosi in cecchini. E poi l’intervento del Corpo di spedizione britannico: il contingente dell’esercito di Sua Maestà, numericamente ridotto ma ben addestrato ed esperto, inviato in Francia e in Belgio in aiuto dell’esercito francese, si rivelò sorprendente. I britannici si scontrarono la prima volta nella località di Mons il 23 agosto 1914 contro il potente esercito teutonico, e, mentre contemporaneamente l’esercito francese veniva schiantato dalle truppe germaniche nelle Ardenne e in Lorena, inglesi e scozzesi si batterono validamente contro i tedeschi mettendo in mostra disciplina e combattività e infliggendo sensibili perdite al nemico, prima di ripiegare per evitare di essere accerchiati.

In un certo senso, entrambi i contendenti uscirono vincitori a Mons. I britannici, in inferiorità numerica, riuscirono infatti a trattenere per ben 48 ore la I.Armee-Korps, che appariva inarrestabile infliggendole pesanti perdite. Gli inglesi riuscirono anche a ritirarsi con ordine, raggiungendo il loro obbiettivo primario, cioè impedire l’attacco tedesco alla V armée dell’esercito francese, proteggendola. Fu ina prova utile al morale degli uomini, poiché fu il primo scontro sul continente in cui venissero coinvolti soldati inglesi dalla Guerra di Crimea, e vi era grande incertezza su come essi si sarebbero comportati. Al contrario i tedeschi capirono di aver subito un duro colpo da un avversario che precedentemente avevano considerato incapace di opporsi seriamente alla loro avanzata, quasi deridendolo. Mons rappresentò tatticamente una sconfitta per la Germania, ma, comunque, anche una vittoria strategica: nonostante fossero stati temporaneamente bloccati dagli inglesi ed avessero sofferto pesanti perdite, riuscirono lo stesso ad attraversare la barriera costituita dal canale Mons-Condé, quello stesso giorno sia i francesi da Charleroi sia i belgi da Namur cedettero alla pressione tedesca e iniziarono a ripiegare mentre i tedeschi avanzano in territorio francese, trovandosi fin quasi alle porte di Parigi – abbandonata dal governo transalpino, che si era trasferito a Bordeaux, per prudenza – prima di essere bloccati sulla Marna.

La prima battaglia della Marna fu decisiva per il corso degli eventi successivi, e tuttavia sorprendente. Infatti l’esercito tedesco arrivato fino a pochi chilometri dalla capitale francese, venne inaspettatamente contrattaccato dall’esercito francese che, nonostante la precedente sconfitta e la lunga ritirata dalle Ardenne, aveva mantenuto la coesione e lo spirito offensivo. La battaglia si svolse tra il 5 e il 12 settembre 1914 e si concluse con la vittoria anglo-francese grazie anche a una serie di errori strategici abbastanza clamorosi dell’Alto comando tedesco, che indusse l’esercito del Kaiser a ripiegare dietro la Marna e poi sull’Aisne dove francesi e britannici tuttavia non li inseguirono contrattaccando. E anche questo fu sorprendente. La prima battaglia della Marna tuttavia segnò un momento decisivo della prima guerra mondiale, perché decretò il fallimento degli ambiziosi piani tedeschi e delle loro speranze di vittoria entro sei settimane, rinsaldò la resistenza e la volontà degli Alleati, indusse i russi ad attaccare la Germania da est e trasformò la guerra in una lunga lotta di logoramento nelle trincee, che sarebbe continuata nel fango per altri quattro lunghi anni fino alla sconfitta finale della Germania imperiale.

Tornando all’esito dello scontro sulla Marna, nei mesi successivi i due eserciti nemici cercarono di aggirare reciprocamente il fianco settentrionale dell’avversario, per questo i combattimenti si estesero progressivamente verso nord, ancora nella regione belga delle Fiandre, mentre lungo la linea del fronte presero a comparire i primi sistemi di trincee. Alla fine di novembre del 1914, dopo la conclusione della prima battaglia di Ypres, la situazione giunse a un punto di “stallo”: la guerra di movimento voluta dai tedeschi cessò e il fronte si stabilizzò lungo una linea continua di trincee estesa dal Mare del Nord alla Svizzera, dietro cui i contendenti anglo-francesi e tedeschi si ammassarono a difesa dei reciproci territori. Intanto, con l’approssimarsi del primo Natale “di guerra”, furono intraprese diverse iniziative a favore della pace: una Open Christmas Letter [in pratica: una lettera aperta di Natale] fu pubblicamente sottoscritta da un’associazione femminile britannica e indirizzata alle “donne di Germania e Austria” come messaggio di pace, mentre il 7 dicembre 1914, il Papa Benedetto XV avanzava la proposta di sottoscrivere una tregua natalizia tra i governi belligeranti, chiedendo che “i cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”. Ma la lettera delle donne venne ignorata e la richiesta papalina ufficialmente respinta. L’assurda carneficina sarebbe continuata.

Eppure un «miracolo» avvenne comunque, quel Natale del 1914. Infatti circa 100.000 soldati britannici, francesi e tedeschi furono coinvolti in una cessazione informale delle ostilità, lungo il fronte occidentale. Nei primi mesi del conflitto, quando ancora la tremenda guerra di trincea era agli inizi, gli episodi di tregue spontanee tra le opposte fazioni non costituirono episodi rari: in molti settori si instaurò un rapporto di “vivi e lascia vivere” tra i soldati, e unità opposte schierate a stretto contatto limitarono spesso gli atteggiamenti e permisero cessate il fuoco non ufficiali per permettere il recupero di morti e feriti dalla “terra di nessuno”. Ma a Natale successe qualcosa di più straordinario. La vigilia i tedeschi iniziarono a cantare e gli inglesi a rispondere, cantando a loro volta, ed iniziando timidamente a scambiarsi gli auguri di Natale. Poco a poco, i più intraprendenti iniziarono a incontrasi nella “terra di nessuno” scambiando piccoli doni: alcool, cibo e tabacco, fino a veri e propri souvenir, come bottoni e cappelli del propio esercito. La tregua consentì anche di riportare dietro le loro linee i cadaveri dei commilitoni caduti, allo scopo di dare loro almeno pietosa sepoltura. Britannici e tedeschi concordarono una tregua fino alla mezzanotte di Natale, che invece durò poi fino alla mezzanotte del giorno successivo, offrendo a quegli uomini che si stavano scannando solo poche ore prima, la possibilità di parlarsi e di fare conoscenza amichevolmente. I soldati chiacchieravano, avevano molte cose in comune. Vivevano negli stessi campi, sotto la stessa pioggia e odiavano la guerra. E poi, erano curiosi. Come si stava dall’altra parte? Un ufficiale inglese apprese con sconcerto che il suo omologo tedesco credeva fermamente di combattere per la libertà. “Impossibile”, aveva risposto, “noi combattiamo per la libertà”. Sainsbury’s, la seconda catena di supermercati nel Regno Unito, ricavò dalla memoria di quell’evento un memorabile – quanto criticato – spot natalizio.

Molti tedeschi poi parlavano inglese e così poterono dialogare coi loro nemici, senza tardare molto a scoprire una passione in comune: quella per il football, inventato dai britannici e lì già praticato ad altissimi livelli. In Inghilterra infatti il campionato giunto quell’anno alla 27ª edizione era iniziato il 1º settembre 1914 nonostante la guerra, proprio perché si sperava ovunque che potesse terminare rapidamente, e terminerà il 28 aprile 1915 con la vittoria dell’Everton, al suo secondo titolo, guidato dallo scozzese Bobby Parker, che sarà capocannoniere della First Division, detronizzando i campioni dell’anno precedente del Blackburn. Invece la squadra detentrice della Coppa d’Inghilterra era l’Aston Villa di Birmingham, che nel 1913 l’aveva contesa al forte Sunderland vincendo per 1-0, grazie a un goal di Tommy Barber, che poi la Grande Guerra la combatterà per davvero e trincea, servendo come soldato semplice e partecipando alla battaglia di Bois d’Elville e all’attacco di Bois des Fourcaux nell’estate del 1916, quando si combatterà sulla Somme, dove subirà gravi ferite da arma da fuoco alle gambe che lo faranno tornare in Gran Bretagna, dove morirà per la pleurite e la tubercolosi. Il 17th (Service) Battalion, un battaglione di fanteria del Middlesex Regiment, dove Tommy Barber si arruolò ci racconta un’altra storia affascinante: si trattava infatti di uno dei tanti “Pals Batalion”, appositamente costituiti dell’esercito britannico allo scopo di assecondare uomini che si erano arruolati in unità di reclutamento locali, con la promessa che avrebbero servito la patria, ma insieme ai loro amici, vicini e colleghi, arruolati pure loro, piuttosto che essere arbitrariamente assegnati ad altri battaglioni.

Saranno in molti davvero ad arruolarsi fra i calciatori professionisti, motivo per cui il nome più comunemente usato, “The Football Battalion” designerà tre diversi battaglioni: il 17th e il 23rd (Service) Battalion, che serviranno nel Middlesex Regiment e il 16th (2nd Edinburgh) (Service) Battalion che servirà nei Royal Scots, e conterà niente meno che la prima squadra, quella di riserva, diversi membri del consiglio di amministrazione e dello staff, e un considerevole numero di sostenitori del club professionistico scozzese Heart of Midlothian FC di Edimburgo, che si distingueranno nella battaglia della Somme nel 1916. Un sottotenente del Football Batalion che non passò inosservato fu Walter Tull, a lungo giocatore del Tottenham Hotspur e successivamente del Northampton, niente meno che il primo ufficiale colored arruolato nell’esercito britannico. Purtroppo morirà nei pressi del villaggio di Favreuil il 25 marzo del 1918 durante la battaglia di Baupaume, rimanendo laggiù per sempre. Il suo corpo non fu mai recuperato infatti, nonostante gli sforzi, tra gli altri, di Tom Billingham, suo amico e portiere del Leicester City, il più vicino a lui durante l’azione fatale; il nome e la classe di Tull sono tuttavia ancora ricordati nel memoriale a lui dedicato presso il Sixfields Stadium di Northampton.

Comunque il calcio era naturalmente già molto diffuso e praticato anche in Germania, soprattutto ad Amburgo, Berlino, Duisburg, Lipsia, Norimberga e Stoccarda. La nazionale di calcio era ancora debole e incerta e risentiva di un campionato – la Verbandsliga – giocato in forma di coppa fra i campioni dei sette campionati interregionali della Germania. Tuttavia la passione era già consolidata come l’ammirazione sportiva per gli inglesi, che avevano sempre sonoramente sconfitto – schierando peraltro i “loro” dilettanti – la nazionale tedesca. Il calcio, lo sappiamo, è uno sport di squadra che si può giocare ovunque, universale e istintivo contagia chiunque. Forse era inevitabile. Succede sempre, succede ovunque. Saltarono fuori dei palloni, di fortuna. E alcuni uomini di entrambe le parti liberati per un attimo dai confini delle trincee, iniziarono a tirare calci alla palla su un terreno che il freddo gelido aveva indurito, dopo giorni di pioggia e fango. Quello che seguì, però, leggendario: una vera e propria partita giocata tra britannici e tedeschi, che questi ultimi potrebbero aver vinto sconfiggendo sul campo i maestri indiscussi del gioco, per 3-2. Della tregua e della partita i media dell’epoca non parlarono, in una sorta di comprensibile autocensura, rotta infine il 31 dicembre 1914 dal New York Times e in seguito dai giornali britannici, che riportarono numerosi resoconti degli stessi soldati, ricavati dalle lettere inviate alle famiglie, pubblicando inoltre alcune sorprendenti fotografie degli eventi, in particolare il Daily Mirror, il Manchester Guardian e l’autorevole Times che approvò la “mancanza di cattiveria e la sportività”, dimostrate da entrambe le parti in quel momento felice, – battezzato Christmas truce ovvero in tedesco Weihnachtsfrieden – deplorando “l’assurda tragedia” che sarebbe ripresa dopo la tregua di Natale.

Tutto ciò è interessante perché esemplificativo di un certo carattere nazionale, forse. Infatti colpisce l’accento dei britannici sul fair play che loro intendono come quel comportamento rispettoso delle regole, che garantisce le stesse opportunità ai diversi contendenti, nello sport, nella politica e nei rapporti umani e sociali. Il racconto dell’evento in Germania invece fu smorzato, con molti giornali che espressero critiche nei confronti dei soldati partecipanti alla tregua, e nessuna immagine dell’evento fu pubblicata in ossequio al militarismo teutonico e forse in ossequio a quella visione nietzschiana che il nazionalsocialismo avrebbe strumentalizzato a breve. In Francia, i giornali ristamparono un precedente avviso del governo, secondo cui fraternizzare con il nemico costituiva tradimento, mentre il racconto della “tregua di Natale”, tendeva più che altro a minimizzare la portata e la diffusione degli eventi. Ben cento anni dopo, nella cittadina belga di Ploegsteert, l’allora presidente dell’Uefa Michel Platini inaugurava un monumento a ricordo del giorno in cui il pallone unì i soldati provenienti da due nazioni nemiche, che per qualche ora espressero la loro umanità, giocando insieme al calcio. In chiusura della cerimonia, degli emozionati ex calciatori e fuoriclasse come il tedesco Paul Breitner, l’inglese Bobby Charlton e il francese Didier Deschamps, lessero le lettere alle famiglie scritte da alcuni dei soldati che parteciparono a quella partita nel giorno di Natale.

In futuro non si ripeteranno più episodi tanto clamorosi, e non ci sarà più qualcosa di simile a quella tregua di Natale del 1914, ma come che sia andata davvero la storia quella partita si giocò, e le testimonianze non mancano attraverso le lettere scritte dai soldati di allora che raccontano l’episodio ai propri cari. Anzi, in quei giorni lungo il “fronte” si giocarono altre partite, sempre fra britannici e tedeschi. Purtroppo il calcio non fermò la guerra, ma quella storia ha un immenso valore simbolico, se contestualizzata senza retorica: mostra quali sentimenti dovrebbero sempre prevalere. Invece quasi sempre succede il contrario. A proposito: recentemente è stata scoperta una lettera scritta dal generale britannico Walter Congreve, che racconta alla moglie della tregua e della partita di calcio, anche se ammette di non averla vista con i propri occhi ma di averlo saputo da testimoni oculari. Era un bel momento, ma sarebbe finito presto. Ne dà conto, con una battuta piuttosto macabra, nella stessa lettera: “Uno dei miei uomini ha fumato un sigaro con il miglior cecchino dell’esercito tedesco, un ragazzo non più che diciottenne. Dicono che ha ucciso più uomini di tutti gli altri, è un tiratore infallibile … ma ora sappiamo da dove spara, e domani spero di abbatterlo”. Sì, la guerra sarebbe continuata.

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Ognissanti è il compleanno della Juventus. Poteva essere altrimenti?

È l’autunno del 1897 quando un gruppo di studenti torinesi del Liceo Massimo d’Azeglio, fonda l’allora “Sport-Club Juventus”, come naturale conseguenza dei pomeriggi post-scolastici trascorsi a parlare dell’association football, il nuovo sport – già affermato in Gran Bretagna – che si stava diffondendo come una febbre proprio a Torino, e che quei ragazzi avevano iniziato a giocare nella vicina piazza d’armi cittadina, imitando alcuni adulti che lo praticavano poco distante, al parco del Valentino.

Il Liceo “D’Azeglio” è oggi una delle scuole “storiche” di Torino: i suoi albori risalgono al 1831 quando nella zona sud-orientale della città, area di ampliamento nei primi decenni dell’Ottocento, venne istituito il Collegio di Porta Nuova, che nei primi anni funzionava solo con quattro classi di “grammatica”, cui a partire dal 1838-39 viene aggiunto l’insegnamento di “umanità” e infine, dall’anno scolastico 1845-46, anche l’insegnamento della “retorica” che completava il ciclo di studio all’epoca definito preparatorio. Nel 1852 il Collegio di Porta Nuova viene poi trasferito in via Arcivescovado, presso la Parrocchia della Madonna degli Angeli e più tardi, nel 1857, trova collocazione in quella che da allora è rimasta la sua sede, con il nome di Collegio Municipale Monviso, assumendo dal 1860 il nome di Regio Collegio Monviso. Con il crescere della popolazione torinese, in ripresa dopo gli anni difficili del trasferimento della capitale d’Italia prima a Firenze e quindi a Roma, intorno agli anni Ottanta del XIX secolo si sente il bisogno di creare un nuovo Liceo Classico (dopo il “Cavour” e il “Gioberti”, risalenti al 1859): nel 1882, in luogo del “Monviso”, viene così fondato il “D’Azeglio”, intitolato al grande uomo politico del Risorgimento, che comprendeva i cinque anni di corso ginnasiale (gli attuali tre anni di Scuola Media e i due ginnasiali) e i tre del corso liceale.

Gli studenti del Liceo degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento appartengono, per lo più, alla borghesia che abita i palazzi della Torino umbertina e liberty (la zona della Crocetta e il corso Re Umberto), mentre le ragazze frequentavano scuole femminili o ricevevano una forma di insegnamento familiare. Del resto l’istruzione paterna (tramite un precettore) era ancora molto diffusa anche tra i maschi: talvolta si frequentava la scuola pubblica infatti solo per sostenere gli esami. I giovani fondatori del nuovo sodalizio sono quindi molto giovani, dapprima 13 ragazzi, le due coppie di fratelli liguri Eugenio ed Enrico Canfari e Gioachino ed Alfredo Armano, il toscano Luigi Gibezzi, i piemontesi Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoja, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Luigi Forlano, Enrico Piero Molinatti ed il pavese Francesco Daprà a cui si aggiunsero successivamente altri studenti, Guido Botto, Pio Crea, Carlo Favero, Gino Rocca ed Eugenio Secco, tutti con un’età compresa tra i quattordici e diciassette anni. Il luogo tipico di riunione di questi 18 liceali era una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II; la panchina, dove i ragazzi poggiavano i loro libri e le loro cartelle, è custodita dal 2012 nel bellissimo museo del club bianconero, il J-Museum.

La data ufficiale di fondazione del club non è nota né contenuta in alcun documento e pertanto si assume come data convenzionale il 1º novembre 1897, mentre in Inghilterra da quasi trenta anni si disputava già il più antico al mondo e prestigioso dei tornei, che metteva in palio l’ambitissima The Football Association Cup [The FA Cup, o Coppa d’Inghilterra] vinta dai londinesi Wanderers (5), dall’Oxford University (1), dai Royal Engineers (1) del corpo genieri dell’esercito britannico, dall’Old Etonians (2) la squadra degli ex studenti del prestigioso Eton College, dal Clapham Rovers (1), dall’Old Carthusians (1) della Charterhouse School, dal Blackburn Olympic (1) e dal Blackburn Rovers (5), dall’Aston Villa (3), dal West Bromich Albion (2), dal Preston North End (1), dai Wolves del Wolverhampton (1), dallo Sheffield Wednesday (1), dal Notts County (1) e proprio quell’anno, per la prima volta, dal Nottingham Forest, mentre il più recente (si fa per dire, la prima edizione nel 1888) campionato inglese, denominato First Division, era un affare fra il Preston North End (2), l’Everton (1), il Sunderland (3) e campioni in carica dell’Aston Villa (3) di Birmingham. Inizialmente invece a Torino i soci fondatori del neonato sodalizio erano impegnati ad affrontare il non secondario problema della sede, risolto però dai fratelli genovesi Canfari che offrirono il retrobottega dell’officina ciclistica di proprietà del padre, in corso Re Umberto, al numero 42, dove ebbe luogo la prima riunione sociale.

Dopo una discussione accesa e molto partecipata i giovani soci selezionarono tre possibili denominazioni, fra cui votare quello che sarebbe diventato il nome della loro creatura. Una era “Società Via Fort”, il prediletto dagli studenti più classicheggianti, l’altra, caldeggiata invece dai latinofobi, era “Società Sportiva Massimo d’Azeglio” e, infine la meno quotata “Sport-Club Juventus” che alla fine – benché la maggioranza propendesse per i primi due nomi – prevalse, forse perché suonava come un elegante compromesso tra un nome anglosassone e uno latineggiante, e sembrò di certo più adatto per favorire la diffusione del nuovo sport e la passione per la squadra anche fuori dell’ambito cittadino o regionale. Mentre in Inghilterra, che da Torino si osservava con curiosità, l’irlandese Bram Stoker aveva pubblicato a Londra il suo capolavoro, il romanzo horror Dracula, che in Italia sarebbe arrivato solo nel 1922, il già famosissimo e discusso Oscar Wilde era stato rilasciato dalla prigione, e abbandonava la Gran Bretagna dove non avrebbe più fatto ritorno, e il genio italiano Guglielmo Marconi aveva brevettato la radio, sempre a Londra, e nella capitale britannica fondato la Wireless Telegraph Trading Signal Company che diventerà poi la Marconi Company Ltd, Enrico Canfari, a cui dobbiamo l’unico documento con caratteristiche di “ufficialità” attestante con sufficiente certezza la nascita e i primi anni della Juventus, scriveva che pochi simpatizzavano per il nome scelto, e che fra gli oppositori c’era proprio lui, che era il più maturo del gruppo, perché gli sembrava che quel “Juventus” più non s’addicesse ai soci una volta fattisi maturi, ma riconobbe poi di avere torto “perché nella Juventus non s’invecchia”, e proprio lui ne divenne il secondo presidente, succedendo al fratello Eugenio il quale aveva occupato il ruolo a partire dalla fondazione del club che aveva iniziato ad allenarsi sfoggiando una divisa molto semplice: una camicia bianca e lunghi pantaloni neri.

Allenamenti e primi confronti continuarono a svolgersi in prevalenza nella piazza d’armi torinese e proprio lì il giorno 11 giugno 1899 ebbe luogo la prima amichevole documentata della Juventus giocata contro la rappresentativa dell’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, sconfitto per 3-0, con tutte e tre le segnature intervenute nel secondo tempo da parte degli juventini che nel frattempo avevano adottato quella che è comunemente considerata la storica tenuta di gioco della Juventus, una camicia rosa carnicino con cravatta o farfallino nero accompagnata a pantaloni e calzettoni pure neri, introdotta dopo la sua ridenominazione del sodalizio quale Foot-Ball Club Juventus nel 1899 e originariamente adottata, date le ristrettezze economiche in cui versava il club agli albori, essenzialmente per l’esigenza di ricorrere al tessuto meno costoso disponibile sul mercato, per l’appunto il percalle rosa. Comunque questa divisa, comprendente anche voluminose cinture, che richiamavano le fasce dei giocatori di palla basca, venne sfoggiata sino all’entrata nel Novecento, e accompagnò l’esordio della Juventus nel campionato italiano del 1900, quando la squadra debuttò l’11 marzo nelle eliminatorie piemontesi perdendo 1-0 contro la FC Torinese, ma cogliendo poi il suo primo successo della storia la settimana successiva (18 marzo), superando per 2-0 la Ginnastica Torino e chiudendo il girone al secondo posto, non sufficiente per qualificarsi alla finale, dove la FC Torinese sarà poi battuta dal Genoa per 3-1 ai tempi supplementari.

Invece la stagione successiva, nell’edizione del 1901, gli juventini saranno sconfitti in semifinale dal Milan, che poi si aggiudicherà il torneo, diventando campione d’Italia per la prima volta, dopo i tre successi consecutivi del Genoa. Nel mentre le divise rosanero avevano fatto il loro tempo in casa juventina, sia perché irrimediabilmente usurate dalla pratica sportiva, sia perché il rosa era ormai visto da più parti come una tinta non conforme all’immagine che il club desiderava trasmettere. A questo punto non è più dato conoscere con certezza lo svolgimento dei fatti, che si perde nei racconti di allora, tramandati in più versioni, confusi dal tanto tempo trascorso. Si fece avanti a un certo punto un socio di nazionalità inglese, tale Gordon Thomas Savage, noto anche come John o Jim, commerciante all’ingrosso di prodotti tessili a Torino, giocatore di calcio oltreché arbitro in alcune partite ufficiali. Qualcuno racconta che Savage propose di comprare a Nottingham delle nuove divise, rosse con bordini bianchi, simili a quelle utilizzate dal Forest, la storiografia ufficiale fissa convenzionalmente al 1903 questo momento, perché nelle sue memorie Enrico Canfari racconta di «un percalle sottile e roseo che portammo, sbiadito all’inverosimile, sino all’anno 1902».

Nuove ricerche hanno ventilato l’ipotesi di retrodatare financo al dicembre del 1901 l’abbandono del rosanero e il debutto della maglia bianconera, all’amichevole contro il Milan giocata l’8 dicembre 1901 al Campo Trotter di piazza Doria a Milano, perché sulla cronaca dell’incontro riportata il giorno seguente dal quotidiano meneghino Corriere dello Sport – La Bicicletta si presenta l’ingresso dei calciatori torinesi in campo «sfoggiando i nuovi colori non più bianco e rosa ma bianco e nero». Fatto sta che, ricevuto l’incarico, Savage si mise in contatto con una fabbrica tessile di Nottingham e inviò l’ordine d’acquisto, accompagnandovi come campione la più maltrattata delle vecchie camicie rosa. Alla vista dello scolorito capo, probabilmente l’impiegato del fornitore credette che la camicia anziché rosa fosse bianca e macchiata: sicché, vista la coincidenza con i colori bianconeri della più antica compagine di Nottingham, il Notts County, uno dei più antichi club del calcio inglese, fondato nel 1862, pensò bene di spedire in Italia una dotazione di uniformi appunto dei Magpies. A Torino, quando fu aperto il grosso pacco postale, inizialmente le quindici maglie a strisce verticali bianche e nere decisamente non piacquero, ma data la prossimità degli impegni ufficiali non vi erano alternative per i soci-giocatori juventini. Vale la pena di ricordare tuttavia che Savage prima di trasferirsi in Italia in Inghilterra aveva giocato a calcio militando nel Notts County che solo pochi anni prima aveva vinto la Coppa d’Inghilterra nel 1894 ed era la sua squadra del cuore.

In ogni caso i nuovi colori porteranno fortuna e segneranno la progressiva e inarrestabile ascesa del club bianconero. Intanto il 10 aprile del 1903 per la prima volta una squadra straniera venne invitata a disputare una gara in territorio italiano, successe al Velodromo Umberto I, dove la Juventus ospitò gli svizzeri del Montriond Lausanne, e venne sconfitta per 0-1. Mentre il 13 aprile 1903 i bianconeri parteciperanno per la prima volta alla finale del campionato italiano di calcio, sul campo sportivo di Ponte Carrega a Genova, in Val Bisagno, dove saranno travolta dal fortissimo Genoa che sconfiggerà la Juventus nettamente con un perentorio 3-0. Il 1904 tuttavia qualcosa cambierà, arrivarono alla Juventus nuovi soci e in particolare i tre fratelli Alessandro, Annibale e Riccardo Ajmone Marsan che organizzeranno al meglio le “riserve” e il cui facoltoso padre Marco si impegnerà a pagare l’affitto del nuovo campo di gioco ufficiale che diventò il Velodromo Umberto I, dotato di tribune che iniziarono a riempirsi. Nel campionato italiano di Prima Categoria, dopo avere vinto le eliminatorie, per la seconda volta consecutiva la Juventus arrivò in finale contro il Genoa, perdendo tuttavia ancora una volta sull’inviolabile campo di ponte Carrega, ma questa volta con il risultato di 1-0. Nel 1905 divenne poi presidente della Juventus lo svizzero Alfred Dick, un uomo caratteriale e spigoloso, grande organizzatore e proprietario di un’industria molto bene avviata di calzature, che rinforzerà la squadra inserendo alcuni giocatori, suoi dipendenti, che renderanno la Juventus più solida. In quella stagione la società spostò la sua sede a via Donati 1 e il nuovo presidente firmò un lungo contratto di affitto per l’utilizzo del Velodromo di corso Re Umberto.

Nel campionato dello stesso anno la Juventus aveva superato il girone eliminatorio vincendo 2-0 per forfait le due partite contro la Torinese, ritiratasi dalle eliminatorie regionali. Dopo due anni in cui la vittoria fu solo sfiorata nel 1905 finalmente la Juventus riuscì a cogliere il suo primo titolo di campione d’Italia. La nuova formula delle finali nazionali metteva di fronte tutti e tre i campioni regionali, ma la sorpresa arrivò dalla Lombardia: un Milan alle prese con un ricambio generazionale, causato dall’addio di molti dei suoi fondatori inglesi, fu per la prima volta eliminato dalla US Milanese in due gare spettacolari, come sovente se ne verificavano all’epoca. Nel girone finale però la US Milanese giocò prevedibilmente il ruolo del «vaso di coccio»: infatti perse i primi tre incontri, mentre gli scontri diretti tra la Juventus e il Genoa finivano in entrambi i casi in parità, ma quando all’ultima giornata i rossoblu del Grifone accolsero la US Milanese sicuri di una facile vittoria che li avrebbe condotti allo spareggio a sorpresa non si andò oltre il pareggio, consegnando di fatto il titolo per la prima volta nella sua storia alla Juventus che così poté sollevare la Coppa Spensley, donata alla Federazione Italiana di Football dal portiere del Genoa, James Spensley, e scolpita dallo scultore genovese De Albertis. Il trofeo rimpiazzò la Coppa Fawcus, appena vinta proprio dai genovesi, e si basava sugli stessi principi, venendo consegnata a titolo provvisorio a ogni squadra vincitrice del campionato, e a titolo definitivo a chi si fosse imposto per tre stagioni consecutive oppure cinque complessive.

Gli undici giocatori della Juventus che vinsero il campionato italiano per la prima volta furono Domenico Durante, che in seguito diventerà l’illustratore del mensile Hurrà Juventus e delle campagne promozionali dei bianconeri torinesi, Gioacchino Armano, Oreste Marzia, lo svizzero Paul Arnold Walty, il capitano Giovanni Goccione, lo scozzese Jack Diment, Alberto Barberis, Carlo Vittorio Varetti, Luigi Forlano, l’inglese James Squair e Domenico Donna, quest’ultimo giocatore-allenatore della squadra che quell’anno si aggiudicò anche il torneo di Seconda Categoria, a cui partecipavano sia le squadre riserve sia le prime squadre di club non iscritte alla Prima Categoria. Gli artefici della vittoria della Juventus II furono Francesco Longo, Giuseppe Servetto, Lorenzo Barberis, Fernando Nizza, Ettore Corbelli, Alessandro Ajmone Marsan, Ugo Mario, Frédéric Dick, Heinrich Hess, Marcello Bertinetti e Riccardo Ajmone Marsan, che a coronamento di una stagione straordinaria ottennero un clamoroso successo per 2-1 sui titolari, freschi campioni d’Italia, nella partitella in famiglia al termine del stagione.

Da allora le strisce bianche e nere sfoggiate dalla Juventus e riconosciute in tutto il mondo sono diventate un simbolo di autorità e potere, che nella storia del calcio ha pochi eguali.

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Manchester non è solo cotone e rivoluzione. Il racconto dello United che fece l’impresa, quello di Matt Busby. Prima di Alex Ferguson.

All’inizio del XX secolo, un arco temporale caratterizzato dalla rivoluzione russa e dai regimi totalitari, dalle due guerre mondiali e dalla grande depressione del 1929, la città di Manchester era la nona conurbazione più popolosa al mondo. Si presentava allora come il cuore della produzione tessile (e non solo) dell’Impero britannico, tanto da essere soprannominata Cottonopolis o Warehouse City, intendendo per magazzino [warehouse] quella struttura logistica in grado di ricevere le merci, stoccarle e renderle disponibili per lo smistamento, la spedizione e la consegna. Ai giorni nostri, in pieno XXI secolo, Manchester, anzi The Greater Manchester, è una città proiettata verso un futuro sostenibile, ricco in egual misura di opportunità culturali e d’intrattenimento, con l’ambizione di essere l’alternativa settentrionale allo strapotere finanziario e politico di Londra, la capitale del Regno (e forse del mondo intero).

Manchester is my Heavan. Il mio Paradiso, diceva sir Matt Busby, il creatore del Manchester United degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Paradiso forse è troppo, anche se per lui lo fu di certo, ma di certo oggi si tratta di una città molto cool. Il sistema di canali dello storico quartiere di Castlefield oggi ricorda il periodo in cui la città era un centro manifatturiero e, grazie al Manchester Ship Canal, un grande porto, ma è soprattutto l’epicentro da cui si irradia la vivace vita serale e notturna della città. Animata dalla folta comunità studentesca che frequenta la prestigiosa Manchester University, dove nel 2004 uno dei suoi 25 premi Nobel, il team di fisici Andrej Gejm e Konstantin Novosëlov, ha isolato per la prima volta al mondo il grafene. Questa università, dove insegnano economisti del calibro di Joseph Stiglitz, premio Nobel pure lui, ospitò niente meno che il grande crittografico e matematico Alan Turing, il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale, che morì suicida, ingerendo una mela avvelenata con cianuro di potassio. Una fine tragica ma coerente col carattere eccentrico del personaggio, che prese spunto dalla fiaba di Biancaneve, mentre la mela, riprodotta nella statua che lo ricorda nel cortile dell’ateneo, è all’origine del logo della Apple.

La cultura e la tecnica scorrono in effetti nelle vene di questa città. Il Museum of Science & Industry, il più completo al mondo nel suo genere, ospita la riproduzione del cosiddetto Manchester Baby, il primo computer elettronico a programma memorizzato della storia, progenitore dei moderni elaboratori programmabili e il Manchester Mark 1, che consentì di sperimentare con successo il primo dispositivo al mondo di memoria RAM. Invece l’originale People’s History Museum ripercorre i cambiamenti sociali ed economici intervenuti dalla Rivoluzion industriale in avanti, conservando l’archivio del Labour Party e delle Trade Unions. Poi c’è la sede decentrata dell’Imperial War Museum (North), presso i vecchi cantieri navali di Salford Quays, che oggi sono un moderno distretto multimediale in grado di ospitare i più grandi studi fuori Londra della BBC Television Service, che ha portato in dote alla città la BBC Philharmonic, ed ospita quella che è stata la prima rete televisiva privata in Europa a trasmettere pubblicità commerciale, nata a Manchester come Granada Television, che oggi si chiama ITV. E non manca certo la musica dal vivo anche per i più giovani, nella città degli Oasis, dove la Manchester Arena è la più capiente arena indoor del Regno Unito e la seconda in Europa. Infine il National Football Museum che ha sede dove il 6 dicembre 1882 si svolse una conferenza convocata per fissare regole comuni per gli incontri internazionali e si propose la costituzione dell’International Football Association Board, nella città che oggi è riconosciuta come una delle capitali del football mondiale, sede infatti di due squadre di planetaria importanza, il City e lo United.

I Citizens dopo gli sporadici successi degli anni Trenta e a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, attraversarono un periodo di declino, raggiungendo il punto più basso della loro storia sportiva, iniziata nel 1880, quando retrocessero al terzo livello del campionato inglese nel 1998/99. Oggi, la proprietà del principe emiratino Mansur bin Zayad Al Nahyan, che ha acquistato il club nei primi anni del nuovo millennio, come canale utile alla promozione della compagnia aerea Etihad Airways, ha reso il City una delle società più vincenti d’Inghilterra e ricche d’Europa, finalmente all’altezza della rivale cittadina. La rivale, appunto. Lo United è una delle poche squadre ad aver conquistato, almeno una volta, tutte le competizioni europee e mondiali a cui ha partecipato, capace di lasciare una traccia indelebile in ben tre diverse epoche sportive, due volte – quella dei Busby Babe e della United Trinity – sotto la guida di sir Matt Busby, dal 1945 al 1971, vincendo 5 volte il massimo campionato nazionale inglese [The First Division], 2 volte la Coppa d’Inghilterra [The FA Cup], 5 volte la FA Community Shield (in pratica la Supercoppa inglese, conosciuta anche come Charity Shield, fra i vincitori del campionato e della coppa nazionale) e la Coppa dei Campioni; un’altra quella firmata da sir Alex Ferguson dal 1986 al 2013, capace di vincere ben 13 volte la Premier League, 5 volte la Coppa d’Inghilterra, 4 volte la Coppa di Lega inglese [The League Cup], 10 volte la FA Community Shield, e fra i trofei internazionali 1 volta ciascuna la Coppa delle Coppe, la Supercoppa d’Europa, la Coppa Intercontinentale, la Coppa del Mondo per Club e 2 volte la UEFA Champions League. Ma quest’ultima è un’altra storia.

Quella che conosciamo come Inghilterra del Nord nell’antichità era occupata dalle tribù celtiche dei Briganti [Brigantes], e si chiamava per l’appunto Brigantia. Era probabilmente una confederazione di tante tribù sparse fra le coste inglesi bagnate a ponente dal Mare di Irlanda e a levante dal Mare del Nord. L’attività militare romana era iniziata nell’isola quando nel 55 e nel 54 a.C. l’esercito di Gaio Giulio Cesare dalla Gallia, dov’era impegnato nella sottomissione di quelle vaste regioni, per la prima volta mise piede in Britannia. Di fatto, quelle incursioni non portarono a nessuna conquista territoriale, ma crearono una serie di clientele che avrebbe portato il Sud dell’isola nella sfera d’influenza culturale ed economica di Roma. Invece, la vera e propria conquista romana della Britannia iniziò sistematicamente su impulso dell’imperatore Claudio. Nel 43 d.C. durante la prima fase dell’invasione i Brigantes riuscirono a mantenere la propria indipendenza, salvo decidere in seguito di sottomettersi a Roma, ottenendo di presidiare il confine dell’impero, fino al limite che nella prima metà del II secolo d.C. verrà fortificato con il Vallo di Adriano oltre il quale si trovava la Caledonia, l’indomita Scozia. I romani fondarono all’epoca, siamo nel 70 d.C., la più importante città dell’area e la chiamarono Castra Devana [l’odierna Chester] dal nome del fiume Dee, eleggendola fino al 380 d.C. a quartier generale della ventesima legione [Legio XX Valeria Victrix] e facendone uno dei principali centri di tutta la Britannia romana.

Poco più a nord di Chester, una tribù fra le tante aveva eretto su di un colle di arenaria una roccaforte in posizione strategica, controllando le rive del fiume Irwell. E proprio lì il governatore romano Giulio Agricola, al fine di proteggere gli insediamenti imperiali dalle iniziative indigene (e siamo arrivati al 79 d.C.) fece costruire una fortezza chiamata Mamucium o Mancunio. Forse una latinizzazione di un nome originale brittonico, il significato di mamm– rimanda a una collina mentre il termine mamma, evoca una dea fluviale intesa come madre. Il suffisso –chester invece è più noto e deriva dall’antico inglese ceaster, che stava per “fortificazione romana”, un prestito dal latino castra. Risultato: Manchester. In pratica un posto di blocco sul traffico di merci e persone, mentre fuori dalle mura del forte era sorto un insediamento civile, dove le famiglie dei militari si dedicavano al commercio con le popolazioni locali. Tutto cominciò così. Peraltro Manchester, i cui abitanti ancora si chiamano mancunians, in ricordo dell’antico nome, nonostante la posizione strategica, rimase praticamente fino alla Rivoluzione industriale una località secondaria, in pratica poco più di un villaggio, privo anche di una diocesi.

Un clima atmosferico ideale alla lavorazione dei tessuti e la migliore tecnologia, in particolare l’invenzione del telaio idraulico, brevettato nel 1769 da Richard Arkwright, barbiere semianalfabeta ma meccanico geniale. Questa combinazione determinò la crescita esponenziale delle imprese insediate a Manchester e l’affermazione di un nuovo ceto di imprenditori e mercanti, che acquistavano la materia prima, la trasformavano e – dopo aver soddisfatto il mercato domestico – la esportavano in tutto il mondo. Il successo di questo universo di piccoli e medi capitalisti produrrà proprio a Manchester tendenze politiche inedite per l’epoca, mentre la Gran Bretagna, sconfitta la Francia nelle guerre napoleoniche, emergeva come la prima potenza navale e imperiale al mondo. Manchester era detta Cottonopolis, e definita la capitale mondiale del cotone, e proprio lì germinò il movimento liberoscambista, legato ai grandi interessi industriali dell’epoca, da Manchester provenne infatti il paladino della lotta contro il protezionismo, l’uomo d’affari Richard Cobden, che insieme a John Bright, uno dei più illustri oratori della sua generazione, presidente della Camera di Commercio cittadina, animerà la Anti-Corn Law League.

Richard Cobden e John Bright riuscirono a guadagnare al loro movimento capitalista un vasto consenso, ottenendo anche l’appoggio delle masse di lavoratori, descrivendo la miseria come conseguenza del protezionismo, due mali che andavano combattuti entrambi per costruire una società più equa. Così si impose nel dibattito pubblico il cosiddetto Manchester Liberalism, apostrofato come Manchesterism dagli avversari, che accusava apertamente il governo di voler difendere oltre ogni ragionevolezza, attraverso le cosiddette Corn Laws – un sistema di dazi e protezioni sulle importazioni – gli interessi e i privilegi dell’aristocrazia rurale, a discapito della nascente borghesia imprenditoriale e professionale delle città. La regina Vittoria, preoccupata per lo scontro ideologico che agitava la società, decise di seguire il corso degli eventi sostituendo il governo conservatore con uno del medesimo colore ma affidato alla guida energica di un giovane primo ministro. Robert Peel, quello che da Home Secretary durante il regno di Giorgio IV aveva creato la Metropolitan Police, i cui componenti sono noti come Bobbies (dal suo nome di battesimo, Robert), senza incertezze decise di abolire tutta la legislazione protezionista, varando una riforma doganale senza precedenti, eliminando i dazi applicati alle materie prime, e lo fece contro il partito Tory, di cui peraltro era un autorevole esponente, guadagnando però i voti dell’opposizione parlamentare del partito Whig.

La cosiddetta Scuola di Manchester [The Manchester School] aveva vinto, anzi aveva stravinto, mentre l’incontrastato dominio marittimo britannico, commerciale e militare, detto Pax Britannica, inaugurava un lungo periodo di pace e prosperità in Europa, fino al 1914, trasformando la Gran Bretagna nel “laboratorio del mondo”. Questo primato era rappresentato plasticamente dalla prima Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le Nazioni organizzata a Londra nel 1851, per celebrare l’industria e il dominio tecnologico britannico sul resto del mondo, nella cornice del celebre Crystal Palace, un enorme, quanto sbalorditivo, edificio in ferro e vetro. A Manchester invece erano i giganteschi magazzini di mattoni a dominare il panorama cittadino, testimoni della stupefacente capacità mercantile del cuore industriale dell’Impero, che nel frattempo si ampliava. Gli Stati Uniti infatti si stavano emancipando, ma Sua Maestà britannica governava il Subcontinente indiano, le colonie africane, senza soluzione di continuità dall’Egitto al Sudafrica, e molti altri territori in tutto il mondo, che si aggiungevano all’Australia, alla Nuova Zelanda e al Canada, regnando così su un quinto della popolazione mondiale e un quarto dell’intera superficie terrestre, esercitando non solo il controllo delle colonie, ma un condizionamento decisivo su gran parte del commercio mondiale, e quindi sulle economie di molte altre regioni, come in Sudamerica. Ecco perché i tessuti filati a Manchester raggiungevano via mare ogni angolo del pianeta, attraverso il Manchester Ship Canal, un percorso artificiale di circa 60 km che seguiva in parte il corso del fiume Mersey, e raggiungeva il mare di Irlanda, poco distante da Liverpool.

Banchine, gru, moli e magazzini entrarono quindi a far parte del panorama cittadino, in particolare fra le zone di Salford e Trafford (proprio lì dove oggi sorge lo stadio dello United, l’Old Trafford), quando Manchester, dopo Londra e Liverpool, era diventata il terzo porto d’Inghilterra. Tuttavia in un paese che nel complesso si arricchiva sempre più e imponeva ovunque nel mondo il proprio modello di sviluppo, appariva come una contraddizione il dilagare impressionante della miseria. Le città, trasformate dalla Rivoluzione industriale, stavano crescendo in modo incontrollato, travolte dall’immigrazione e dall’aumento della popolazione, e così pure Manchester dove vasti quartieri diventavano formicai fatiscenti nei quali le case erano frazionate in appartamenti sempre più piccoli, fino a diventare dormitori che ospitavano in condizioni impossibili i nuovi poveri. Charles Dickens, forse il più grande romanziere di tutti i tempi, in Oliver Twist, il suo secondo romanzo apparso in forma di libro già nel 1838, racconta al mondo la storia di un orfano, nato in una workhouse per donne e sfruttato come bambino-lavoratore. Fu uno dei primi esempi di romanzo sociale, e l’inedita rappresentazione anti-romantica della vita quotidiana dei delinquenti e dei poveri, oltre che il crudele trattamento riservato a molti orfani alla metà del XIX secolo. Attraverso un dissacrante umorismo nero, il romanzo analizzava i mali della società inglese ottocentesca: la povertà, il lavoro minorile, la criminalità urbana e la intrinseca ipocrisia della cultura vittoriana, secondo la quale la povertà era, in un certo qual modo, meritata da chi era privo di coraggio e del desiderio di migliorarsi. Una sorta di castigo divino.

In quella società così brutale in verità bastava poco per essere annientati. Non c’era nessuna protezione sociale, se una persona possedeva nient’altro che le proprie energie per lavorare alle dipendenze di qualcun altro era sufficiente un capriccio del padrone, un infortunio, un incidente o una malattia per perdere il lavoro e scivolare nella disperazione. Milioni di persone oneste ma sfortunate ricevevano un salario appena sufficiente a nutrirsi o erano costrette a sopravvivere tramite l’accattonaggio o la prostituzione nel degrado degli Slum, che assomigliavano a veri e propri gironi infernali. Per chi era lontano da quei luoghi dannati non doveva essere immaginabile che cosa significasse abitarli, ed era opinione diffusa che quella folla di derelitti dovesse le proprie sventure solo all’incapacità di vivere una vita migliore. Per i vittoriani non c’erano sfumature nel giudicare i poveri, considerati una piaga sociale, persone cattive e depravate che avevano scelto una vita disonesta o che si erano dimostrati immeritevoli di vivere meglio. La New Poor Law approvata dal Parlamento britannico nel 1834, in coerenza con le aspettative della società vittoriana, elevava a sistema la famigerata Workhouse, un’istituzione che ben rappresentava l’ipocrisia vittoriana. Nella teoria una Workhouse era un luogo deputato a offrire ai più poveri, che non erano in grado di trovare un impiego retribuito, di guadagnare il vitto e un alloggio in cambio del proprio lavoro. In queste fabbriche, al tempo stesso casa e campo di lavoro, si entrava volontariamente ma ci si obbligava a rimanere a lungo, accettando una disciplina molto dura e la rottura del nucleo familiare, gli uomini da una parte, e le donne e i bambini dall’altra, bambini che, se non erano lattanti, lavoravano e andavano a scuola, in previsione di un futuro migliore e del loro inserimento nella società.

In realtà, perché come mi piace ricordare la teoria e la pratica sono la stessa cosa in teoria, ma in pratica no, quelle istituzioni servivano alla Gran Bretagna vittoriana non per combattere la povertà ma per praticare l’internamento dei poveri. Infatti questi enormi edifici erano delle fabbriche dove i poveri trascorrevano le giornate a lavorare, con il permesso di fermarsi solo per mangiare due volte al giorno pasti frugali e infine per dormire. Una volta dentro non si poteva più uscire liberamente e si veniva annullati, come persone. Si abbandonavano all’ingresso i propri effetti personali e i vestiti, per indossare la divisa di appartenenza, e si lavorava e basta, senza alcuna possibilità di emancipazione o di istruzione, come delle bestie da soma. Ogni insubordinazione era punita duramente, si dovevano sopportare umiliazioni e punizioni, come essere lasciati senza mangiare o percossi brutalmente dai guardiani. Le camerate enormi dove a questi schiavi, perché di questo si trattava, era concesso di dormire erano mantenute in condizioni igieniche disumane, ricettacolo di ogni malattia. Questa era la realtà, anche se si voleva dare a intendere un arretramento della miseria, si segregavano i poveri (lavoratori). Un espediente cinico e disumano, non così distante concettualmente con le pratiche naziste che faranno inorridire l’umanità. Le statistiche ufficiali erano menzogne, la povertà non veniva combattuta ma semplicemente nascosta. Lo testimonierà Friedrich Engels, che alla fine del novembre 1842 partirà per Manchester, allo scopo di completare il suo tirocinio commerciale presso una fabbrica tessile di cui il padre, un importante industriale tedesco, era comproprietario.

Questo soggiorno in Inghilterra fu basilare per la formazione politico-ideologica di Engels, egli studiò la condizione della classe operaia e la sua azione politica. Dal suo tirocinio commerciale svolto a Manchester nacque il saggio dal titolo La condizione della classe operaia in Inghilterra nel quale compariranno i concetti principali del socialismo scientifico: lotta di classe, ruolo del fattore economico nella storia e rovesciamento del sistema capitalistico e critica dell’economia politica classica e del suo presupposto ideologico. Engels notò che a Manchester i poveri sembravano reduci da una campagna militare, avevano corpi mutilati da incidenti sul lavoro, deformati dal rachitismo o provati dalla tubercolosi. Descriverà inoltre i tuguri dove famiglie malnutrite vivevano stipate nella promiscuità sessuale, assediate dai vizi dell’alcolismo e della violenza. La sera poi le strade di quei quartieri-ghetto chiamati Slums si trasformavano in enormi mercati della prostituzione, dove le operaie più giovani si vendevano a chiunque per sopravvivere, abbandonate ai loro aguzzini del momento e ignorate dai predicatori della morale vittoriana, che le considerava colpevoli in ragione del degrado in cui erano costrette a consumarsi. Il saggio di Engels costituì un forte atto d’accusa contro la borghesia inglese, responsabile a causa della propria sfrenata avidità dell’impoverimento dei lavoratori, fino all’omicidio sociale, consumato in questo ambiente industriale dipinto come un inferno sulla terra, dove questi diseredati, mal pagati e affamati, considerati alla stregua di oggetti morivano dimenticati.

Lo scrittore americano Mark Twain, con il suo tagliente umorismo, sosteneva che avrebbe voluto viverci perché il passaggio da Manchester alla morte sarebbe stato impercettibile. E così siamo tornati in prossimità del XX secolo, quando l’economia di Cottonopolis si era diversificata e non era più solo tessile. Il dinamismo prodotto dal canale marittimo, unito all’abbondanza di manodopera a buon mercato, offrirono le condizioni per la nascita del primo parco industriale pianificato del mondo, che ai giorni nostri è ancora il più vasto d’Europa: il Trafford Park, realizzato dai lungimiranti amministratori cittadini sui vasti terreni un tempo appartenuti all’aristocratica famiglia De Trafford. Il successo dell’intuizione rapido e furono in molti a volersi insediare nel distretto, dalla Brooke Bond & Company, il più grande importatore e distributore di tè al mondo dell’epoca a Ford Motor Company, da Rolls Royce a British Westinghouse, consociata dell’americana Westinghouse Electric Corporation, che impiegavano complessivamente solo in quell’area circa centomila lavoratori. Qualche anno dopo, a proposito di diversificazione, sarebbe arrivato anche il football a Trafford Park. Infatti nel 1910 sarà terminato lo stadio del Manchester United, battezzato non casualmente Old Trafford. Il grande complesso, realizzato a cura dell’architetto e ingegnere scozzese Archibald Keir Leitch, aveva una capienza di 12mila posti al coperto di una vasta tribuna centrale e di oltre 70 000 posti sulle gradinate all’aperto, che recintavano il campo da gioco con terrazzamenti curvi intorno agli angoli, dandogli l’aspetto di un teatro all’aperto, ed era lo sfogo ideale per i tanti operai del distretto.

Andiamo però a scoprire cosa c’era prima del Manchester United e dell’Old Trafford, perché si tratta di una storia eroica. Si parte da Newton Heath, oggi parte di Manchester, era in villaggio a circa 4 chilometri dal centro cittadino, dopo la rivoluzione industriale sede di industrie metalmeccaniche, tessili e minerarie, nella fertile zona di Clayton Vale e Bradford dove un tempo c’erano molte fattorie. Lì c’era anche un deposito di proprietà di una delle tante compagnie ferroviarie che a quel tempo prosperavano, ecco perché nel 1878 nascerà l’omonimo Newton Heath Lancashire and Yorkshire Railway Football Club, che permetteva ai lavoratori, vestiti con i colori aziendali, il verde e l’oro, di praticare lo sport, segnatamente il football, affrontando nei tornei regionali le altre squadre aziendali. Un vero e proprio “DLF”, il Dopo Lavoro Ferroviario, che una volta anche in Italia non mancava mai in ogni città sede di una stazione ferroviaria di certe dimensioni. In seguito alla prima organizzazione dei campionati nazionali che saranno articolati su più livelli, il Newton Heath verrà ammesso alla First Division nel 1892/93, dopo un paio di stagioni in fondo alla classifica retrocederà nella serie cadetta, la Second Division, dalla quale non risalirà più, lasciando invece il campo insalubre di North Road, accanto a una fabbrica chimica e al deposito della Lancashire and Yorkshire Railway, per trasferirsi in quello di Bank Street, nel Clayton. Il nuovo impianto, capace di contenere fino a 50mila spettatori, era comunque assediato da fabbriche e ciminiere, ma soprattutto era di proprietà della diocesi locale che si rivelerà particolarmente esosa. Dettaglio niente affatto trascurabile.

Difatti il Newton Heath si stava emancipando dalla società ferroviaria di derivazione, non era più una squadra aziendale ma oramai a tutti gli effetti un sodalizio sportivo con un discreto seguito popolare. Certo non era in grado di competere con i club più forti dell’epoca, come l’Aston Villa, l’Everton, il Liverpool, il Preston North End o il Sunderland, ma disputava dignitosamente il campionato cadetto, dove spesso incrociava l’Arsenal, il Manchester City, il Notts County o il West Bromich Albion, quindi squadre di tutto rispetto. Purtroppo gli Heathens a causa di una gestione approssimativa erano già gravati da più di un problema finanziario, che rendeva difficile lo svolgimento dell’attività sportiva a causa dei debiti accumulati. Si trovava, in pratica, sull’orlo della bancarotta quando si materializzerà l’uomo della provvidenza, che avrebbe cambiato la storia sportiva della città (e non solo). Si chiamava John Henry Davies, già imprenditore immobiliare di successo, era il proprietario della Manchester Brewery Company (che la birra e i pub da quelle parti sono un ottimo affare) è molto impegnato in una vasta gamma di attività filantropiche, a beneficio della comunità. Il primo incontro fra Davies e il capitano del Newton Heath, Harry Stafford, è leggendario. Certamente fu decisivo per le sorti del club e in ogni caso davvero curioso. Infatti Stafford allo scopo di raccogliere donazioni utili a pagare i debiti del club aveva organizzato una raccolta fondi in prossimità di St. James Hall, nel centro di Manchester, sperando di sensibilizzare i mancuniani a sostegno della causa del Newton Heath. E fu allora che il cane di razza San Bernardo, che Stafford aveva chiamato The Major, ed era la mascotte della squadra, si perse tra la folla. Venne notato dal gestore di un ristorante, un tale John Robert Thomas, che lo affiderà alla figlia di John Henry Davies, abituale cliente del suo locale, che era molto incuriosita osservando questo grande cane, così affettuoso e mite.

Stafford accortosi della scomparsa cercò The Major disperatamente ma non riuscì a trovarlo, e decise di pubblicare un annuncio Lost & Found sul Manchester Evening News. Fortunatamente per lui la famiglia Davies lesse il giornale e l’appello, e così decise di contattare Stafford per restituirgli The Major, ma a quel punto fu JH Davies ad accompagnare dal legittimo proprietario perché gli avrebbe formulato un’offerta molto generosa per acquistare il San Bernardo, dal momento che sua figlia gli si era molto affezionata. A Strafford il denaro avrebbe fatto molto comodo e l’offerta era molto generosa, di quelle che abitualmente non si rifiutano, tuttavia il ragazzo era troppo legato al suo cane e garbatamente respinse la proposta dell’imprenditore, che ne rimase sorpreso. JH Davies si informò dell’altra grande passione del ragazzo e chiese notizie circa l’esito dell’iniziativa di raccolta fondi in favore del Newton Heath. Si stava formando una buona opinione di Stafford, e decise di aiutarlo nella sua impresa. Tanto per cominciare JH Davies offrì a Stafford un impiego, suggerendogli di gestire uno dei suoi tanti locali che poi avrebbe potuto rilevare garantendosi un futuro, e soprattutto, coinvolgendo altri imprenditori in relazione d’affari con lui, si determinò a salvare il Newton Heath, saldandone gli ingenti debiti ed evitandone la liquidazione, rilevando così il sodalizio e diventandone proprietario e presidente, con l’intenzione di farne una squadra vincente.

1902. Dopo 23 anni il Newton Heath si trasforma, e possiamo considerarla una rifondazione del club, che assumerà un differente profilo. Una volta saldati tutti i debiti e concluso il procedimento di liquidazione del sodalizio il nuovo presidente JH Davies non perse tempo, e convocò una riunione aperta al più vasto pubblico possibile allo scopo di presentarsi ai supporter e alle altre parti interessate al futuro del club. I cambiamenti iniziarono dal nome, che visto il perduto legame con il villaggio di Newton Heath andava senz’altro aggiornato. La nuova denominazione sarà da quel momento in avanti Manchester United Football Club, scelta, pare, dopo un acceso dibattito fra i sostenitori dell’ipotesi “Celtic”, che a JH Davies non piacque perché too scottish, e quelli dell’ipotesi “Central” che neppure riscosse molto gradimento perché too industrial, mentre al proprietario piacque moltissimo l’appellativo “United”, proposto da Louis Rocca. Va detto che non ci sono prove documentali dell’intervento decisivo di Rocca che peraltro ha rivendicato la paternità della denominazione per tutta la vita, senza che nessuno smentisse lui o i suoi discendenti che l’hanno sempre sostenuto pubblicamente. E in effetti in molti avrebbero potuto se avessero creduto il contrario, perché Rocca lo United non lo lasciò mai, e non si contano fra l’altro gli attestati di stima formulati dai principali personaggi della storia del club, rivolti all’uomo che ha saputo sempre agire nell’interesse superiore del club, in ogni circostanza necessaria. Lo United, dopo la denominazione, adottò anche nuovi colori sociali in luogo della maglia a quarti verde e oro del Newton Heath, scegliendo il rosso per la maglietta, il bianco per i calzoncini e il nero con una fascia bianco-rossa per i calzettoni.

Intanto il pub The Imperial, dell’omonimo hotel, era stato eletto a quartiere generale della nuova squadra, che riscosse da subito grande interesse e favore popolare contendendo al Manchester City l’affetto degli appassionati mancuniani. Come nota a margine, a quel punto vale la pena segnalare che Stafford decise di regalare alla figlia di JH Davies il suo amato cane San Bernardo, The Major, mentre nella galleria dei personaggi che hanno avuto un ruolo decisivo nella storia dello United, appare Louis Rocca, che all’epoca della fatidica riunione di cui s’è già detto aveva meno di vent’anni. I suoi genitori erano italiani, il papà Luigi Rocca era un pasticcere, che produceva e vendeva con successo ottimi gelati. Louis, nato nel 1882 già nel 1894 era un tifoso sfegatato del Newton Heath e per assistere alle partite senza pagare il biglietto era solito scavalcare la recinzione del campo. Non sempre però riusciva a dileguarsi tra la folla dei tifosi, e in più di qualche occasione fu bloccato dallo steward del club che tuttavia conosceva i genitori di Louis e non se la sentì di denunciare il ragazzo. Allora gli suggerì un patto: gli avrebbe consentito di accedere al campo liberamente, alle partite dal prato, se avesse preparato al posto suo il tè e il caffè per i giocatori nell’intervallo delle partite (che nell’Inghilterra dell’epoca, durante le pause dell’attività sportiva, non era una prassi infrequente), e magari avesse portato anche qualche pasticcino di quelli prodotti dal padre in bottega. Affare fatto, Louis non se ne sarebbe persa più nemmeno una di partita, acquisendo sempre più confidenza, un po’ tea boy, un po’ magazziniere, un po’ addirittura osservatore in giro per la città, alla ricerca di talenti da ingaggiare.

La nuova società esordirà in Second Division, la serie cadetta il 6 settembre del 1902, vincendo in trasferta contro il Gainsborough Trinity per 1-0 e terminerà quel campionato 1902/03 al 5º posto, mentre nelle due stagioni successive occuperà il 3º posto alla fine del torneo, e finalmente l’anno successivo lo United arriverà 2º ottenendo di diritto la promozione in First Division, dove al primo tentativo centrerà addirittura l’8º posto, confermando le ambizioni dell’ambiente. I tempi infatti erano maturati e il Manchester United vincerà il suo primo titolo di campione d’Inghilterra nella stagione 1907/08, e lo farà in modo convincente, mantenendo a distanza l’Aston Villa di Birmingham e i concittadini del Manchester City per tutta la competizione. Dopo poche stagioni sarà capace di ripetersi vincendo la First Division nel 1910/11, questa volta con un solo punto di vantaggio sull’Aston Villa, che all’epoca era la squadra da battere, avendo trionfato ben sei volte in First Division. Ai primi successi dello United occorre aggiungere due FA Community Shield vinte nel 1908, regolando il QPR per 4-0, e nel 1911 infliggendo allo Swindon Town un pirotecnico 8-4, aggiudicandosi anche la sua prima The FA Cup [la prestigiosa Coppa d’Inghilterra] nel 1908/09, prevalendo di misura 1-0 sul Bristol City e portandosi a casa il trofeo più antico al mondo a cui gli inglesi tengono moltissimo. Il presidente JH Davies, galvanizzato da quella squadra che considerava con ragione una sua creatura, aveva deciso nel frattempo che era arrivato il momento di costruire un grande stadio di proprietà per accogliere il vasto pubblico che lo United aveva iniziato ad attrarre e, come già accennato, aveva acquistato un lotto di terreno nel comprensorio industriale di Trafford Park, dove sorgerà in quegli anni quella che ancora oggi è la casa dello United, l’Old Trafford.

Dopo quei primi entusiasmanti successi lo United vivrà anni difficili. In effetti non raggiungerà più risultati degni di nota, anzi fra la prima e la seconda guerra mondiale alternerà solo stagioni anonime in First Division ad altre ancora più deludenti, retrocedendo ben tre volte nella serie cadetta. Sarà considerato uno “yo-yo club”, come i britannici definiscono quelle squadre discontinue che offrono spesso stagioni contraddittorie. Lo United soffrirà anche in Second Division, arrivando addirittura a un soffio dalla retrocessione in Third Division, e concludendo la stagione del 1933/34 al ventesimo posto, ad oggi il peggior piazzamento della storia del club. In quegli anni anche la città di Manchester, benché in continua crescita demografica, viveva difficoltà gravi legate alla crisi dell’industria tessile, in ragione della “Great Depression” [il collasso economico e finanziario che sconvolse il mondo alla fine degli anni Venti, iniziato negli Stati Uniti, con il Crollo di Wall Street]. Lo United, morto improvvisamente il presidente JH Davies nel 1927, si trovava in assenza di una guida sicura in grandi difficoltà finanziarie, anche a causa della diffusa disoccupazione presso i lavoratori, gli operai infatti, senza lavoro o con paghe ridotte, disertavano lo stadio, precipitando il club nuovamente a rischio di estinzione. Anche questa volta tuttavia la bancarotta sarà evitata grazie all’intervento di un una persona generosa. Si tratta di James William Gibson, un imprenditore tessile che aveva fatto fortuna principalmente grazie al contratto di forniture delle divise alle forze armate britanniche.

JW Gibson fin da ragazzo frequentava l’Old Trafford insieme al padre che era un gran tifoso dello United e considerava la squadra un orgoglio e un vanto per Manchester. Il nostro Louis Rocca lo sapeva perfettamente dal momento che da ragazzi i due frequentavano lo stadio insieme, e per questo suggerì al segretario dello United di andare urgentemente a trovare JW Gibson nella sua residenza fuori città, informandolo circa la gravità della situazione. Era certo che un uomo del genere non si sarebbe mai tirato indietro e non avrebbe permesso il dissesto del suo club preferito. Non sbagliava, infatti JW Gibson una volta a conoscenza delle drammatiche circostanze senza tentennare decise di acquisire il controllo del club, risanando immediatamente la situazione finanziaria e garantendo così la sopravvivenza dello United, impegnandosi a raddoppiare gli investimenti secondo un piano di sviluppo ben meditato, nel quale anche Rocca aveva un ruolo. Infatti, in ragione delle sue qualità di fixer [faccendiere o risolutore, che dir si voglia] e in virtù della sua proverbiale capacità di individuare giovani di talento meritevoli di attenzione sportiva, gli venne affidato un progetto fortemente voluto dal presidente Gibson, quello del Manchester United Junior Athletic Club (MUJAC), in pratica si trattava della creazione di una squadra giovanile con il compito di far crescere lì i migliori giovani della contea, garantendosi così un patrimonio di talento utile a costruire in casa il proprio futuro.

Rocca non se lo fece ripetere. Era figlio di italiani, inserito in un ampio contesto relazionale in ragione della fede cattolica che praticava, e partecipava attivamente alle attività di un’istituzione chiamata Manchester Catholic Sportsman’s Club, che riuniva molti atleti e attraverso la pratica sportiva faceva proseliti. Rocca aveva mobilitato i sacerdoti individuando nella parrocchia e nell’oratorio i luoghi di incontro di molti giovani dove intercettare i prospetti più interessanti sia per qualità umane che talento, convincendo poi le famiglie ad indirizzarli verso il Manchester United con la prospettiva di essere calciatori. È una cosa che oggi può far sorridere, ma all’epoca si trattava di un’intuizione e funzionò egregiamente. Lo United Juniors infatti crebbe e guadagnò vasto consenso, e fra le squadre di pari età della regione non aveva rivali. Era tale l’impegno profuso da Rocca e l’efficienza del suo network, che gli avversari iniziarono, in modo strumentale, a parlare dello United come di una squadra “cattolica”. Sul tema si insisterà nuovamente, sempre per destabilizzare l’ambiente, quando si apprenderà che (il futuro allenatore) Matt Busby assisteva quotidianamente alla messa nella parrocchia di St. John’s in Chorlton-cum-Hardy, suggerendo ai suoi giocatori di fare altrettanto. Cattolico devoto, Busby aveva addirittura riservato al parroco di St. John’s, un sacerdote irlandese, un posto all’Old Trafford, dove padre Sewell era atteso e gradito ospite ad ogni partita dello United. Nel 1972 a testimonianza della profonda fede di Busby il papa Paolo VI lo nominerà Cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno, ritenendolo per “provata fedeltà alla Chiesa, degno di essere onorato con una pubblica espressione di stima da parte della Santa Sede”.

La battaglia d’Inghilterra è il nome della campagna aerea svoltasi durante la seconda guerra mondiale, combattuta dall’aeronautica militare tedesca, la Luftwaffe, contro la Gran Bretagna tra l’estate e l’inverno del 1940. L’obiettivo della campagna era di guadagnare la superiorità aerea sull’aviazione militare britannica, la Royal Air Force (RAF), e particolarmente contro i suoi aerei da caccia, allo scopo di poter poi dare il via all’Operazione Seelöwe [Leone Marino], la progettata invasione nazista della Gran Bretagna attraverso l’attacco anfibio della Wehrmacht e il lancio dei suoi paracadutisti. Hitler stava seguendo il programma del suo manifesto, il Mein Kampf, che contemplava, sia pure come contrattempo indesiderabile, anche di muovere la guerra contro i britannici, e per questo aveva deciso di procedere, oramai presumeva di essere infallibile. Prima di allora non c’era mai stata al mondo una campagna di guerra combattuta interamente da forze aeree, ma Hitler sapeva in realtà di non avere alternative. Infatti la Home Fleet [la flotta di casa], come i britannici chiamano tradizionalmente la flotta della Royal Navy che ha il compito di proteggere le acque territoriali del Regno Unito, avrebbe distrutto ogni forza di sbarco molto prima che potesse avvicinarsi alle coste inglesi, e anche se miracolosamente i tedeschi le avessero raggiunte si sarebbero trovata sotto il fuoco delle batterie costiere che solo i grossi calibri di una squadra di corazzate – che il Reich non possedeva – avrebbero potuto impensierire.

Nella primavera del 1940 iniziarono quindi massicci bombardamenti dell’aviazione tedesca, che colpirono tuttavia principalmente obiettivi militari, come aeroporti e porti inglesi. Peraltro, dopo il rifiuto netto di ogni ipotesi di accordo di pace da parte di Winston Churchill, che il Führer sperava di avere intimidito, il dittatore nazista diede l’ordine esecutivo di “annientare le forze aeree e l’industria bellica” inglese. Fu il cosiddetto Adlertag [il giorno dell’aquila], l’8 agosto 1940. All’esito, con il progredire della battaglia, la Luftwaffe iniziò a colpire non solo le infrastrutture della RAF ma passò a bombardare anche i cantieri e le fabbriche, fino a commettere però un errore tattico. L’aviazione nazista infatti iniziò la pratica del bombardamento terroristico – che in principio Hitler aveva escluso perché dispersivo – con l’obiettivo non solo di distruggere le forze nemiche terrestri, marine o aeree, e danneggiare la capacità di produzione industriale britannica, ma di punire la popolazione, fiaccandone la volontà di resistere e combattere, convinto che la Gran Bretagna si sarebbe arresa. Per cinquantasette notti consecutive – e una sessantina di giorni – la Luftwaffe infierì sulle città inglesi, e perfino Mussolini volle partecipare inviando un corpo aereo italiano, a quel massacro, mentre Churchill confortava i superstiti e arringava il suo popolo tra le macerie provocate da centomila tonnellate di bombe. Sarà allora che Manchester – città industriale e manifatturiera, dove peraltro avevano sede molte fabbriche dedite allo sforzo bellico, la Avro in particolare, che produceva il bombardiere strategico Lancaster – pagherà un prezzo molto alto, perché sarà attaccata e bombardata senza pietà.

Il Manchester Blitz, nelle notti del 22/23 e del 23/24 dicembre 1940, ricorda quando la città venne flagellata, il porto canale, le aree industriali di Salford, Stretford e il distretto di Trafford Park, bombardati incessantemente. Non venne risparmiato neppure il centro cittadino e furono colpiti gli edifici della Cattedrale, del Municipio, del Royal Exchange, del Free Trade Hall, del Palace Theatre, e oltre 8mila case private, incendiate o distrutte, con migliaia di morti e feriti. Anche l’Old Trafford sarà danneggiato, ma continuerà ad essere utilizzato fino all’11 marzo 1941, quando altre bombe, dirette alle fabbriche che assemblavano i bombardieri Lancaster della RAF, lo colpirono, causandone la distruzione e – questa volta – la chiusura fino al 1949, con lo United che giocherà alla ripresa post bellica del campionato le proprie partite casalinghe a Maine Road, lo stadio dei rivali Citizens. La battaglia d’Inghilterra comunque, nonostante tutto, la vincerà eroicamente la Gran Bretagna, che non si arrese, anzi dimostrò una considerevole capacità di reazione e di superiorità tecnologica. Gli Stukas infatti risultarono troppo lenti e male armati per competere contro lo Spitfire, il temibile caccia della RAF, capace di schiantare la Luftwaffe tedesca, che a quel punto ufficialmente “doveva prepararsi ad altri compiti”. Ma era chiaro che l’Inghilterra, benché ferita, era rimasta in piedi e andava, anzi, sfoderando artigli sempre più affilati, mentre la Luftwaffe, esausta, aveva dovuto gettare la spugna. Non fu solo una vittoria britannica tuttavia, fu molto di più. Se la campagna fosse stata vinta dai tedeschi, la storia avrebbe preso una direzione differente, invece la vittoria britannica segnò la prima sconfitta della macchina da guerra di Hitler e generò un netto cambiamento di orientamento dell’opinione pubblica statunitense, sino ad allora dubbiosa circa la capacità britannica di resistere alla Germania. “Mai, nel campo dei conflitti umani, così tanti dovettero così tanto a così pochi”, dirà il primo ministro Winston Churchill, in un memorabile discorso di guerra e di ringraziamento.

Terminata la seconda guerra mondiale, era arrivato il momento di ricominciare, anche per il football. Il Manchester United si era salvato dal dissesto grazie al presidente Gibson che ne aveva garantito la continuità, ma alla crisi economica fra le due guerre mondiali si sommavano ben trentacinque anni senza gioie per i tifosi. Lo United infatti non aveva vinto più nulla, dopo i primi trionfi della sua storia, salvo tre campionati di Second Division quando, dopo le dolorose retrocessioni, era poi tornato nella First Division. Occorreva cercare soluzioni diverse, per tornare competitivi, creando qualcosa di nuovo, per questo serviva un allenatore tanto bravo quanto giovane, ma di poche pretese. Era il momento di Matt Busby, e Louis Rocca lo sapeva. Come molti altri atleti in forza al Liverpool, durante la guerra, Busby fu arruolato per l’esercito di Sua Maestà, a servire sotto il King’s Liverpool Regiment e poi, in virtù delle sue qualità, venne impiegato con l’Army Physical Training Corps, acquisendo così molta esperienza nell’allenamento e nella preparazione degli atleti. In prossimità della fine del conflitto e quindi dell’imminente congedo, Busby era consapevole dei limiti imposti al suo fisico dall’età, e di non essere quindi più in grado di offrire le prestazioni a cui aveva abituato i suoi tifosi al Manchester City prima e al Liverpool poi. Accolse quindi con interesse la proposta del club di Anfield Road che gli offriva alla ripresa del campionato la possibilità di passare dal campo alla panchina, come assistente del nuovo tecnico dei Reds, George Kay, del quale poi pensò, una volta acquisita la necessaria esperienza, avrebbe potuto prendere il posto, magari in un futuro prossimo.

Non è dato sapere come, ma la proposta del Liverpool a Busby arrivò all’orecchio attento di Louis Rocca, che reagì immediatamente. Il Chief Scout dello United era in confidenza con Matt Busby dai tempi in cui lo scozzese militava nel City e viveva a Manchester, entrambi erano cattolici devoti. Rocca era convinto che lo scozzese fosse la persona giusta al momento giusto e facesse al caso dello United. Così nel dicembre del 1944 gli scrisse una lettera facendo appello alla loro amicizia, ipotizzando un’opportunità interessante. Rocca non aggiunse altro. Aveva timore infatti che qualcuno potesse intercettare il messaggio e non voleva essere indiscreto. Invitò quindi Busby a raggiungerlo a Manchester, sulla fiducia. Nel frattempo dal 4 all’11 febbraio 1945, un altro appuntamento si svolgeva a Jalta, in Crimea, tra i leader delle tre potenze alleate in guerra, Winston Churchill, primo ministro della Gran Bretagna, Franklin Delano Roosevelt, presidente degli Stati Uniti d’America e Iosif Stalin, segretario del partito comunista dell’Unione Sovietica, erano impegnati in conferenza per discutere, in base il principio delle cosiddette sfere d’influenza, i piani per la conclusione della guerra contro le potenze dell’Asse, l’occupazione e la spartizione della Germania e il successivo assetto dell’Europa e dell’Estremo Oriente.

Pochi giorni dopo, il 19 febbraio del 1945 Busby raggiunse con discrezione l’amico di un tempo, Louis Rocca, a Manchester e chiese di essere ragguagliato in merito al contenuto della lettera. In quello stesso giorno, per tutta risposta si ritrovò in presenza del board dello United, presieduto da Gibson. Busby era una persona semplice, aveva conosciuto la povertà, la prima guerra mondiale gli aveva portato via il padre e non fosse stato per un inaspettato provino per il Manchester City, dopo che il Celtic e i Rangers di Glasgow lo avevano scartato, si sarebbe lasciato tutto alle spalle e avrebbe raggiunto la madre che si era rifugiata negli Stati Uniti. Ma quel provino coi Citizens gli cambiò la vita e Manchester la sua casa. L’impatto fisico e la grinta del Busby calciatore convincono infatti i tecnici del City che lo inseriscono nelle giovanili dove sarebbe diventato un punto di riferimento del centrocampo, come arcigno mediano di spinta. Tre stagioni più tardi è finalmente pronto per la prima squadra, nelle cui fila si farà onore arrivando a conquistare una storica vittoria nella Coppa d’Inghilterra, messa in bacheca nella stagione 1934, prima di passare ai rivali del Liverpool dove arriverà a indossare la fascia di capitano. Poi la seconda guerra mondiale rimescolerà le carte del gioco e, come detto, interverrà Louis Rocca.

Allora, torniamo allo United. Matt Busby firmerà il suo contratto solo il 1º novembre del 1946, una volta libero dagli impegni militari con l’esercito, ma l’accordo con il board era già stato suggellato da una semplice stretta di mano fra lui e il presidente Gibson, ben un anno e mezzo prima. Lo scozzese nel corso di quella prima riunione, propiziata da Louis Rocca, aveva accettato un ingaggio molto contenuto (anche per gli standard dell’epoca) e così aveva fatto la felicità dei dirigenti dello United, ma poi aveva dettato le sue condizioni. Per iniziare aveva preteso non le tre stagioni che gli erano state offerte, ma ben cinque anni di contratto. Erano necessari, a suo parere, per sviluppare il progetto che aveva in mente, ma gli avrebbero dovuto concedere pieni poteri di gestione e organizzazione della squadra e del club, nonché di essere l’unico responsabile delle scelte atletiche, tecniche, e di mercato dello United, senza dover tollerare alcuna intromissione. Il board accettò, concedendo a Busby anche un appartamento e quattro settimane l’anno di ferie pagate. Era la prima volta che in Inghilterra in una squadra di calcio si attribuiva tanto credito e tanto potere a una sola persona, si tratteggiava la figura del manager nel senso moderno del termine. Adesso pare ovvio, ma all’epoca non lo era affatto, e si trattò di una vera e propria rivoluzione. Busby fra l’altro non si potrà sedere sulla panchina nel magico perimetro di Old Trafford, non subito. Era ancora inagibile, e per tre stagioni guiderà lo United nel suo vecchio stadio, il Maine Road, che per qualche tempo sarà così la casa di entrambe le squadre di Manchester.

Busby sorprese tutti, da subito. Era un gran lavoratore e un perfezionista. Burbero, ma dal cuore gentile. Aveva idee nuove soprattutto, e un approccio mai visto in precedenza. Organizzò i suoi collaboratori: Jimmy Murphy, seguiva il settore giovanile dello United allo scopo di favorire la crescita dei giovani migliori per la prima squadra; Bert Whalley, tecnico preparatissimo che tutte le settimane spiegava ai giocatori i loro difetti affinché migliorassero; e Tom Curry, che, tra gli altri suoi compiti, era una sorta di coach con l’incarico di sostenere la crescita morale dei ragazzi. I giocatori riconobbero immediatamente il carisma di Busby e impararono a fidarsi di lui, c’era empatia. Era come se Busby scendesse in campo con loro, perché respirava l’atmosfera degli spogliatoi insieme ai suoi ragazzi, durante gli allenamenti si vestiva con lo stesso completo dei giocatori, faticando con loro, ma senza mai confondere i ruoli, perché lui era il boss e all’occorrenza sapeva dimostrarsi duro. Riusciva a motivare sempre la squadra, valorizzando le caratteristiche di abilità e il talento di ciascuno. Il calcio che il suo United era capace di esprimere era solido quanto veloce, e portava in campo quel desiderio di vittoria insopprimibile che animava Busby, e che egli riuscì a trasmettere ai suoi ragazzi. E in effetti lo United, una squadra che prima della guerra era alla deriva, completamente incolore, cambierà pelle. Immediatamente. Nelle prime 5 stagioni in panchina Busby sfiorò ripetutamente il titolo, arrivando per ben 4 volte 2º e già nel 1947/48, alla sua seconda stagione completa, aveva vinto la Coppa d’Inghilterra battendo per 4-2 in finale il Blackpool; al sesto tentativo nel 1951/52 arrivò finalmente anche il suo primo titolo di campione d’Inghilterra, il terzo per il club, al termine di un lungo testa a testa con le londinesi Tottenham e Arsenal.

Busby stava lavorando in coerenza al progetto che aveva tratteggiato anni prima al board dello United e i risultati erano arrivati. Aveva mantenuto la promessa, e la squadra era adesso il prodotto di un’amalgama fra giocatori d’esperienza e giovani arrembanti, ma Busby aveva deciso di accelerare il ricambio generazionale dando fiducia a ragazzi molto giovani che tuttavia lo confortavano come Bill Foulkes, Mark Jones, Jackie Blanchflower, Albert Scanlon, David Pegg e soprattutto Duncan Edwards. Dopo la vittoria della FA Community Shields nel 1952/53 sul Newcastle United, sconfitto 4-2, per questi ragazzi il giornalista Frank Nicklin, del Manchester Evening News, conierà l’appellativo di Busby Babes. La squadra era una macchina perfetta fondata sul talento dei suoi interpreti che Busby aveva organizzato attraverso una precisa idea di gioco. Il giovane United, dopo un paio di stagioni di assestamento, ne disputò altre due memorabili quando vinse il titolo d’Inghilterra nel 1955/56, con 11 punti di vantaggio su Blackpool e Wolverhampton Wolves, confermandosi campione nel 1956/57, con 8 punti di vantaggio su Tottenham Hotspur e Preston North End. Erano titoli conquistati nettamente, con una squadra dall’età media bassissima (22 anni) dove aveva esordito il 6 ottobre 1956 a soli 19 anni Bobby Charlton, segnando due goal, ironia della sorte, a un club che portava il suo stesso nome, il Charlton Athletics, giusto un paio di settimane prima del trionfo nell’edizione 1956 della FA Community Shield, dove lo United sconfisse 1-0 il Manchester City, bissando la vittoria nel trofeo la stagione successiva, nel 1957, dopo aver liquidato con un perentorio 4-0 l’Aston Villa. Quello United fu la prima squadra inglese a partecipare alla Coppa dei Campioni d’Europa nel 1956/57, contro il parere dei benpensanti conservatori della federazione inglese, che non volevano accettare il confronto con il resto del mondo.

Si trattava della seconda edizione assoluta della competizione più prestigiosa, vinta anche quella volta dal Real Madrid, che sconfiggerà in finale la Fiorentina. I ragazzi di Busby si faranno onore oltre ogni aspettativa, elimineranno infatti i campioni belgi dell’Anderlecht vincendo 0-2 a Bruxelles e 10-0 a Manchester, i tedeschi del Borussia Dortmund vincendo in Inghilterra 3-2 e pareggiando in Germania, i baschi dell’Atletich Club perdendo a Bilbao 5-3 e ribaltando all’Old Trafford il risultato vincendo nettamente 3-0, dovendosi arrendere solo in semifinale ai campioni in carica del Real Madrid, le Merengues erano invincibili e si imposero nettamente 3-1 a casa loro fermando i Busby Bases a Manchester con un pareggio 2-2 all’esito di una partita combattuta. La crescita di quella squadra di ventenni era stupefacente ed entusiasmò tutta l’Inghilterra. La stagione successiva in Coppa dei Campioni lo United esordì contro gli irlandesi dello Shamrock Rovers vincendo 0-6 a Dublino e 3-2 in Inghilterra, eliminando poi i cecoslovacchi del Dukla vincendo 3-0 a Manchester e limitando la sconfitta 0-1 a Praga. Lo United dovette affrontare a quel punto la Stella Rossa di Belgrado, una delle squadre più forti del momento. In Inghilterra, la squadra di Busby aveva vinto una perdita dura per 2-1. Il 5 febbraio 1958 a Belgrado – con due gol di Charlton e un altro di Viollet – lo United resse agli attacchi slavi pareggiando 3-3 e approdando in semifinale, dove lo attendeva il Milan. Il 6 febbraio la squadra si stava preparando per tornare a Manchester, ma il volo fu ritardato di un’ora perché Johnny Barry aveva perso il passaporto. Il comandante James Thain, un ex tenente della RAF, ai comandi dell’Airspeed Ambassador, si diresse quindi da quello di Belgrado all’aeroporto di Monaco di Baviera, dove l’aeromobile avrebbe fatto una sosta per fare rifornimento.

I ragazzi erano stanchissimi. L’aereo per ben due volte non era riuscito a decollare, perché i motori si erano surriscaldati, forse a causa delle condizioni della pista. Tutti i passeggeri avevano fatto ritorno al terminal mentre la tempesta di neve su Monaco si intensificava e le condizioni della pista si facevano poco rassicuranti. Il decollo non sarebbe stato prudente e la torre di controllo suggerì di rimandare la partenza. Duncan Edwards pertanto spedì dall’aeroporto un telegramma alla padrona di casa sua, a Stretford, il quartiere di Manchester a ridosso dell’Old Trafford, per avvertirla che non sarebbe tornato a casa in tempo per la cena. “Tutti i voli sono stati cancellati. Arriveremo a Manchester domani.” Un gesto premuroso di questo ragazzo coraggioso in campo quanto gentile nella vita di tutti i giorni, verso chiunque. Il comandante, dopo avere a lungo riflettuto, propose alla comitiva ancora un paio di tentativi, e così fu stabilito. Fatalmente. Al terzo tentativo infatti Thain decise di percorrere per intero la pista più lunga disponibile. L’aereo partì e raggiunse una velocità dopo la quale non sarebbe stato prudente interrompere la manovra, ma non riuscì a raggiungere quella necessaria al decollo: il motore sinistro si era infatti surriscaldato nuovamente e l’aeroplano era finito sulla parte finale della pista in terra battuta, che però era coperta da un leggero strato di neve caduto fra il secondo e il terzo tentativo di decollo. L’aeroplano iniziò a frenare ma scivolò ad alta velocità sopra uno strato viscido di fango e neve e sfondò la recinzione della pista. Attraversò una strada e si schiantò contro una casa. Dopo l’impatto, il lato sinistro della cabina dei piloti prese in pieno un albero: l’urto spinse la fusoliera contro un capanno di legno al cui interno era parcheggiato un camion, il quale conteneva pneumatici e aveva caricato anche una cisterna di carburante, che esplose all’istante e prese fuoco con l’aeroplano.

Erano le 3 e 4 minuti del pomeriggio. Harry Gregg provvidenzialmente sbalzato fuori mentre l’aeromobile si spezzava, riuscì benché ferito gravemente a portare in salvo il coach Matt Busby il giovane Bobby Charlton. Poi il silenzio e quindi i soccorsi. L’immagine dell’incidente era agghiacciante. Nell’incidente morirono il co-pilota e lo steward di cabina. Morirono il segretario del club Walter Crickmer, il preparatore Tom Curry, l’assistente tecnico Bert Whalley e sette giornalisti al seguito, oltre all’agente di viaggi che aveva organizzato la trasferta e un tifoso dello United. Morirono sul colpo i calciatori Geoff Bent (25), Roger Byrne (25), Eddie Colman (21), Mark Jones (24), David Pegg (22), Tommy Taylor (26) e Liam Whelan (22). Duncan Edwards, il fuoriclasse della squadra, riuscì a sopravvivere al tremendo impatto, ma morì 15 giorni dopo per sopraggiunte complicanze ai reni. Era il più famoso fra i Busby Babes. Ricordato come centrocampista difensivo, ma le sue qualità di coraggio, forza fisica, intelligenza, resistenza alla fatica, spiccata personalità e velocità, gli permettevano di ricoprire praticamente qualsiasi ruolo in campo e di trascinare i compagni di squadra. Stanley Matthews, primo vincitore del Pallone d’oro nel 1956, lo descrisse come «una roccia in mezzo al mare in tempesta», mentre Bobby Moore lo paragonò alla «Rocca di Gibilterra», insuperabile in difesa quanto costante nella propensione offensiva. Duncan si distingueva per la forza e il tempismo nei contrasti, per l’efficacia dei colpi di testa e l’elevazione nel gioco aereo e per la capacità di passare e calciare il pallone indifferentemente con entrambi i piedi.

A detta di Charlton, campione del mondo e Pallone d’oro nel 1966, Duncan Edwards è stato l’unico calciatore capace di farlo sentire “nettamente inferiore”. Come che fosse questo ragazzo a soli ventuno anni era la stella e il trascinatore del Manchester United e una delle promesse della Nazionale inglese. Era anche altro, un ragazzo gentile e riservato, con l’hobby del cinema e della pesca, ammirato da tutti per la sua sobrietà, era un po’ il “fidanzato” d’Inghilterra e la sua scomparsa fu un vero shock nazionale. Ancora oggi è celebrato in svariati modi. Nella sua città natale, nel 1961 proprio Matt Busby inaugurò nella chiesa di St. Francis, una vetrata dipinta che lo raffigura, mentre nel 1999 la madre Sarah Anne e Bobby Charlton gli dedicarono una statua posta nel centro della città di Dudley. Quella Coppa dei Campioni poi l’avrebbe vinta il Real Madrid, per la terza volta su tre edizioni, superando in finale ma solo ai tempi supplementari un Milan straordinario, che in semifinale aveva avuto la meglio su quello che rimaneva dello United. Gli inglesi infatti andarono in campo con una selezione allestita allo scopo di onorare la competizione e la memoria dei loro compagni caduti, e in effetti giocarono per vincere, prevalendo all’Old Trafford 2-1 sugli italiani, ma a Milano i rossoneri li travolsero con un perentorio 4-0. È interessante notare che la stagione successiva l’Uefa invitò lo United a giocare la Coppa a fianco del Wolverhampton che aveva vinto il campionato. Tuttavia la lega professionistica inglese diede parere contrario dato che il club mancuniano quel privilegio non l’aveva conquistato sul campo e quindi non avrebbe dovuto partecipare alla competizione, opinione che lo United rispettò non iscrivendosi alla manifestazione.

Dalla tragedia si era salvato Matt Busby, che passò tre mesi in ospedale a Monaco di Baviera e ricevette per ben due volte l’estrema unzione, essendo in grave pericolo di vita. Dopo aver tenuto tutti con il fiato sospeso, una volta dimesso, contro ogni parere e previsione medica, nell’arco di poche settimane Busby tornerà a sedersi a bordo campo, affrontando il dolore fisico ma soprattutto morale in ragione di quelle vite cancellate, dedicandosi anima e corpo a ricostruire lo United. Bobby Charlton, aveva solo vent’anni, ma sarebbe stato la colonna portante insieme a un altro sopravvissuto, Bill Foulkes, del progetto che Busby aveva ben chiaro in mente. Non fu una passeggiata, perché il campionato inglese è sempre combattuto e per qualche stagione lo United avrebbe faticato nelle retrovie della massima serie, rischiando anche più del dovuto, ma i prodotti del vivaio e i risultati della rete di osservatori coordinata da Louis Rocca non si fecero attendere. Un paio di stagioni per oliare gli ingranaggi, ma già nel 1962/63 il Manchester United vincerà la Coppa d’Inghilterra regolando il Leicester City per 3-1, mentre l’anno successivo arriverà al 2° posto nella First Division, con l’esordio incerto ma promettente di un certo George Best. In quel biennio aveva impressionato soprattutto lo scozzese Denis Law, che aveva segnato qualcosa come 75 reti ufficiali in due anni solari, dando ragione a Matt Busby che ne aveva preteso l’acquisto dal Torino. In Italia infatti il Toro sperava di fondare sullo scozzese il nuovo corso del “dopo Superga”, ma non aveva funzionato.

Funzionò eccome a Manchester, invece. I tifosi soprannominarono il biondissimo ragazzo di Aberdeen The King [il Re] e The Lawman [la Legge], mentre per gli avversari era Denis the Menace [la Minaccia], ed era più che una minaccia: era implacabile. Denis Law vinse il Pallone d’oro nel 1964, come migliore giocatore d’Europa, e durante la cerimonia a lui dedicata per la consegna del premio dichiarò la sua filosofia: “Sul campo bisogna combattere, questo è il calcio, senza la lotta, il gioco perde il suo senso. Non mi interessa quello che si pensa di me, io non cambio”. E non cambiò mai, Denis Law. Lo scozzese aveva un talento impressionante e con lui in campo la squadra si sentiva più sicura e capace di vincere ogni partita. L’astuzia, la rapidità di movimento e l’anticipo secco sul difensore gli consentirono di segnare gol a raffica e diventare uno degli attaccanti più forti della sua epoca. Formava una coppia perfetta con l’inglese Charlton, e su di loro Matt Busby basava gli equilibri dello United. Bobby Charlton era un giocatore potente e preciso, quanto era elegante. Agiva soprattutto come mezzala, ma i suoi strappi palla al piede, partendo dalle linee più arretrate, la sua capacità di passaggio, di regia e di inserimento negli spazi, il tiro potente dalla media e lunga distanza, nonché la sua leadership, divennero leggendari e lo consacrarono come uno dei fuoriclasse della sua epoca.

Bobby Charlton infatti è considerato ancora oggi il più grande giocatore espresso dal calcio britannico e uno dei più forti centrocampisti in assoluto di questo sport. Fu decisivo nella vittoria della nazionale inglese del Campionato mondiale del 1966, e si aggiudicherà in quello stesso anno anche il Pallone d’oro. Giocatore duro nello scontro, ma di una correttezza esemplare, era rispettato da colleghi e tifosi avversari. Secondo Matt Busby “Era così vicino alla perfezione, come uomo e come giocatore, che di più sarebbe stato impossibile”. E poi, a comporre la Holy Trinity [letteralmente, la SS. Trinità], o in maniera meno blasfema la United Trinity, c’era George Best, niente meno. Questo incredibile giocatore fu subito battezzato Il quinto dei Beatles, non solo per i capelli a caschetto, quanto perché ebbe sul calcio lo stesso effetto che il quartetto di Liverpool aveva prodotto sulla musica contemporanea. Nato a Belfast, dopo essere stato scartato dalla sua squadra del cuore, il Glentoran, perché “troppo piccolo e leggero”, il suo talento fu notato dagli osservatori dello United, entusiasti delle qualità che il ragazzo mostrava di possedere. Busby lo invitò a Manchester per effettuare un provino, ma Best aveva solo 15 anni e riuscì solo poco a poco a superare la nostalgia di casa. Intanto si allenava con le squadre giovanili dello United, come dilettante, e lavorava come fattorino a Trafford Park, mentre Busby faceva attenzione a fortificare quel ragazzo gracile per farlo esordire appena possibile in First Division, cosa che accadrà contro il West Bromich Albion all’Old Trafford il 14 settembre del 1963, senza peraltro lasciare il segno.

Tuttavia Best era un divo naturale e senza studio, e le cose iniziarono a cambiare attorno a lui. Fu più o meno in quel periodo che la stampa nazionale iniziò davvero a occuparsene. Era diverso dagli altri. I calciatori di allora non portavano capelli lunghi e non giocavano con la maglia fuori dai calzoncini, lui sì e non portava mai i parastinchi, perché le regole sono fatte per essere infrante si dice, e lui le infrangeva tutte, non perché fosse un ribelle o perché stesse cercando di dimostrare qualcosa. Era semplicemente fatto così. Best era equilibrio, tecnica e velocità. Aveva inoltre la capacità innata di mantenersi in piedi, di non perdere il controllo del pallone nonostante gli sgambetti e le entrate omicide dei picchiatori di allora, anche su campi disastrati la sua inaudita rapidità d’esecuzione gli conferiva una potenza insospettabile nel tiro e nello stacco di testa, mentre la sua capacità funambolica di dribblare l’avversario, come una sorta di grazia irridente, non aveva eguali al mondo. Il giovane George in campo metteva il cuore, e il pubblico glielo riconosceva, per questo lo amava alla follia. Non sarà dimenticato mai più Best, nonostante il nordirlandese durò non più di quattro stagioni ai suoi livelli. Insieme con Bobby Charlton e Denis Law, George Best formerà anima e cuore di quella squadra irresistibile. Quello United vinse il titolo della First Division nel 1964/65, grazie alla miglior media goal rispetto al Leeds United, facendosi onore nell’edizione della Coppa dei Campioni 1965/66, dove liquidò i finlandesi dell’HJK vincendo 3-2 a Helsinki e 6-0 all’Old Trafford, poi stese i campioni tedeschi dell’Est del Vorwards, sconfitti 2-0 a Berlino Est e 3-1 a Manchester, e pure il forte quanto solido Benfica, regolato a fatica 3-2 in Inghilterra ma travolto 5-1 a Lisbona, soprattutto dalle giocate incontenibili di George Best, fermandosi in semifinale a Belgrado. Una trasferta tristemente evocativa di brutti ricordi, dove lo United sarà sconfitto 2-0 senza riuscire a ribaltarla, vincendo all’Old Trafford solo per 1-0, e lasciando via libera ai campioni jugoslavi del Partizan che contenderanno la vittoria al Real Madrid, perdendo di misura contro i campioni di Spagna, che vinceranno la loro sesta Coppa dei Campioni.

Lo United con due giornate di anticipo vincerà la First Division anche nella stagione 1966/67, mettendo in bacheca anche la prestigiosa FA Community Shield sia nel 1966 che nel 1967, riprovando nell’edizione 1967/68 l’assalto alla Coppa dei Campioni. I ragazzi di Busby si sbarazzeranno facilmente dei loro primi avversari, i maltesi dell’Hibernians, 4-0 a Manchester e 0-0 nella città di Paola sulla terra battuta, poi toccherà agli slavi del Sarajevo, pareggiando 0-0 in Bosnia e vincendo all’Old Trafford 2-1, e ai polacchi del Gornik, vincendo 2-0 i Inghilterra e perdendo 0-1 a Zabrze. Nelle semifinali lo United si sarebbe trovato di fronte il Real Madrid, in declino ma sempre temibilissimo in Europa. In Inghilterra Best regalerà la prima partita agli inglesi che vinceranno 1-0, sfiorando l’eliminazione in Spagna, dove alla fine del primo tempo si trovavano sotto 1-3 contro i Blancos, reagendo furiosamente e segnando con Sadler e Foulkes, raggiungendo il 3-3 e staccando il biglietto per la finale che si sarebbe giocata a Wembley contro il solito Benfica di Eusebio, alla quinta finale in otto anni e già due volte campione d’Europa. Concetto Lo Bello diresse un match palpitante e ricco di emozioni e colpi di scena. Una partita bellissima. Charlton aveva portato in vantaggio il Manchester, ma a undici minuti dalla fine Garca aveva pareggiato e rimandato tutto ai supplementari. Busby in cuor suo temeva una distrazione della sua squadra, invece i suoi ragazzi dominarono i prolungamenti e in sei minuti segnarono tre reti con Best (che beffò il portiere con un gioco di prestigio e poi esitò beffardamente prima di infilare la palla in rete), Kidd e ancora Charlton. Il Manchester United 4-1 sconfisse così il Benfica dopo i tempi supplementari e per la prima volta un club inglese salì sul tetto d’Europa.

Da Bill Foulknes a Brian Kidd, da Nobby Stiles ad John Aston, sono tanti i volti di quel trionfo, che componevano una rosa che comprendeva ben tre vincitori del Pallone d’oro, Denis Law nel 1964, Bobby Charlton nel 1966 e George Best che lo riceverà proprio in quel 1968, dopo aver segnato quell’anno ben 32 reti in gare ufficiali. E tuttavia il migliore di tutti fu proprio Bobby Charlton, uomo ovunque, vero leader di quella squadra di cui era il capitano e la roccia. Sopravvissuto a Monaco di Baviera. Sarà lui a sollevare la Coppa dei Campioni con quell’iconica maglia blu, indossata durante la finale di Wembley in luogo della consueta maglia rossa. Il trionfo dello United sarà dedicato alla memoria dei Busby Babes, a conclusione di una stagione memorabile. Alcuni allenatori hanno difficoltà a costruire una squadra veramente grande. Sir Matt Busby ne ha costruite tre. All’Old Trafford, il leggendario tecnico scozzese ha fatto del Manchester United un’istituzione, la sua influenza e la sua visione del gioco del calcio rimangono caratteristiche del club. Senza Busby, forse non ci sarebbe stato Alexander Ferguson. Due personaggi che condividevano nazionalità, carisma e metodi. Busby era magari più imperturbabile, ma mostrava lo stesso equilibrio di autorità e intimidazione. Due manager giganteschi. Entrambi nati scozzesi, a 39 anni e 13 miglia di distanza uno dall’altro, intorno a Glasgow, entrambi creati baronetti da Elisabetta II.

Non capita a tutti una seconda occasione. A Matt Busby è successo e lui l’ha onorata nel migliore dei modi. Il suo lungo viaggio termina nel 1994 a ottantacinque anni per una grave forma di leucemia ma, grazie a quel suo incredibile ed indomito spirito, il suo ricordo continua a rimanere saldamente nel cuore e nell’anima di tutti coloro che amano questo sport. Inutile ripetere che Busby è stato un innovatore, un conoscitore del calcio e un abile scopritore di talenti, e che la figura di manager come la conosciamo oggi fu definita in buona parte da lui. Lo United deve a lui anche il suo più celebre – e da tempo ufficiale – nickname, infatti Busby, già nei primi anni Sessanta, ebbe l’intuizione e impose quello più amato: Red Devils, prendendo spunto da una grande squadra di rugby di Salford, fra le più vincenti negli anni Trenta. Ne tratteggia meglio invece la grandezza una frase di un’altra leggenda della panchina, l’allenatore scozzese del Liverpool dal 1959 al 1974, iniziatore del ciclo più vittorioso della storia dei Reds, il mitico Bill Shankly: “I’m not fit enough to polish Busby’s shoes” [che ripeteva di non essere abbastanza bravo da lucidargli le scarpe a Matt Busby].

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I miracoli a Derby e Nottingham, il dannato Leeds e un’amicizia vera. Indisponente e presuntuoso: semplicemente Brian Clough.

Molti l’hanno conosciuto o ricordato solo dopo aver letto il libro di David Peace o aver visto il film di Tom Hooper, interpretato da un convincente Michael Sheen. “The Damned Utd” è un romanzo uscito nel 2006, tradotto in italia come “Il maledetto United”, dove lo scrittore britannico, mescolando fatti e personaggi reali con la finzione narrativa, dà vita al ritratto di un eccentrico allenatore di calcio e racconta in particolare della sua esperienza come coach del Leeds United. Nel 2009 verrà poi realizzato un film omonimo, in Italia passato praticamente inosservato al grande pubblico perché, a causa delle logiche della distribuzione nostrana, non proiettato nelle sale cinematografiche. Brian Clough è descritto come un uomo insolente e presuntuoso e raccontato come uno dei migliori allenatori di sempre – e fra i più vincenti – ma è stato anche uno dei più forti attaccanti della storia del calcio inglese, nonché un uomo capace di sopravvivere al dolore e di conoscere la sconfitta e l’umiliazione e comunque alla fine di trionfare, realizzando imprese sportive che nessuno è più riuscito a ripetere, senza mai tuttavia essere capace di sconfiggere le proprie frustrazioni.

Se qualcuno mi chiedesse qual è il miglior film che abbia mai visto sul mondo del calcio risponderei senza esitare. Quello. “Il Maledetto United” è un film perfetto, davvero non si poteva fare di più. Brian Clough, per i meno appassionati, o semplicemente per i più giovani, è stato un Mourinho ante litteram, uno dei più grandi allenatori europei di sempre, capace di vincere il titolo inglese con il Derby County e il Nottingham Forest, entrambe squadre prese quando erano negli ultimi posti della seconda divisione inglese (la nostra serie B). Non solo, con il Nottingham vinse poi due Coppe dei Campioni consecutive, impresa davvero incredibile. Quando la sua carriera stava oramai declinando gli chiesero se fosse stato il migliore della sua epoca, e lui rispose: “I wouldn’t say I was the best manager in the business. But I was in the top one.” Insomma forse lo “Special One” dei tempi nostri gli è debitore dell’ispirazione. Il film, comunque, racconta il brevissimo periodo in mezzo a quelle due clamorose imprese, i 44 giorni passati alla guida del Leeds (in quel momento la miglior squadra d’Inghilterra), il club che Clough aveva sempre odiato perché secondo i suoi canoni era un esempio di intimidazione all’avversario e antisportività. La pellicola propone il tema della rivalità di Clough con Revie, il precedente allenatore del Leeds, la nemesi di Clough, capace di portare “i bianchi” a vincere praticamente tutto. E poi è proprio molto ben riuscito il racconto dell’amicizia e della collaborazione tra il nostro e Peter Taylor, che accompagnerà il primo in tutti i suoi successi, un’anima buona e mite, l’opposto di Clough.

Brian Clough era nato nel 1935 a Middlesborough. Una città dell’Inghilterra del Nord, che all’epoca aveva poco più di un secolo di vita: solo nel 1829 infatti venne iniziata la costruzione del centro abitato su un piano molto regolare, con strade rettilinee, ampie piazze e parchi; in seguito tuttavia la città si distinguerà per l’intenso sviluppo industriale nei settori cantieristico, chimico, della raffinazione del petrolio e siderurgico con un panorama caratterizzato da acciaierie, cantieri navali e ferriere, a corona di un porto accessibile a grandi navi. E non a caso i giocatori della squadra locale sono soprannominati “The Smoggies”. Sarà proprio nella squadra della sua città natale che Brian Clough inizierà la sua carriera, emergendo presto: buona tecnica, forza fisica, un tiro formidabile e un colpo di testa perentorio, lo resero uno dei centravanti più temuti della Second Division [il secondo livello del campionato di calcio inglese, come la nostra serie B]. Nel Middlesborough FC il nostro giocherà dal 1955 ininterrottamente per sei stagioni, e le sue statistiche sono impressionanti: 204 reti segnate in 222 gare disputate. Statistiche che non si attenueranno al Sunderland FC, dove si trasferirà nel 1961 mettendo a referto coi “Black Cats” ben 63 reti in 74 presenze, durante le sue quattro stagioni (pur giocandone in realtà solo due, e vedremo il perché).

A causa di un incidente di gioco Brian Clough terminerà drammaticamente la sua carriera da calciatore. Era il 26 dicembre del 1962, quello che gli inglesi chiamano il “Boxing Day”, e durante la partita fra il suo Sunderland FC e il Bury FC al Roker Park, quando sotto una pioggia torrenziale inseguendo il pallone in scivolata sul terreno di gioco Clough si scontrò violentemente con il portiere avversario, procurandosi la rottura del legamento laterale e crociato del ginocchio, un infortunio molto grave che all’epoca poneva fine alla carriera di un calciatore. E il nostro purtroppo non farà eccezione, costretto infatti a una stagione di pausa sarà in grado di collezionare soltanto 3 presenze (ed una rete) nei successivi due anni, vedendosi costretto al ritiro dall’attività, quando ancora non aveva trent’anni. Era stato però un grandissimo attaccante Clough, al punto che ancora oggi detiene il record della più alta media gol per partita nella storia del campionato inglese, con un impressionante 0,916 (praticamente un gol a partita, durante una carriera lunga dieci anni, trascorsa in due squadre non di vertice).

Quel terribile infortunio lo strappò dal campo di gioco come calciatore, ma gli diede modo di tornarci da allenatore, infatti Brian Clough nel 1965 sarà il più giovane tecnico di tutta la Gran Bretagna, quando l’Hartlepool United gli offrirà il suo primo incarico. Lui risponderà “I don’t fancy the place” [Non mi piace il posto] – che poi Hartlepool non era così distante da Middlesbrough e Sunderland – ma non se lo farà ripetere e proprio da lì, in Fourth Division [la quarta serie, come la nostra serie C] inizierà ad allenare, inaugurando il suo sodalizio con Peter Taylor, suo ex compagno di squadra al Boro, che convincerà a diventare suo assistente dando vita ad un legame straordinario. Più che di una mera collaborazione tecnica, la storia di Brian Clough e Peter Taylor è il racconto di una grande amicizia fra un uomo arrogante e sfacciato e un altro pacato e riflessivo, ma non è soltanto complementarietà caratteriale. Clough spesso ha dichiarato “I’m not equipped to manage successfully without Peter Taylor. I am the shop window and he is the goods in the back”, riconoscendo le qualità di sostanza dell’amico. Anche dal punto di vista calcistico infatti uno arrivava laddove l’altro non poteva e viceversa. Come osservatore Taylor aveva un intuito e una competenza impareggiabili riuscendo a cogliere il potenziale dei giocatori, sia nei giovani che in quelli maturi e a fine carriera ma ancora funzionali, che poi Clough valorizzava, con quella capacità unica di tirarne fuori il massimo per la propria squadra, con il suo singolare approccio: duro, fermo sulle sue idee, pretendendo dai giocatori disciplina, obbedienza e sacrificio, ma gratificandoli e condividendo con loro i successi frutto delle sue direttive. Ecco tutto Brian Clough, in poche battute: “Quando un mio calciatore ha qualche dubbio ne parliamo per 20 minuti e poi decidiamo che io avevo ragione”.

Le imprese di Clough, assistito dal fedelissimo vice Peter Taylor, sono letteralmente entrate nella leggenda, non solo nella storia, del gioco del calcio. In particolare perché accomunate da una costante: sono state sempre realizzate con squadre prese in serie minori e in condizioni di difficoltà economiche e scarso entusiasmo, ma con impegno portate da underdog alla gloria, regalando al pubblico emozioni mai provate prima e indimenticabili. Dopo lo splendido lavoro fatto ad Hartlepool, dove organizzava collette in città per premiare i calciatori e guidava pure l’autobus della squadra in trasferta per risparmiare sui costi, accompagnando un sodalizio fra i più deboli del campionato all’ottavo posto e, una volta riorganizzato, permettendogli di centrare l’anno successivo il terzo posto e la promozione nella serie superiore, nel 1967 il duo Clough-Taylor cambia città per approdare in Second Division al Derby County FC. Una squadra senza troppe ambizioni, all’epoca impegnata più che altro a non retrocedere, e che non avendo grandi disponibilità sperava che la giovane coppia di tecnici ripetesse la stessa impresa realizzata più al Nord. Detto e fatto. Brian Clough non era quello che si definisce uomo di campo in senso stretto: la parte tecnica veniva curata da Taylor, mentre il nostro osservava, esponendosi più in consigli generici ed esortazioni che in specifiche istruzioni, risultando tuttavia un irresistibile motivatore. Ho letto che per iniziare Clough si presentò al Baseball Ground, lo stadio di casa, facendo rimuovere dalla sede sociale le fotografie dell’unico storico successo fino ad allora ottenuto dalla squadra, la vittoria nella Coppa d’Inghilterra conseguita nel lontano 1946, per concentrarsi su quelli che sarebbero arrivati, potrebbe essere una leggenda metropolitana ma sarebbe tuttavia in linea col personaggio.

Clough passò per matto forse, ma all’irascibile Sam Longson, ricco imprenditore e tifoso dei “Rams”, di cui non solo era presidente ma vero e proprio padre-padrone, avendo comprato il Derby dopo aver liquidato le sue aziende, in principio piaceva molto questo giovane allenatore così naïf, che arrivò perfino a cambiare le divise da gioco della squadra. Le maglie bianche rimasero naturalmente, ma i pantaloncini sarebbero stati blu scuro e non più neri. La spiegazione? “Visto che ora assomigliate alla nazionale inglese come aspetto, cercate di farlo anche nel gioco” disse Clough ai suoi ragazzi, plasmandoli a propria immagine e somiglianza. Il suo Derby era una squadra aggressiva, resistente e veloce. Il primo anno Clough conseguirà la salvezza dalla retrocessione senza impressionare, quello successivo i sui ragazzi centrarono addirittura la vittoria della Second Division, e la relativa promozione in First Division [il massimo livello del campionato di calcio inglese, la nostra serie A], per l’anno seguente. Peter Taylor con un colpo magistrale aveva individuato il rinforzo decisivo: l’anziano libero scozzese Dave Mackay, che sarà valorizzato all’interno di un gruppo capace di fare il salto di qualità e inserirsi subito nella lotta tra le grandi, superando il Liverpool e il Manchester City e contrastando lo strapotere del Leeds United di Don Revie, arrivando prima terzo e poi ottavo e finalmente, all’ultima giornata di campionato e con un solo punto di vantaggio, vincendo la First Division nel 1971/72, laureandosi campione d’Inghilterra. Tutto questo in solo cinque anni. No, non era pazzo Brian Clough. E di certo Sam Longson l’aveva ben compreso.

La stagione successiva arriva finalmente l’esordio in Coppa dei Campioni, e anche in Europa il Derby County si fa rispettare. Eccome. Dopo aver eliminato in maniera perentoria i campioni jugoslavi dello Željezničar, i portoghesi del Benfica e i cecoslovacchi dello Spartak Trnava, incontra in semifinale la fortissima Juventus. Saranno due partite memorabili per agonismo e intensità, ma anche per le feroci polemiche al loro termine. “Dentro lo spogliatoio dell’arbitro c’erano gli italiani, prima della gara e durante l’intervallo. La Juventus ha comprato la partita!” è l’affermazione di Clough a seguito della sconfitta nella prima gara a a Torino, a fronte di un arbitraggio obiettivamente favorevole ai campioni d’Italia che ha innervosito gli inglesi, spesso ammoniti. La partita era in equilibrio ma con il Derby ridotto in dieci per un cartellino rosso, i bianconeri, tecnicamente nettamente superiori ai “Rams”, presero il sopravvento. Inoltre, prima della grande sfida, Clough aveva commesso un’ingenuità, forse un errore. Il Derby aveva giocato pochi giorni prima un match di campionato massacrante, contro il Leeds. La posta in palio non era decisiva per la classifica, ma Clough, spinto dalla rivalità col tecnico avversario Revie, non aveva risparmiato i suoi migliori giocatori, che si infortunarono, dimostrandosi in quella circostanza poco lucido, facendo innervosire il presidente Longson. E parecchio. Tornando comunque a Torino, rimasero nella memoria collettiva le parole di Clough quando fu chiamato ad interloquire con i giornalisti: “I will not talk to any cheating bastards! [Non voglio parlare con nessun bastardo imbroglione], riferendosi ai cronisti italiani.

Nella partita di ritorno gli animi erano ancora più caldi ma i “Rams” non riuscirono a ribaltare il risultato. Il Derby infatti, privo dei suoi migliori giocatori, infortunati o squalificati, non sarà capace di prevalere sui bianconeri – in quella circostanza al Baseball Ground con l’iconica maglia azzurra da trasferta – nonostante l’occasione offerta da un calcio di rigore sprecato dal County e una sciocca espulsione. Clough prenderà atto dell’arbitraggio equilibrato in questa circostanza e della superiorità della Juventus, che poi in finale saprà mettere in seria difficoltà i campioni in carica dell’Ajax di Amsterdam, la squadra guidata da Johan Cruijff, al tempo ritenuta la più forte al mondo. Nel frattempo il clima a Derby si era fatto incandescente, a causa della tensione fra Clough e Sam Longson. Il rapporto con Clough si era guastato da tempo ma la gestione della doppia sfida con la Juventus aveva scontentato Longson. Il presidente non era più disposto a tollerare l’arroganza del suo allenatore, che oramai ne sfidava pubblicamente l’autorità, e per questo dichiarò: “Il Derby l’ho costruito io! Non l’ha costruito Brian Clough!” provocando inevitabilmente la brutale replica di quest’ultimo: “Non vedo perché io professionista della panchina, debba accettare le direttive di un dilettante che ha solo il pregio di avere quattrini.” Con quale risultato? Brian Clough e Peter Taylor si ritrovarono senza panchina e disoccupati. A quel punto Taylor in virtù degli ottimi rapporti personali ottenne panchina del Brighton & Hove Albion, un club ambizioso e florido, anche se iscritto solo alla Third Division, dove ricominciare insieme a Clough, che tuttavia invece di essere riconoscente all’amico mostrò insoddisfazione, abbandonando il sodalizio dopo solo otto mesi. Peter Taylor invece decide di rimanere a Brighton in qualità di manager infastidito dagli atteggiamenti di Clough, spesso lontano dal campo per guadagnare sponsorizzazioni extra attraverso i media mentre Taylor era costretto a gestire il lavoro con i giocatori.

Durante l’estate del 1974 mentre si trovava in vacanza in Spagna accadde l’impensabile: a Clough venne offerta la panchina del Leeds United. Era la squadra campione d’Inghilterra in carica, con giocatori di immenso talento: Billy Bremner, Johnny Giles, Joe Jordan, Peter Lorimer e Norman Hunter, il meglio del calcio britannico. Agli ordini del carismatico coach Don Revie, quel gruppo di giocatori aveva vinto due volte il campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra, una Football League Cup e due volte la Coppa delle Fiere [progenitrice della Europa League], giungendo anche in finale di Coppa delle Coppe dove il Leeds era stato fermato solo da un Milan eccezionale, imponendosi tuttavia come una delle migliori squadre europee dell’epoca. Era successo però che Don Revie aveva accettato la proposta della Federazione di guidare la nazionale inglese, lasciando così la dirigenza del Leeds nella condizione di scegliere rapidamente un nuovo coach, che tuttavia non poteva essere un nome di secondo piano. In quel momento il profilo più adatto apparve quello dell’ambizioso Brian Clough, che accettò senza esitare, ma non poté farlo insieme al suo vice, che non volle lasciare Brighton. Ecco, senza Peter Taylor a moderarlo, sin dal primo giorno Clough si dimostrò sopra le righe, certo era un uomo brillante, carismatico e sicuro di sé e tutti lo riconoscevano, ma era arrogante, troppo arrogante e al Leeds non glielo avrebbero permesso. Lui comunque scelse la sfida, sia nei confronti della società che della squadra campione d’Inghilterra.

“Signori, parliamoci subito chiaro! Allora, tutti voi avete una fama internazionale e avete vinto tutti i trofei nazionali che potevate vincere con Don Revie, ma per quanto mi riguarda la prima cosa che potete fare per me è prendere tutte le vostre medaglie, tutte le vostre coppe, le vostre targhe e andare a buttarle nel più grosso fottuto cestino che riuscite a trovare, perché non ne avete vinta nemmeno una onestamente e lo avete fatto sempre giocando sporco! Ora, le cose saranno un po’ diverse da queste parti, senza Don. Vi sembrerà un po’ strano all’inizio, vi darà fastidio come un paio di scarpe nuove. Ma se volete che i vostri nipoti si ricordino di voi come qualcosa di più di quegli sporchi bastardi che siete stati e volete essere amati come dei veri campioni, degni di essere campioni, dovrete lavorare, dovrete migliorare, voi dovrete cambiare”. Evidentemente non fu proprio il migliore dei modi per esordire, e fu subito chiaro: lo spogliatoio decise di essergli ostile da subito, anche perché ancora troppo affezionato a Don Revie. Clough non fece nulla per comporre, per mediare, anzi la prese come una questione personale: volle dimostrare al mondo di essere capace di imporsi. Sempre, e comunque. Morale della favola: i giocatori non lo seguirono, boicottarono ogni suo approccio e qualsiasi iniziativa del coach in ogni modo possibile, e il Leeds si ritrovò dopo ben otto turni di campionato ultimo in classifica. Elland Road era avvolto in un clima di tensione insopportabile che non lasciava presagire nulla di buono. Fu così che il directing board della società, dopo l’ammutinamento della squadra, raccolta intorno al capitano Billy Bremner, decise di licenziare l’allenatore dopo soli quarantaquattro giorni dal suo insediamento.

Fu il massimo dell’imbarazzo per uno dei tecnici più coraggiosi e sicuri di sé mai visti nella storia di questo sport, ma non fu l’unica umiliazione. Clough infatti accettò di apparire in TV per parlare del suo esonero, ma di fianco a lui trovò seduto Don Revie. Una vera e propria imboscata. La trasmissione fu avvincente, i due grandi rivali si confrontarono verbalmente a modo loro, intrattenendo un pubblico di milioni di persone e mostrando nei limiti del reciproco rispetto tutto il loro antagonismo e la loro genuina antipatia. Clough ne uscì male, anche presso l’opinione pubblica, apparve infatti come un uomo pieno di luci e ombre, cinico, megalomane e presuntuoso, dotato certo di intuizioni che però non era riuscito davvero a trasmettere a nessuno. Insomma, venne giudicato “finito”. Intanto il Leeds, con l’arrivo del nuovo allenatore, Jimmy Armfield, ex capitano della nazionale, che interpreta al meglio il gioco del gruppo, comincia a giocare sul serio, soprattutto in Coppa dei Campioni dove arriva sino alla finale del Parco dei Principi a Parigi, contro il formidabile Bayern Monaco, che riuscirà a imporsi sugli inglesi fra molte polemiche, solo grazie a un arbitraggio non imparziale, in grado di indirizzare la partita a favore della formazione tedesca, capitanata da Franz Beckenbauer. Una mazzata, di quelle che lasciano il segno. Forse. Clough impara una lezione: gli sono mancate le capacità tecniche di Taylor, ma non solo. Piuttosto la capacità di mediazione del suo vice, che recitava la parte del “poliziotto buono” e la complicità del compagno di viaggio. E l’amicizia. Intanto, mentre i critici e gli osservatori definiscono Clough “fuori dal giro”, lui accetta la proposta di un altro club senza pretese, in Second Division.

È il Nottingham Forest a volerlo, appena iniziato l’anno nuovo, nel 1975, dopo la netta sconfitta della squadra nella sentitissima stracittadina contro gli acerrimi rivali del Notts County FC. Certo, Clough sembra dare ragione ai suoi detrattori, oramai la sua dimensione è la serie cadetta, ma è proprio dalla città di Robin Hood, che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”, che ricomincia la storia, e che storia! Prima di tutto però Clough si presenta a Brighton dal suo amico Taylor col capo chino e si scusa con lui, chiedendogli di tornare ad essere il suo vice. Il nostro è pronto a combattere e non accetterà un rifiuto, Taylor lo sa e gli vuole bene, e così gli promette che lo raggiungerà a Nottingham, che peraltro è la sua città natale, per iniziare insieme la loro nuova avventura. Il Forest attraversa un periodo poco felice, è una squadra povera di talento e non c’è più nessun entusiasmo in città verso questo club così antico, anzi sulle tribune del City Ground il clima è di rassegnazione all’ennesima retrocessione. Insomma, l’ambiente ideale per Clough che non perde tempo e rifonda la squadra ingaggiando subito i suoi più devoti calciatori ai tempi del Derby County e su John Mc Govern e John O’Hare inizia a porre le basi del “suo” Forest. Peter Taylor, col suo proverbiale intuito, aggiunge calciatori di qualità, intuendo che Martin O’Neill, Peter Withe e Larry Lloyd, che le grandi squadre hanno scartato hanno ancora molto da offrire. Il Forest inizia così ad acquisire una nuova identità e a Nottingham cresce l’entusiasmo per i “Garibaldis”, le cui magliette rosse sono un omaggio all’Eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, rivoluzionario amatissimo in Gran Bretagna. Il Forest era un cantiere, Clough diede fiducia ad alcuni giovani comeViv Anderson e Tony Woodcock e decise di trattenere John Robertson che era in lista di partenza, “È un giovane poco attraente, mi siederei di fianco a lui per sentirmi Errol Flynn al paragone. Ma dategli un metro di terreno e diventa un artista. Un Picasso del calcio. E Picasso non si vende” disse Clough al presidente del Forest, e Robertson divenne forse la migliore ala dell’epoca e ancora oggi è considerato il migliore tra i giocatori che abbiano mai vestito la maglia del club.

Il Forest targato Clough-Taylor in effetti è già una perfetta amalgama e impressiona da subito: al primo tentativo raggiunge la terza posizione in classifica nella sua categoria, e conquista la promozione in First Division. Il Forest utilizza molto le fasce laterali, pratica un football aggressivo in ogni zona del campo ed ha, in ogni ruolo, calciatori capaci di aggredire gli avversari secondo le indicazioni di Clough, che dopo la promozione vuole vincere subito il titolo. Allo scopo, su indicazione di Taylor, Clough chiede ed ottiene il trasferimento a Nottingham dallo Stoke City del portiere Peter Shilton, convinto delle doti straordinarie del giovane che i grandi club non avevano colto. E non sbaglierà nemmeno questa volta. La difesa con Shilton a guidarla diventa inespugnabile: alla fine della stagione il portiere avrà subito solo 24 reti, addirittura 20 in meno della stagione precedente in Second Division, mantenendo inviolata la porta per 23 gare sulle 42 disputate, contribuendo al successo dei “Forester” che diventeranno campioni d’Inghilterra, davanti al Liverpool e all’Everton. Quel torneo fu un vero trionfo, ottenuto con largo margine sugli avversari e subendo solo tre sconfitte: il Forest era la squadra del momento, da neopromossa a campione d’Inghilterra nella stagione 1977/78, arrivando ad offuscare la gloria del Liverpool due volte Campione d’Europa, contro il quale i “Garibaldis” trionfarono anche in Coppa di Lega inglese, mentre Peter Shilton sarà premiato come il migliore giocatore dell’anno del campionato inglese. Clough è tornato, e adesso ha l’ambizione di imporsi a livello europeo. Stavolta è deciso a tutto pur di trionfare. Per questo Clough chiede un sacrificio al suo presidente, un grande sacrificio. Niente meno che l’acquisto ad una cifra record per il calcio inglese dell’epoca di Trevor Francis, il miglior prospetto in circolazione.

La fiducia del club in Clough è totale e la città di Nottingham è travolta dall’entusiasmo, e così il venticinquenne talento del Birmingham City viene strappato alla concorrenza con una transazione che al lordo delle tasse supera, per la prima volta nel calcio britannico, un milione di sterline. Una follia. E contro la logica della formazione di giocatori provenienti dal vivaio o del recupero di calciatori in crisi, tipica del sodalizio con Taylor. Clough tuttavia è consapevole del momento e sa che il Forest per restare competitivo ed affrontare la sfida europea, ha bisogno di talento. E quello di Trevor Francis di talento non si discute. Il prezzo del cartellino tuttavia sarà fissato a 999.999 sterline, Clough lo pretenderà per evitare che “il ragazzo si monti la testa”. Pronti via. E il Forest ottiene il primo successo di una stagione che sarà memorabile: a Wembley ha travolge 5-0 l’Ipswich Town nel Charity Shield [la Supercoppa inglese]. Intanto, il sorteggio del tabellone della Coppa dei Campioni è da far tremare i polsi: al primo turno il Forest dovrà sfidare i campioni d’Europa in carica: il Liverpool di Bob Paisley, la squadra che stava dominando in patria e sul continente in quegli anni. Uno scontro senza precedenti. La prima gara si disputa al City Ground e quella sera del settembre 1978 nasce la leggenda europea degli “arcieri” di Nottingham. Non potendo disporre di Francis, Clough ridisegna la squadra. Il Liverpool appare intimidito dall’aggressività del Forest e non riesce a reagire come vorrebbe al vantaggio dei “Garibaldis” e a pochi secondi dalla fine della partita la squadra di casa si porta sul 2-0, ipotecando la clamorosa qualificazione contro i “Reds”. Qualificazione che arriverà puntualmente due settimane dopo. Anfield è una bolgia e i “Reds” sono indemoniati, ma la difesa dei “Forester” è un muro.

Il Liverpool è fuori al primo turno e il Forest, per la sicurezza mostrata, diventa per tutti la favorita alla conquista della coppa, superando negli ottavi l’Aek Atene, che aveva eliminato il Porto, e nei quarti il Grasshoppers giustiziere del Real Madrid. In semifinale l’ostacolo più duro: il Colonia, una squadra tedesca molto ricca di talento. In pratica una finale anticipata, non si può sbagliare. La partita di andata è destinata ad essere ricordata come una delle più avvincenti della storia del prestigioso trofeo. Il City Ground, flagellato da giorni di pioggia, è al limite della praticabilità per lo svolgimento della gara, ma le due squadre si affrontano a viso aperto, senza tatticismi. I tedeschi sono i padroni del gioco e dopo appena 20 minuti sono già in vantaggio per 0-2, sugli spalti si teme il tracollo. Nel momento più difficile però il Forest trova le energie necessari e si scatena, ribaltando la partita e portandola sul 3-2 fra l’euforia generale. I tedeschi però non mollano e riusciranno a pareggiare proprio a pochi minuti dalla fine, ottenendo un 3-3 che gela il City Ground e sembra l’anticamera dell’eliminazione per gli inglesi. Solo Clough si dimostra ottimista. E sul campo il Forest gli darà ragione, disputando in Germania una gara tatticamente perfetta, un capolavoro di concentrazione e disciplina. Il Nottingham sarà ermetico e non rischierà nulla, passando in vantaggio in contropiede a poco meno di mezz’ora dalla fine del match, difendendo poi il risultato senza incertezze e guadagnandosi l’accesso alla finale della massima competizione europea. Clough non sta nella pelle, la canzone We’ve got the whole world in our hands diventa la “Forest March”.

Forest in finale, quindi. A Monaco di Baviera, incontrerà coi favori del pronostico il Malmö FF, una squadra svedese non particolarmente brillante ma ordinata, che si prepara a giocare una gara tattica sperando di bloccare gli “arcieri”. Clough non ha paura e gioca per vincere, in fretta. Allo scopo schiera il Nottingham a trazione anteriore, con l’esordio europeo di Trevor Francis, schiacciando gli svedesi, che crolleranno già nel primo tempo, quando Robertson punta la difesa lanciandosi sulla fascia sinistra, arriva sul fondo e butta nel mezzo un cross morbido. I centrali svedesi sono scavalcati, sulla palla si avventa Trevor Francis che la mette nel sacco. Proprio a Trevor Francis tocca segnare il gol del meritato trionfo. Il Nottingham chiuderà così imbattuto la sua campagna europea, conquistando nel finale di stagione anche la Coppa di Lega inglese, battendo nel tempio di Wembley il Southampton, in una partita nella quale Clough compie un gesto di rara generosità: lascia che a guidare la squadra sia Peter Taylor, per dimostrargli riconoscenza e quanto sia importante il suo contributo ai successi del Forest. I “Garibaldis” diventano un argomento di infinite discussioni per l’intero calcio europeo che si interroga come una squadra che quattro anni prima era sedicesima in Second Division, sia riuscita a centrare, in tre sole stagioni, la promozione in First Division, la vittoria del campionato nazionale, la conquista di due Coppe di Lega ed infine il trionfo europeo in Coppa dei Campioni. La risposta è semplice: Brian Clough (e Peter Taylor). E non è ancora finita. Infatti, la stagione successiva il Nottingham Forest dovrà difendere la Coppa appena conquistata. Non sarà una passeggiata.

Inizia infatti a emergere qualche problema, e Clough l’ha già capito: gli “arcieri” sono meno brillanti e più affaticati, e non saranno in condizione di lottare su più fronti. Per questo Clough decide di concentrare le sue ambizioni e le energie dei suoi ragazzi nella difesa della Coppa dei Campioni. Vuole provare a vincerla ancora.In effetti i primi due turni dell’edizione 1978/79 della Coppa dei Campioni non rappresentano un problema per il Forest che si sbarazza autorevolmente dei campioni svedesi e di quelli romeni. Alla ripresa primaverile tuttavia il Nottingham subisce al City Ground la sua prima inaspettata sconfitta europea, in casa e contro una sorprendente Dynamo Berlino. I tedeschi dell’Est per nulla intimiditi sembrano a quel punto un ostacolo insormontabile, ma nello studio del match di ritorno Clough sale in cattedra preparandolo in maniera perfetta, psicologicamente e tatticamente. Il Forest infatti entra in campo a Berlino letteralmente trasformato, Trevor Francis in particolare disputa forse la miglior partita della sua carriera, e segna una doppietta che Robertson suggella trasformando un rigore. La Dynamo è alle corde e già alla fine del primo tempo la qualificazione degli inglesi è al sicuro. Il percorso europeo mitiga la delusione in patria, il Liverpool infatti come previsto è saldamente in testa al campionato, che alla fine dominerà. Tuttavia a Nottingham sono persuasi: la difesa della Coppa è possibile, ma Clough, come al solito, non si accontenta del cauto ottimismo, incendia invece l’ambiente, dichiarandosi certo del trionfo, già prima di disputare la semifinale con l’Ajax Amsterdam. Intanto il Forest rifiuta di giocare la finale di Coppa Intercontinentale, cosa che le squadre europee in quegli anni facevano sovente, troppo lungo il viaggio e troppo violenti gli scontri coi sudamericani.

Certo dispiaceva, ma risparmiarsi il viaggio in Paraguay per affrontare i campioni sudamericani del Club Olimpia di Asunción, fu una buona idea, per non prosciugare le energie psicofisiche della squadra. In ogni caso un altro alloro il Forest lo mise in bacheca, vincendo la Supercoppa europea, liquidando un avversario di rango, niente meno che il FC Barcellona. Anche l’Ajax verrà superato di slancio dal Forest, che in finale se la dovrà vedere con l’Amburgo. La squadra anseatica guidata da un implacabile Kevin Keegan, da due anni consecutivi vincitore del “Pallone d’Oro”, che in patria ha interrotto l’egemonia del Bayern Monaco e in semifinale europea ha eliminato il Real Madrid con sorprendente facilità, parte nettamente favorita. Il tranquillo Clough, in panchina con indosso una tuta Adidas da antologia, non si cura dei pronostici, anche se alla vigilia della finalissima di Madrid il fuoriclasse Trevor Francis, che era un momento di forma eccezionale, si infortuna gravemente al tendine d’Achille. Le due squadre si rispettano, si temono. Il Nottingham sorprenderà gli avversari impostando la partita ricorrendo al “catenaccio”, e dopo essere riuscita ad andare in vantaggio, grazie alle prodezze del suo portiere Shilton alla guida di una difesa completamente impermeabile, ci resterà fino alla fine. E così la Coppa dei Campioni resterà nelle Midlands, nella città circondata dalla foresta di Sherwood, che si confermerà regina d’Europa anche nella stagione 1978/79. Ancora oggi, il Nottingham Forest è l’unica formazione ad aver fatto sue più coppe dei Campioni che titoli nazionali, e trovare un corrispettivo su scala mondiale di quell’impresa non è soltanto difficile, è proprio impossibile.

La seconda Coppa dei Campioni consecutiva vinta, completa la favola del suo lieto fine. Lieto, ma pur sempre un finale. Perché da quella sera in poi, nulla fu più come prima. Inizierà la parabola discendente sia del Forest che del rapporto professionale e umano di Brian Clough e Peter Taylor. La loro relazione iniziò a peggiorare pubblicamente nell’autunno del 1980, quando il vice pubblicò “With Clough, by Taylor”, un’autobiografia basata in gran parte sul lavoro di Taylor con Clough, dove il secondo volle sostenere d’avere gli stessi meriti, se non maggiori, del suo capo. Clough se la prese moltissimo perché Taylor non gli aveva detto che stava scrivendo il libro e non gli aveva proposto di partecipare, oltre a non avergli concesso una parte dei proventi che Clough riteneva di sua pertinenza. Fatalmente, dopo un’altra stagione i due arrivarono alla resa dei conti: Clough era sempre più esuberante, “padrone” del Nottingham e popolare, anche in ragione delle sue posizioni politiche contro le politiche sociali del governo conservatore di Margareth Thatcher, mentre lo schivo Peter Taylor non ne voleva più sapere di prevaricazioni e sovraesposizione, stanco di un istrione geniale ma insopportabile. Taylor annuncia quindi il suo ritiro dal calcio per gravi (e reali) motivi di salute, salvo cambiare idea e poi firmare per il Derby County portando con sé il fuoriclasse scozzese John Robertson, dopo una cruenta battaglia legale. Clough, se la lega al dito arrivando a dire con la solita diplomazia a riguardo all’ex-amico: “We pass each other on the A52 going to work on most days of the week. But if his car broke down and I saw him thumbing a lift, I wouldn’t pick him up, I’d run him over” [in sintesi: “Se lo vedessi fare l’autostop sul ciglio della strada tornerei indietro per investirlo”] e non tarda la risposta di Taylor, che parla di Clough come “the sort of thing I have come to expect from a person I now regard with great distaste” [in poche parole: “un uomo che sono arrivato a guardare con disprezzo”]. Ecco, da quel momento Brian Clough e Peter Taylor non si parleranno più. Mai più.

La fine del rapporto fra i due non sarà indolore, soprattutto per Clough che non riuscirà più a nascondere i suoi problemi con l’alcool, che peggioreranno, e le sue frustrazioni. I due ex amici tuttavia non si riconcilieranno, anzi Clough in più di una circostanza definirà sulla stampa il suo ex assistente “a rattle-snake” [un serpente a sonagli] nascosto nell’erba. Taylor non risponderà, ed eviterà di incontrare Clough durante la sfida di campionato che oppose il suo “County” al Nottingham, peraltro vinta 2-0, e comunque si ritirerà definitivamente dalla scena nel 1984, lasciando il Derby County dopo solo un anno. Clough resterà invece sulla panchina del Forest allenandolo sino al maggio del 1993, quando il Nottingham retrocederà dalla nuova Premier League nella serie cadetta, dopo ben 16 stagioni, riuscendo però a vincere ancora quattro trofei ufficiali: due volte la Coppa di Lega inglese e due volte la Full Members Cup, una competizione disputatasi fra il 1985 e il 1992, in seguito all’esclusione dalle competizione europee delle squadre inglesi a causa della strage dell’Heysel. Peter Taylor morirà improvvisamente nel 1990, mentre si trovava in vacanza a Maiorca, all’età di 62 anni. Quando Clough sarà informato dal suo assistente Ronald Fenton della morte di Peter Taylor rimarrà in silenzio e non dirà una parola, dopodiché riattaccherà il telefono e piangerà a lungo e disperatamente. Dopo chiamerà la famiglia di Peter per partecipare al loro dolore. Il dolore che anche lui provava, per la morte di quello che era stato il suo unico amico. Clough parteciperà al funerale insieme a una delegazione di giocatori del “loro” Forest, ma benché invitato non oserà sedersi accanto ai parenti, nelle prime file della St Peter’s Church nel villaggio di Widmerpool. Era il suo modo di chiedere perdono a Peter, alla Clough.

Negli anni immediatamente successivi alla morte di Taylor il deterioramento della salute di Clough fu evidente. Spesso il nostro passeggiava solitario sulle rive del fiume Trent, che costeggia il City Ground, assorto fra i suoi pensieri, forse assillato dal rimorso e dal suo tempo che si stava consumando. In effetti non perse più nemmeno un’occasione per rendere onore al ricorso di Peter Taylor: “Era sempre 24 ore avanti a me quando si trattava di comprendere le cose. Frank Sinatra una volta mi ha detto che i contratti e gli ingaggi venivano prima di tutto negli affari, la musica ne era solo la conseguenza, concludendo che “In football, the man who picks the players comes first. All the bullshit comes later” [Nel nel calcio prima di tutto conta chi sceglie i giocatori. Tutte le altre stronzate vengono dopo], riferendosi all’importanza del lavoro di Taylor nel loro sodalizio. Clough in seguito rivalutò pubblicamente anche l’amicizia, non solo la stima professionale, dedicando la sua autobiografia del 1994 al suo ex assistente. “To Peter,” diceva. “Still miss you badly. You once said: ‘When you get shot of me there won’t be as much laughter in your life.’ You were right.” [Ancora mi manchi molto, Peter. Una volta hai detto: “Quando ti sarai liberato di me non ci saranno più tante risate nella tua vita”. Avevi ragione].

Comunque nel 2003 all’età di 67 anni venne diagnosticato a Clough il cancro al fegato, un organo devastato, dopo tanti anni di alcolismo: due mesi di vita al massimo, se non si fosse sottoposto subito a un trapianto. Clough scelse di lottare, anche quella volta. Affrontò l’operazione e il trapianto ebbe successo, ma sopravvisse solo altri 21 mesi fino a quando il male incurabile lo raggiunse allo stomaco. Clough si spense il 20 settembre 2004 all’ospedale di Derby, dove era stato curiosamente ricoverato pochi giorni prima. Il suo funerale, programmato nella cattedrale di Derby, verrà poi celebrato nel nuovo impianto cittadino del Pride Park Stadium, per ospitare tutte le le persone accorse allo scopo di rendergli omaggio, salutandolo per l’ultima volta. Oggi all’ingresso dello stadio di Derby una statua lo ritrae abbracciato a Peter Taylor mentre reggono insieme il loro primo trofeo, la coppa consegnata ai vincitori della First Division nel 1971/72, mentre a Nottingham, le due grandi tribune del City Ground, dove il Forest gioca ancora oggi, e dove i due amici vinsero tutto, si chiamano Brian Clough Stand, la principale, e Peter Taylor Stand, quella di fronte. Insieme, per sempre.

E non sarebbe potuto essere altrimenti. Infatti, con voce commossa, in occasione di una delle tante celebrazioni in suo onore a Nottingham, Brian Clough invece di gioire ebbe modo di ricordare unicamente il suo stato d’animo: “My only regret is my mate is not with me” [Ho solo un rimpianto oggi ed è che il mio amico non sia qui con me].

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Stamford Bridge, leoni cerimoniali, pensionati veterani e uno scottish terrier: così è nato il Chelsea, l’unica squadra che …

I veterani che soggiornano al Royal Hospital di Chelsea in occasione delle feste o delle ricorrenze indossano un tricorno nero e una magnifica uniforme scarlatta, sulla quale appuntano le loro meritate decorazioni. Il grande edificio che li ospita nelle intenzioni di Carlo II Stuart, re d’Inghilterra, Scozia, Irlanda e Francia, doveva essere un ospedale, edificato su progetto del grande architetto dell’epoca Christopher Wren; ma i primi ospiti nella grande struttura furono i militari reduci dalla battaglia di Sedgemoor, da allora il Royal Hospital di Chelsea è una casa di riposo per anziani soldati dell’esercito britannico, amati e conosciuti in tutta la Gran Bretagna come i Chelsea Pensioners.

I veterani dell’esercito britannico residenti al Royal Hospital posano orgogliosi con le loro magnifiche divise cerimoniali e le loro decorazioni, a Chelsea sono da sempre parte dell’immaginario collettivo.

Una metropoli senza un vero centro. Estesa e multiforme, all’avanguardia e al tempo stesso tradizionalista, caotica quanto riservata, Londra non può essere una capitale come tante altre. Quella che dovremmo chiamare oggi la Greater London è nata intorno a quel miglio quadrato conosciuto in tutto il mondo come la City (of London) – un tempo sede del potere politico, oggi soprattutto di quello finanziario, dove anche la regina deve chiedere il permesso al padrone di casa, il Lord Mayor – e la sua “sorella” (la City of) Westminster – sede invece del potere religioso, e oggi centro delle istituzioni del regno, associata nell’immaginario alla Casa dei Comuni, dove torreggia il Big Ben e all’omonima abbazia – entrambe inscindibili dal loro fiume, il Tamigi. Un tempo capitale del più grande impero della storia, che dominava un quinto della popolazione mondiale e quasi un quarto dell’intera superficie terrestre, oltre a tutti i mari del pianeta, Londra oggi è un mosaico assortito di quartieri – i borough – dall’identità precisa. Il borough di Chelsea, in particolare, evoca prima di tutto la famosa King’s Road, la mitica strada al centro della moda mondiale negli anni Sessanta, quando impose al mondo la miningonna inventata da Mary Quant, che dalla boutique della stilista arrivò a cambiare i costumi di allora, e così fu anche per un’altra grande donna è stilista, quella Vivienne Westwood che negli anni Settanta contribuì a creare lo stile punk, con intuizioni stravaganti e provocatorie. E tuttavia questo “villaggio” che costeggia il Tamigi, circondato da Belgravia, Brompton, Earl’s Court, Holland Park e South Kensington, è caratterizzato da un’atmosfera letteraria e raccolta, fatta di case basse e giardini curati fra le tipiche vie strette, e non solo di piazze eleganti e dimore affascinanti, dove hanno vissuto fra gli altri Freddy Mercury, Francis Bacon, Thomas Carlyle, Eric Clapton, Ava Gardner, Mick Jagger, Bob Marley, Thomas More, Lauren Olivier, Mary Quant, Mary Shelley, Maggie Smith, Bram Stoker, John R.R. Tolkien e Oscar Wilde per citare solo alcuni dei residenti del passato, e in rigoroso ordine alfabetico.

King’s Road non si chiama così per caso: era il tracciato, privato fino al 1830, che i re percorrevano dalle loro tenute di caccia per raggiungere il centro di Londra; questo prima di trasformarsi, poco più di un secolo dopo la sua apertura, in uno dei centri della moda mondiale.

È sempre stato comprensibilmente molto legato ai Pensioners il Chelsea Football Club, e non casualmente il primo soprannome dei loro giocatori fu proprio The Pensioners e fino agli anni ‘50 lo stemma del sodalizio di Stamford Bridge era rappresentato dal ritratto stilizzato di un Pensioner del Royal Hospital. Tutt’ora comunque gli anziani residenti partecipano spesso alle partite casalinghe del Chelsea e quando la loro squadra, affidata dal neoproprietario russo Roman Abramovič al giovane allenatore portoghese José Mourinho, l’indimenticabile The Special One, riuscì a imporsi e vincere il titolo di campione d’Inghilterra, cinquant’anni dopo la prima volta, aggiudicandosi la Premier League nella stagione 2004/05, i Chelsea Pensioners – in alta uniforme rossa – formarono niente meno che la guardia d’onore, mentre i giocatori presentavano il trofeo in uno Stamford Bridge letteralmente impazzito. E a proposito di colori, il Chelsea ha praticamente vestito sempre di blue: i primi anni dalla fondazione, i giocatori indossavano una maglia di un colore più tenue, il cosiddetto Eton Blue, il preferito di George Henry Cadogan, 5th Earl Cadogan (il quinto conte di Cadogan), considerato il patrono del club che donò le prime divise ispirate a quelle delle squadre sportive del college che aveva frequentato in gioventù e che distinguevano anche la sua scuderia di cavalli da corsa. In seguito le magliette verranno sostituite, nel 1912 il sodalizio adotterà il cosiddetto Blue Royal, colore che non abbandonerà mai più.

La stagione 1911/12 rappresenta il momento dell’evoluzione dei colori del Chelsea, che passarono dall’Eton Blue al Blue Royal: in questa magnifica cartolina sono curiosamente, forse simbolicamente, indossate entrambe le versioni dai Pensioners, come erano conosciuti i giocatori della squadra londinese.

Dalla sua fondazione, avvenuta il 10 marzo del 1905 al pub The Rising Sun di Fulham Road, il Chelsea non ha (quasi) mai modificato i suoi colori sociali, ma ha cambiato più volte il simbolo che l’identifica. Il primo fu il cosiddetto Chelsea Pensioner, in auge per mezzo secolo, pur non apparendo mai sulla maglietta della squadra. In seguito ad un primo tentativo di modernizzazione il Pensioner verrà sostituito dalle iniziali del club, C.F.C., che compariranno ricamate sulle divise da gioco, mentre la stagione successiva, nel 1953, verrà adottato un leone rampante – ispirato allo stemma del borough, che a sua volta traeva origine dall’emblema del conte di Cadogan – che guarda dietro di sé e tiene fra le zampe uno scettro, simboleggiante (la city di) Westminster, e che resterà in uso per circa trent’anni. Dopodiché nel 1986 il leone rampante abbandonerà le maglie dei Blues per essere rimpiazzato da uno ruggente, simbolicamente posto a guardia del club, rappresentato dalle sue iniziali che nella grafica erano sovrastate dal grande felino. Infine, nel contesto delle iniziative per i festeggiamenti del primo centenario di vita del club, l’oligarca russo Roman Abramovič, che nel frattempo l’aveva acquistato, deciso a costruire un’immagine più accattivante della società, investendo risorse ragguardevoli con l’ambizione di trasformare il Chelsea in una squadra vincente, surclassando le rivali cittadine e non solo, scelse di ripristinare il leone cerimoniale tanto caro ai tifosi, adeguato a canoni estetici più moderni. Da allora l’attuale simbolo compare sulla maglia blue resa una delle più ambite d’Inghilterra e d’Europa, perché associata a un sodalizio che negli ultimi venti anni s’è aggiudicato, fra gli altri allori, cinque volte la Premier League e cinque volte la Coppa d’Inghilterra, due volte l’Europa League e la Champions League, il massimo trofeo continentale.

Certo che dal Pensioner del Royal Hospital al leone rampante del visconte Chelsea può sembrare un salto temerario, ma c’è invece un legame che emerge chiaramente, quello con un territorio dove questi “simboli” sono ricorrenti e parte dell’iconografia del borough che si affaccia sul Tamigi.

Pure in un ambiente tanto idilliaco, negli anni ‘70 e ‘80, quando il Chelsea stava attraversando un periodo drammatico sotto il profilo economico, finanziario e sportivo, transitavano lungo il Tamigi anche gli hooligan è quelli affezionati al Chelsea erano particolarmente aggressivi e temuti. Si chiamavano Shed Boys – solo in seguito scelsero il nome di Headhunters – e al sabato, prima e dopo le partite, le loro incursioni facevano paura, diventando tristemente memorabili i loro scontri coi feroci Inter City Firm e i Bushwackers, i loro omologhi del West Ham United FC e del Millwall FC, che terrorizzavano Londra. In quegli anni a dire il vero tutto l’ambiente del calcio inglese era caratterizzato da un contesto deprimente. Gli stadi erano a dire poco fatiscenti e frequentati da un pubblico rappresentato in grande maggioranza dalle classi sociali più emarginate, legate ad altre sottoculture britanniche, come quella hard mod, rude boy e skinhead, che favorirono l’affermazione di numerosi gruppi di hooligan responsabili di un aumento incontrollato degli episodi di violenza, in concomitanza con le partite. Il fenomeno della violenza degli hooligan si fece al mondo intero il pomeriggio del 29 maggio del 1985 a Bruxelles. Il vecchio stadio Heysel, simile a molti impianti d’oltremanica, ospitò infatti quell’anno la finale di Coppa dei Campioni tra gli inglesi del Liverpool e gli italiani della Juventus, e prima della partita fu teatro di uno dei più gravi incidenti della storia calcistica europea. Successe che a causa dell’assalto degli hooligan del Liverpool un folto gruppo di tifosi italiani si ammassò contro un muro di contenimento, e l’obsolescenza della struttura contribuì al disastro che ne seguì: il parapetto cedette provocando la caduta dei tifosi sul selciato sottostante dieci metri, causando la morte di 39 persone e il ferimento grave di oltre 600, nell’evento passato alla storia come “la strage dell’Heysel”.

Il Valley Parade, è uno stadio che si trova a Bradford, nello Yorkshire. Costruito nel 1886 per il rugby prima di diventare la casa della squadra cittadina di calcio, il Bradford City; il luogo è tristemente famoso per l’incendio che scoppiò l’11 maggio 1985 nella tribuna laterale, causando 265 feriti e 56 morti fra gli spettatori.

Una strage, nel vero senso del termine, e nemmeno l’ultima purtroppo, avvenuta però dopo una lunga serie di altri fatti di degrado e violenza praticamente con cadenza settimanale in ogni città d’Inghilterra. Solo pochi giorni prima i fatti dell’Heysel si era verificato il drammatico incendio allo stadio Valley Parade di Bradford – l’11 maggio 1985 – in cui morirono 56 spettatori e 265 rimasero gravemente feriti. Peraltro solo a seguito dell’esclusione per cinque anni da tutte le competizioni europee decisa dalla UEFA nei confronti delle squadre inglesi a seguito dell’Heysel, il governo del primo ministro Margaret Thatcher fu in un certo senso obbligato a prendere provvedimenti, peraltro con poca convinzione. La questione della violenza associata alle manifestazioni calcistiche all’epoca era colpevolmente ignorate, si consideravano altre questioni più urgenti, come la deindustrializzazione e i lunghi scioperi dei sindacati britannici, spesso repressi dalla polizia, o la questione del terrorismo legato all’Irlanda del Nord. Il governo di Sua Maestà quindi agì con superficialità, limitandosi a proibire il consumo di bevande alcoliche negli stadi e rafforzando le barriere e le recinzioni per dividere le tifoserie avversarie, isolandole: a Stamford Bridge addirittura si pensò a un recinto elettrificato per i tifosi ospiti. Pura follia, come il tempo si incaricò di dimostrare. Il 15 aprile del 1989 infatti si verificò infatti una delle più gravi tragedie nella storia del calcio inglese: 96 tifosi del Liverpool morirono schiacciati dalla calca a causa della cattiva gestione dell’ordine pubblico allo stadio Hillsborough di Sheffield – in occasione della semifinale della Coppa d’Inghilterra tra Liverpool e Nottingham Forest – e 766 rimasero feriti, in quella che viene considerata con ragione la più grande tragedia dello sport britannico.

Lo stadio di Hillsborough fu inaugurato nel 1899 quando la squadra dello Sheffield Wednesday vi si trasferì per disputare i suoi incontri casalinghi; il suo nome è tuttavia resterà legato all’incidente conosciuto come Hillsborough disaster accaduto il 15 aprile del 1989 quando perirono 96 persone e 766 rimasero gravemente ferite.

Qualcosa andava cambiato, e in maniera radicale. La nazione era sotto choc e questa volta non si poteva far finta di nulla. Il governo incaricò una commissione presieduta da Peter Taylor, un magistrato autorevole e stimato, di ragionare sulle criticità inerenti l’organizzazione e la sicurezza degli eventi sportivi in Gran Bretagna. Il cosiddetto Rapporto Taylor fu molto severo, individuando nella prassi della maggioranza degli spettatori di assistere in piedi alle partite un fattore di rischio per la sicurezza dell’utenza in generale, anche a causa dell’impreparazione delle forze di polizia a governare situazioni tanto complesse, spesso comunque ingestibili, rivolgendo a tutte le società appartenenti alle divisioni professionistiche delle federazioni calcistiche britanniche una raccomandazione: evitare che la violenza rappresentasse l’unico, triste, spettacolo offerto nel proprio stadio. Il giudice Taylor consigliò alle società di acquisire la proprietà diretta degli impianti, investendo il necessario per adeguarli strutturalmente e dotarli di soli posti a sedere, consigliando la revisione completa delle loro politiche aziendali. Accadde che le singole proprietà dei club si trovassero in effetti d’accordo sulla necessità di rendere gli impianti più sicuri. In conseguenza dei biglietti e degli abbonamenti nominativi, corrispondenti a un determinato posto a sedere, ai controlli all’interno e all’esterno degli impianti, nonché alla scomparsa delle barriere, le presenze negli stadi aumentarono vertiginosamente e altrettanto velocemente diminuirono il teppismo e la violenza fino quasi a scomparire, aprendo la strada allo sfruttamento di nuove opportunità: box privati, club house, musei sportivi e negozi all’interno o nelle strette adiacenze degli impianti stessi. Il Rapporto Taylor è tuttora considerato all’origine del successo contemporaneo del calcio inglese, per aver contrastato e isolato la minoranza violenta e ridimensionato il fenomeno hooligan con grande successo.

Quando gli hooligan dettavano legge era il cuore del tifo più scalmanato e violento, sede degli Shed Boys, mentre oggi pur essendo il luogo più iconico di Stamford Bridge The Shed End, che prese il nome dalla prima copertura della tribuna, che la faceva assomigliare a un magazzino, ospita su impulso dell’allora manager del Chelsea José Mourinho i tifosi della squadra avversaria, prima del 2005 alloggiati nell’East Stand.

A proposito dello stadio. Oggi il Chelsea Football Club è posseduto interamente dal Chelsea FC Public Limited Company, una società controllata dell’imprenditore russo Roman Abramovič. Invece lo stadio di Stamford Bridge è di proprietà del Chelsea Pitch Owners, che detiene pure i diritti di denominazione del Chelsea Football Club, in pratica questa società – indipendente dal Chelsea – è proprietaria del nome. Ma come si è arrivati a tanto? Successe che la costruzione della grande tribuna coperta dell’East Stand, decisa dal presidente Brian Mears, parte di un piano ambizioso teso a raggiungere col tempo la capienza di 60mila spettatori a Stamford Bridge, causò invece gravi problemi finanziari al club, minacciandone addirittura l’esistenza. Il progetto in effetti era stato licenziato con le migliori intenzioni, ma l’esplosione della crisi petrolifera, le incertezze dei costruttori e gli scioperi delle maestranze, fecero lievitare i costi di realizzazione, determinando l’esplosione del debito del club, che nel 1977 per evitare il fallimento non ebbe altra scelta che vendere Stamford Bridge a una società immobiliare, la Marler Estates. In seguito, quando l’istrionico Ken Bates divenne presidente (e proprietario) del Chelsea, subentrando nel 1981 alla famiglia Mears, a seguito delle dimissioni si Brian, che interruppero il sodalizio familiare con il club durato ben 76 anni, lo pagò una sterlina, dovendosi fare carico di tutti i debiti nel frattempo maturati. Tuttavia Bates non si preoccupò di tentare di riacquistare la piena proprietà dello Stamford Bridge, decidendo piuttosto di stipulare un contratto di locazione di 7 anni che avrebbe mantenuto il Chelsea nel suo stadio, in attesa di ristrutturare finanziariamente il club e decidere il futuro.

L’East Stand come la conosciamo è stata aperta nella stagione 1974/75 ed è rimasta a lungo l’unica parte coperta dello stadio; sopravvive oggi nella sua forma a sbalzo a tre livelli, sebbene da allora sia stata rinnovata e modernizzata, e nella configurazione attuale di Stamford Bridge è dedicata, a ridosso delle panchine, ai tifosi di casa, anche in questo caso su impulso del coach José Mourinho.

Ken Bates lanciò comunque una campagna battezzata “Save the Bridge”, allo scopo di raccogliere i quindici milioni di sterline all’epoca necessari per riacquistare la proprietà di Stamford Bridge, mentre sembrava consolidarsi una proposta minacciosa avanzata da diversi creditori di fusione tra Fulham FC e Queens Park Rangers con il Chelsea, e poi il trasferimento del club allo stadio di casa dei Rangers, il Loftus Road, mentre Stanford Bridge sarebbe diventato sede di nuove costruzioni residenziali di grande prestigio. Una speculazione, insomma. Tuttavia il progetto fallì a seguito del crollo del mercato immobiliare nel 1992, che travolse anche la società di real estate che deteneva la proprietà dello stadio e aveva a cuore il progetto, permettendo al presidente Ken Bates di raggiungere un accordo con i suoi creditori, principalmente la Royal Bank of Scotland, per recuperare tutte le proprietà fondiarie collegate al Chelsea. Questo portò alla creazione del Chelsea Pitch Owners PLC, in pratica si riunirono in società i protagonisti della campagna “Save the Bridge”, principalmente semplici supporter, allo scopo di acquistare nel 1997 la piena proprietà dello stadio e del centro di allenamento dei Blues, per garantire che non venissero mai più venduti, nonché i diritti al nome “Chelsea Football Club”, per assicurare che la squadra non possa mai trasferirsi altrove senza il permesso dei suoi tifosi, dal momento che se lo facesse dovrebbe cambiare denominazione sociale: Chelsea infatti può essere il nome della squadra solo se gioca a Stamford Bridge. A quel punto, consolidata la situazione legale, iniziarono finalmente i lavori di rinnovamento di tutto il grande impianto, allo scopo di rendere tutti i suoi posti a sedere, di avvicinarono le tribune al terreno di gioco eliminando la pista e furono edificate le coperture di gradinate e tribune.

Stamford Bridge ha subito molteplici lavori di ristrutturazione, e la sua capienza è cambiata nel corso degli anni. Oggi, con i suoi 41.841 posti a sedere, è il decimo stadio più grande della Premier League, un tempo quando si assisteva alle partite in piedi, arrivò a contenere 82.905 persone. 

Qualcosa di insolito unisce Stamford Bridge al Chelsea, comunque. Per scoprirlo occorre tornare indietro nel tempo. Quando nel 1896 all’interno del perimetro di Londra esistevano già quelle che ancora oggi sono le più conosciute e seguite squadre della capitale: il Fulham FC, la squadra più antica tra tutte le compagini calcistiche londinesi, fondato nel 1879 nell’omonimo quartiere; il Tottenham Hotspur FC con sede sede nell’omonimo sobborgo, appartenente al borough di Haringey, dal 1882; il Queens Park Rangers FC, noto come QPR, fondato nel 1882 nel borough di Hammersmith and Fulham; il West Ham United FC, fondato nel 1895 come Thames Iron Workers FC nel distretto di Newham del quartiere di Stratford; l’Arsenal FC, fondato nel 1886 ad Highbury nel borough di Islington. Ecco, proprio nel 1896, i fratelli Henry Augustus, detto “Gus”, Joseph Theophilus Mears, uomini d’affari follemente innamorati del football, convinti dell’ascesa inarrestabile della popolarità del loro sport preferito, decisero di rilevare il complesso denominato Stamford Bridge Athletics Ground, nel borough di Fulham. Si trattava di un vasto prato aperto sin dal 1877 e attrezzato con una pista di atletica, utilizzato anche per le corse dei cani, che gli inglesi adorano, dotato di gradinate capaci di accogliere molto pubblico. Sarebbe stata probabilmente un’intuizione azzeccata, un ottimo affare, ma i fratelli Mears potranno disporre del complesso solo nel 1904 a causa di un lungo contenzioso insorto col precedente proprietario, e così persero tempo prezioso pur non abbandonarono l’intenzione di trasformarlo l’impianto nello “stadio di calcio più bello d’Inghilterra” per ospitarvi partite di cartello – la finale della FA Cup (la Coppa d’Inghilterra), ad esempio – e convincere il presidente (e proprietario) del Fulham FC, l’importante costruttore Henry Norris, a scegliere proprio il “loro” stadio come sede delle partite interne della sua squadra, che all’epoca non aveva un impianto all’altezza del prestigio nel frattempo acquisito e avrebbe pagato un lauto canone.

Ancora oggi vi sono ipotesi discordanti sul perché i primi proprietari chiamarono l’impianto Stamford Bridge, tuttavia nelle mappa del XVIII secolo è ancora indicato un piccolo fiume, affluente del Tamigi, di nome Stamford Creek, lungo la strada che oggi è stata rimpiazzata da una linea ferroviaria, e il letto del corso d’acqua era allora attraversato da due ponti: il primo su Fulham Road si chiamava Stamford Bridge, appunto.

Norris invece darà un dispiacere ai fratelli Mears. Infatti nel frattempo aveva deciso di realizzare un nuovo impianto per la sua squadra (quello tutt’oggi utilizzato dal Fulham FC): il mitico Craven Cottage. Norris cogliendo un’opportunità – il tempo in quel caso giocò contro i Mears – aveva acquistato per pochi soldi i terreni abbandonati dal 1888 dove un tempo sorgeva il cottage del VI barone di Craven, nel mezzo di un’area ricoperta da boschi, che erano stati parte dei terreni di caccia niente meno che di Anna Bolena, regina consorte d’Inghilterra e Irlanda dal 1533 al 1536, come seconda moglie di Enrico VIII, celebre monarca della dinastia Tudor, fondatore della Chiesa anglicana, nata in seguito alla separazione dalla Chiesa cattolica di Roma, sposato sei volte e detentore di un potere incontrastato. Sfumato il grande affare i fratelli Mears, amareggiati e delusi, dopo aver riflettuto a lungo, decisero di cedere il terreno e l’impianto sportivo alla Great Western Railway Company, proprietaria all’epoca della linea ferroviaria che attraversa la zona e che l’avrebbe utilizzato come deposito di carbone. Pareva tutto deciso. Ed è qui che il mito si confonde alla realtà, ammantando di un’aura magica questa incredibile storia raccontata proprio da uno dei suoi protagonisti, Frederick Parker. Questo personaggio era un ottimo atleta e un dirigente della società che gestiva lo Stamford Bridge Athletics Ground, da sempre convinto delle potenzialità finanziarie dell’impianto sportivo, e per questo divenne amico – e più tardi ascoltato consigliere – di “Gus” Mears. Quando accadde il fatto, i due si stavano recando all’appuntamento presso gli uffici della società ferroviaria per discutere gli ultimi dettagli dell’affare e concluderlo con una stretta di mano, in attesa di formalizzarlo. Erano accompagnati dallo scottish terrier di “Gus”, un cane da guardia e da compagnia che Mears adorava e che il I Earl (conte) di Dumbarton per le caratteristiche della sua razza definì The Diehard, ossia “piccolo ma maledettamente duro a morire”.

Damon Albarn, frontman e leader delle band Blur e Gorillaz, è sempre stato un grande tifoso del Chelsea, che ha sempre attratto molti tifosi e oggi è addirittura uno dei club più seguiti al mondo, soprattutto fra i più giovani, anche grazie a iniziative come quella di Stuart Harold Pot, conosciuto col suo nome di scena Due Di, personaggio dei Gorillaz, in posa coi giocatori in uno spot della Nike per i Blues.

A un certo punto della loro passeggiata, Parker aveva rinunciato al tentativo di convincere Mears a non vendere Stamford Bridge, ma arrivando inosservato da dietro il piccolo cane gli morse la caviglia facendolo sanguinare ed esclamare rivolto a Mears: “Your damned dog has bitten me, look!” [Il tuo maledetto cane mi ha morso, guarda!], mostrandogli la ferita insanguinata. Mears tuttavia, invece di esprimere preoccupazione per la ferità del suo assistente, rimase colpito e osservò laconicamente: “Scotch terrier, always bites before he speaks” [Scotch terrier, mordono sempre prima di parlare], facendo ridere Parks di gusto, e – come illuminato – dandogli una pacca sulla spalla gli disse: “You took that bite damned well, most men would have kicked up hell about it. Look here, I’ll stand on you; never mind the others. Go to the chemists and get that bite seen to and meet me here at nine tomorrow morning and we’ll get busy” [L’hai presa bene, mi hai sorpreso. Altri avrebbero trasceso. Allora sono d’accordo con te, lasciamo perdere la cessione di Stamford Bridge! Ora vai da un farmacista a farti medicare la ferita, e incontriamoci qui domattina alle nove: ci daremo da fare per trovare una soluzione]. Fu così che Gus Mears cambiò idea e decise di seguire il consiglio di Parker di non vendere Stamford Bridge e in seguito di fondare invece una propria squadra di calcio, allo scopo di valorizzare lo stadio mettendolo a reddito. Grazie al mordace intervento dello scottie di Mears quindi il Chelsea Football Club sarà fondato il 10 marzo 1905 in una public house su Fulham Road, quando ci si dovette interrogare prima di tutto sul nome del nuovo sodalizio poiché nel distretto esisteva già una squadra omonima, il Fulham FC, i fondatori dopo lunghe discussioni scelsero il nome del distretto più vicino: quello del borough di Chelsea.

Al secondo piano della public house The Rising Sun venne fondato il Chelsea Football Club il 10 marzo del 1905; una visita ai locali è senz’altro consigliata al numero 477 di Fulham Road, anche se oggi quello che si definisce un gastropub ha un nome decisamente meno poetico: The Butcher’s Hook.

Torniamo quindi al 10 marzo del 1905 quando, dopo l’appuntamento di fronte all’ingresso di Stamford Bridge, i fondatori si trasferirono al piano sopraelevato del pub The Rising Sun di proprietà di Edwin Hurford Janes, che del Chelsea Football & Athletic Club, diventerà pure lui socio. E non saranno in pochi perché trascorso un mese dalla fondazione, all’atto della registrazione del nome presso le istituzioni, il neonato club contava già oltre 2 500 soci, annoverando fra i principali sottoscrittori del cospicuo capitale già raccolto non solo la famiglia Mears, che comunque controllava il sodalizio, ma il business manager Tom Lewin Kinton e il legal advisor John Henry Maltby, entrambi consulenti della compagnia Mears Contracting and Wharfinger, niente meno che Lord Cadogan, il più grande proprietario terriero della zona, patrono e ispiratore dei colori del club, Charles Burgess Fry, una delle personalità più ammirate di tutto l’impero britannico, considerato lo sportsman inglese per eccellenza, Emslie Horniman, deputato liberale, filantropo, erede e proprietario della Horniman’s Tea Company, all’epoca la più grande società di commercializzazione di tè al mondo, molto apprezzato anche da Friederich Nietzsche che nella sua corrispondenza privata spesso menziona Horniman come il suo tea preferito, che scelsero William Claude Kirby, un altro importante imprenditore contemporaneo, nella qualità di primo presidente del club dal 1905 fino alla sua morte, avvenuta nel 1935. Gus Mears morirà pochi anni dopo la fondazione del Chelsea nel 1912, e a quel punto sarà sostituito dal fratello e cofondatore Joseph Mears, anche se nemmeno lui ricoprirà mai l’incarico di presidente, per rimanendone il vero dominus, diversamente da loro il figlio Joe dal 1940 al 1966 e il nipote Brian dal 1969 al 1981 sarebbero stati invece presidenti del Chelsea, prima di ritirarsi e cedere la proprietà al vulcanico Ken Bates che nel bene e nel male il club lo salverà dal fallimento, fino all’arrivo del glaciale Roman Abramovič che lo trasformerà in un top club fra i più importanti e vincenti al mondo.

Roman Abramovič, pare affascinato da Stamford Bridge, decise di acquistare il Chelsea mentre sorvolava Londra in elicottero nell’estate del 2003, spendendo circa 160 milioni di euro, facendo così la fortuna del presidente uscente Ken Bates e soprattutto dei tifosi dei Blues.

Proprio il Chelsea è uno dei soli tre club della Premier League ad aver giocato nello stesso stadio ininterrottamente per tutta la loro storia – gli altri due sono il Liverpool (ad Anfield Road) e lo Sheffield United (al Bramall Lane) – ma è l’unico ad essere stato fondato per riempire quello che diventerà il proprio stadio di casa, valorizzando un impianto già esistente, come emerge anche dal comunicato dell’agenzia di stampa J.E. Dixon & Co., che diede la notizia della fondazione del club in questi termini: “It has been decided to form a professional football club, to be called the Chelsea Football Club, for Stamford-bridge”.

Il Chelsea per Stamford Bridge, appunto.

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Cattedrali, gru, indipendentisti, leoni e santi: il Pitxitxi e la magia basca dell’Athletic Club.

I baschi sono il gruppo etnico che abita il Paese basco.

La loro lingua – l’euskara – è misteriosa e “isolata”, nel senso che non è dimostrata la sua parentela con altre lingue del mondo. E così l’origine dei baschi, che – oggetto di numerosi studi dal punto di vista etnico, allo scopo di chiarire la provenienza di questa antica popolazione – non è mai stata tracciata. Popolazione singolare anche dal punto di vista biologico, per la presenza in una forte percentuale (oltre il 35%) del gruppo sanguigno “Rh negativo”. Il Paese basco, chiamato Euskal Herria, non va confuso: è un ambiente culturale, ideale e storico, molto più vasto delle singole entità amministrative popolate dai baschi, che sono la comunità autonoma (l’equivalente spagnolo della nostra “regione”) dei Paesi Baschi, sancita dalla costituzione spagnola nel 1978, Euskal Autonomia Erkidegoa in basco, e composta da tre province: Araba, Bizkaia (che noi conosciamo come Biscaglia) e Gipuzkoa, denominate le tre province “storiche”, coi loro tre capoluoghi Vitoria-Gasteiz, Bilbao e Donostia (più conosciuta come San Sebastián); la Navarra, che amministrativamente costituisce una comunità autonoma separata rispetto ai Paesi Baschi, con capoluogo Pamplona (quella dell’Encierro, la corsa dei tori che si celebra per le strade della città durante le festività di San Fermín); le tre province francesi di Labourd, Soule e Bassa Navarra, con città come Bayonne e Biarritz, che formano la zona denominata Iparralde (i Paesi Baschi del Nord), mentre tutto il territorio spagnolo di Euskal Herria viene chiamato Hegoalde (i Paesi Baschi del Sud).

Una delle attività più famose dei Sanfermines di Pamplona è l’Encierro che consiste in una corsa di circa 800 metri coi tori scatenati fra la folla, che ha come punto di arrivo la plaza de toros cittadina per una festa popolare che in realtà è un pericoloso delirio: ogni giorno tra il 7 e il 14 luglio di ogni anno, alle otto del mattino, come l’ha raccontato Hemingway nel suo capolavoro Fiesta.

Nel XIX secolo le province basche, che spesso erano riuscite a resistere ai dominatori delle terre circostanti e comunque anche quando avevano ceduto mai si erano lasciati assimilare, dovettero rinunciare a una garanzia che la corona spagnola non aveva mai messo in discussione: i fueros, privilegi concessi dai re di Castiglia, in base ai quali i baschi non erano soggetti alla leva militare nell’esercito castigliano e godevano di un particolare regime di tassazione. Il concetto del nazionalismo basco si consolidò nell’ambito del movimento carlista e del Romanticismo europeo, battendosi per il mantenimento del sistema dei fueros e delle tradizionali autonomie territoriali contro la centralizzazione promossa dal governo di Madrid. Sabino Arana, proveniente dal movimento carlista, fondò nel 1895 il Partito Nazionalista Basco, la cui ideologia era fondata sulla purezza della razza basca e la sua presunta superiorità morale sulle altre popolazioni spagnole, sull’integralismo antiliberale e cattolico, opponendosi all’immigrazione, conseguente alla rivoluzione industriale, di altri spagnoli nei floridi Paesi Baschi. Arana nato a Bilbao, nel 1865 da una ricca famiglia basca, pioniere del nazionalismo nel 1893 aveva pronunciato il famoso discorso di Larràzabal, dove infiammava i cuori dei presenti enunciando per la prima volta la necessità di rendere indipendente la Biscaglia, ed è l’autore dell’Ikurrina, la bandiera dietro la quale si riconoscono oggi le sette province tradizionali basche, nonché l’inventore della parola Euzkadi per indicare la regione storica abitata da sempre dal popolo basco.

Su sfondo rosso (della Biscaglia), sul quale si sovrappone una croce verde di sant’Andrea, patrono biscagliano, ed una bianca, simbolo della religione cattolica. Nel 1976, prima di un derby basco tra Athletic Club e Real Sociedad, i due capitani portarono in campo una Ikurrina: fu la prima esposizione pubblica della bandiera basca dopo la morte del dittatore Francisco Franco.

Agli inizi del XX secolo il nazionalismo basco si sviluppò in particolare presso la borghesia a Bilbao, sviluppandosi rapidamente e riuscendo a sopravvivere alla dittatura di Miguel Primo de Rivera, consolidando associazioni culturali e sodalizi sportivi, proprio come l’Athletic Club di Bilbao che dal 1912 deciderà di tesserare solo giocatori baschi. Nella guerra civile, iniziata in Spagna nel 1936, la parte maggioritaria del Partito Nazionalista Basco si schierò con la Repubblica spagnola contro la monarchia e il generale Francisco Franco. Venne creato un autonomo governo basco repubblicano che tuttavia nel 1937 si arrese alle truppe italiane alleate del generale Franco, dopo che l’aviazione tedesca, corsa in aiuto dei franchisti, bombardò crudelmente la città basca di Guernica. Una carneficina che ispirò al famoso pittore Pablo Picasso uno dei suoi quadri più famosi, che rappresentò la denuncia più sconcertante di quella nuova forma di terrore proveniente dal cielo, a condizione che fosse risparmiata l’industria pesante e l’economia dei Paesi Baschi che altrimenti sarebbero stati letteralmente rasi al suolo e i baschi dispersi. Con il regime franchista la lingua basca venne proibita negli atti della pubblica amministrazione e sugli organi di informazione, sebbene fosse tollerata in attività culturali o nelle cerimonie religiose e allo stadio, benché l’Athletic Club venisse rinominato “alla castigliana” Atlético de Bilbao, mentre il governo di Madrid favoriva la massiccia immigrazione di popolazione non basca proveniente da altre parti della Spagna, per favorire l’omologazione coi baschi, che intanto osteggiava in ogni modo.

Guernica è un quadro di Pablo Picasso, ispirato dal bombardamento dell’aviazione nazista che rase al suolo la città basca di Guernica, composto in soli due mesi, come messaggio per la pace, la dignità e la libertà degli uomini e delle donne del mondo intero. Molto si è scritto sul valore suggestivo e allegorico dell’opera e sui suoi significati che l’hanno resa un simbolo universale.

Un gran numero di baschi lasciò la propria terra (oggi sono circa tre milioni gli abitanti di Euskal Herria) per emigrare in altre zone del mondo (dove attualmente si stimano essere una quindicina di milioni i baschi o discendenti baschi) durante differenti epoche storiche, principalmente a causa delle persecuzioni politiche sofferte da questo popolo orgoglioso. Il Sudamerica, per tante ragioni, è stata una delle mete più congeniali ai baschi tesi verso la ricerca di nuove opportunità, di un futuro. A tal riguardo Miguel de Unamuno, grande poeta, filosofo, scrittore, drammaturgo e politico spagnolo di origini basche, disse: “Ci sono almeno due cose che possono senz’altro essere attribuite ai baschi: la Compagnia di Gesù e la Repubblica del Cile.” Quanto alla seconda: sappiamo che moltissimi baschi arrivarono in Cile nel corso del XVIII secolo e che grazie alla loro intraprendenza e all’abnegazione al lavoro, riuscirono a scalare le classi sociali, andando a ricoprire ruoli d’élite. A questi si aggiunsero le migliaia di persone in fuga dalla Guerra civile spagnola, terminata nel 1939 con la vittoria di Francisco Franco, che perseguitò gli avversari sconfitti: le stime attuali indicano i cileni di origine basca addirittura il 30% della popolazione totale. Invece, quanto alla prima: sarà l’ultimo di tredici figli, nato attorno al 1491 da una nobile famiglia basca, Iñigo López de Loyola, a fondare l’ordine della Compagnia di Gesù, che si diffuse rapidamente e in maniera straordinariamente vigorosa ovunque nel mondo. In molti paesi della Terra, dal Brasile al Giappone, questo ordine saprà condizionare la società e la politica, al punto da farsi temere e perseguitare. E così fino ai giorni nostri, quando il 13 marzo 2013 è stato eletto il primo pontefice gesuita della storia, così sono conosciuti i membri della Compagnia, come “gesuiti”, il Papa Francesco (Jorge Mario Bergoglio).

La pelota basca a mani nude è una prova di astuzia, forza e rapidità a dir poco distruttiva. Lanciare con la sola forza delle braccia e del tronco queste palline dure come pietre e veloci come proiettili impone un sacrificio almeno pari alla soddisfazione, che per un basco è immensa.

Lo sport ha ricoperto (e ricopre) da sempre un ruolo fondamentale nella società basca. Storicamente si ricorda la pelota basca, un gioco nato proprio in queste zone, come dichiara il suo stesso nome, e poi diffusosi in seguito in varie parti del mondo attraverso l’emigrazione di tanti baschi che lo considerano il loro sport nazionale. In particolare la pelota a mano nuda è tenuta in alta considerazione dai puristi, perché malgrado la relativa spettacolarità è considerato il gioco per eccellenza, il più duro. I giocatori si esibiscono in uno sferisterio, e praticamente ogni città e paese basco ha almeno un frontón (in spagnolo): il campo regolamentare. Lungo circa trenta metri e delimitato da un muro frontale e uno laterale dove gli atleti devono far rimbalzare la pelota – una palla di legno ricoperta da strati di corda, filo di caucciù, e avvolta nel cuoio caprino, praticamente un sasso del peso di un etto – usando le mani nude o protette da appositi cerotti per lanciarla energicamente contro il muro, al fine di spiazzare l’avversario. Ai baschi tuttavia viene anche riconosciuto il merito della diffusione in Spagna della pratica del football, arrivato via mare in Andalusia, Catalogna e soprattutto nei Paesi Baschi, appunto, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX: la posizione geografica delle città poste sul golfo di Biscaglia infatti favoriva gli scambi commerciali e culturali con il Regno Unito, e gli inglesi, inventori e maestri del nuovo gioco, erano di casa a Bilbao, città ricca di industrie e e commerci, all’epoca primo centro bancario e secondo porto commerciale del regno, nonché capitale dell’industria metallurgico-meccanica spagnola. Oggi su Campa de los Ingleses, la spianata dove a fine ‘800 i ragazzi del Gimnasio Zamacois venivano a guardare proprio quegli inglesi divertirsi a uno strano gioco con il pallone c’è un museo di arte contemporanea situato in un edificio progettato dall’architetto canadese Frank O. Gehry che ha cambiato il modo in cui Bilbao è percepita nel resto del mondo: il Guggenheim.

Questo straordinario edificio, che si riflette sulle acque del Nerviòn, sembra avere la forma di una nave, rendendo così omaggio a Bilbao, progettato da Frank Gehry ospita esposizioni di opere d’arte appartenenti alla fondazione Guggenheim e si è rivelato come uno dei più spettacolari edifici del decostruttivismo.

Principali società calcistiche basche, quelle ai vertici del campionato nazionale spagnolo di calcio, sono il Deportivo Alavés di Vitoria-Gasteiz, la Sociedad Deportiva di Eibar, la Real Sociedad di San Sebastián, l’Osasuna di Pamplona, e quella che potremmo considerare quasi una nazionale basca: l’Athletic Club di Bilbao, squadra fortemente identitaria, celebre per la sua “filosofia”. Una filosofia che da quasi cento anni fa sì che il club utilizzi un bacino ristrettissimo di giocatori: quelli nati nei Paesi Baschi, nell’accezione di Euskal Herria, o cresciuti fin da giovanissimi nel vivaio di un’altra squadra basca. Questo spiega il motivo del legame strettissimo, indissolubile, dell’Athletic con la sua terra. Per un popolo che fu costretto ad affrontare prove terribili durante la dittatura di Franco, il calcio divenne un fondamentale baluardo culturale: mentre le ikastolak, le tradizionali scuole basche, venivano sbarrate, l’uso dell’euskera proibito per legge e ogni simbolo basco vietato, l’Athletic e la Real Sociedad di Donostia-San Sebastián, unite dalla medesima filosofia, rappresentavano per migliaia di persone l’unico mezzo attraverso il quale difendere la propria identità e manifestare la propria natura. Dopo che la Real Sociedad nel 1989 decise di acquistare l’irlandese John Aldridge, l’Athletic rimase l’unico club a utilizzare esclusivamente giocatori del posto, tradizione che si è perpetuata fino a oggi; una perseveranza coraggiosa, forse perfino folle se esaminata con gli occhi del risultato a ogni costo, capace però di conferire alla squadra un’aura di leggenda che si è fatta sempre più forte, resistendo agli effetti che la cosiddetta “sentenza Bosman” ha provocato nel resto del mondo, preservando il fragile equilibrio sul quale si regge il club zurigorri, dove i bilbaini si sono ancor più intestarditi a voler mostrare al mondo la perfetta sostenibilità del proprio modello.

Oggi il (nuovo) San Mamés è uno degli stadi più grandi di Spagna ed è parte della simbologia stessa dell’Athletic Club, il romanticismo degli appassionati per il vecchio impianto infatti è bilanciato dal fatto che questo nuovo, realizzato sul sito del precedente, ha regalato alla vecchia Katedrala il posto d’onore che le compete nella storia.

L’Athletic Club milita nella massima serie del campionato spagnolo, ed è uno dei soli tre club ad aver partecipato a tutte le edizioni della Primera División (l’equivalente della nostra Serie A) gli altri sono il Real Madrid e il FC Barcelona, e dopo di loro è la terza squadra più titolata di Spagna, potendo annoverare nel suo palmarès 8 campionati di massima divisione, 23 Coppe del Re, 3 Supercoppe di Spagna e una Coppa Eva Duarte, per un totale di 35 trofei ufficiali, tutti a livello nazionale. È inoltre quarta per numero di campionati nazionali vinti, dietro a Real Madrid, FC Barcelona e Atlético de Madrid, e non è stata trasformata per legge in una società sportiva, ma insieme a Real Madrid, FC Barcelona e Osasuna soltanto rimane un associazione totalmente in mano ai soci-tifosi, che la governano eleggendo una junta directiva e un presidente, che esercitano il loro mandato nel rispetto dello statuto del club e di tutte quelle regole non scritte che rendono l’Athletic un sodalizio davvero singolare. Ad esempio, per diversi anni e anche dopo l’affermazione degli sponsor tecnici a Bilbao per diverse stagioni hanno auto prodotto le divise sociali e il materiale d’allenamento, e fino al 2008 la maglietta della squadra non era caratterizzata da alcuna sponsorizzazione commerciale, salvo poi consentire solo quelle basche: la “Petronor”, un’azienda petrolifera, con sede a Muskiz in Biscaglia dove possiede importanti raffinerie, registrando peraltro il fastidio dei soci più “ecologisti”, e la “Kutxabank”, una banca, con sede a Bilbao, erede della florida tradizione delle casse di risparmio basche, che pure ha creato qualche malumore.

L’Athletic vincitore della Coppa del Re nel 1903, contro il CF Madrid (non ancora Real), l’edizione inaugurale del torneo metteva in palio il titolo di campione di Spagna. La formula fu a inviti, organizzando un triangolare fra le rappresentanti delle tre regioni calcisticamente attive del paese, la Castiglia (il Madrid), la Catalogna (l’Espanyol di Barcellona) e i Paesi Baschi (con l’Athletic, appunto).

Athletic Club. Solo questa è la denominazione corretta. Spesso viene aggiunto “de Bilbao” per completezza, ma il nome ufficiale della squadra è composto solo da quelle due parole. In Italia si sente chiamare la squadra Athletic Bilbao, il Bilbao o, ancor peggio, Atletico Bilbao. Può sembrare una questione frivola, tuttavia c’è molto di più. El Bilbao, tanto per iniziare, è il nomignolo con cui gli avversari chiamano dispregiativamente il club, sapendo di far infuriare i bilbaini che invece si definiscono El Athletic. Invece Atlético è la denominazione che fu imposta alla squadra durante il franchismo, fatto che spiega da solo perché non sia accettata. I giocatori dell’Athletic Club sono conosciuti dai loro tifosi come Zurigorriak (in spagnolo, Rojiblancos), dal colore della divisa. Non è sempre stato così, e occorre una premessa. Infatti, se insieme con le materie prime e le merci varie giungevano a Bilbao anche numerosi tecnici e lavoratori inglesi, i giovani figli della borghesia imprenditoriale basca si recavano in Gran Bretagna per studiare nei prestigiosi college inglesi. Il frequente scambio culturale farà sì che si importerà in Biscaglia anche il football, che presto si imporrà per popolarità sulle meno accattivanti discipline atletiche tipicamente basche. E all’Inghilterra si lega anche l’iconica maglia della squadra basca. I colori biancorossi attuali non dipendono infatti, come in molti pensano, dal fatto che sono gli stessi della bandiera della municipalità di Bilbao. Derivano semmai da una questione di ordine più pratico.

Nel 1910 l’Athletic Club, per la prima volta in maglia a strisce biancorossa, vince la sua terza Coppa del Re proprio in casa dei rivali più accesi, allo stadio Ondarreta di San Sebastián contro il Vasconia, dopo aver sconfitto in semifinale il detentore CF Madrid, riportando così a Bilbao il titolo di campione di Spagna.

Come avveniva in tutta Europa, che di football si stava ammalando, le scarpe bullonate, i palloni di cuoio e le uniformi di gara di alta qualità erano acquistate o spedite direttamente dalla Gran Bretagna. La prima divisa dell’Athletic Club era identica a quella del Blackburn Rovers FC, praticamente una camicia a quarti bianco e blu scuro, donata dal socio basco di origine irlandese Juan Moser e associata per sempre al ricordo della prima vittoria della squadra basca nella Coppa del Re del 1903, che all’epoca attribuiva il titolo di squadra campione di Spagna. Gli attuali colori furono invece utilizzati per la prima volta a partire dal 9 gennaio 1910. Il motivo del cambio cromatico? Rocambolesco. Juan Elorduy, uno dei dirigenti del club, era stato incaricato dal presidente, nel suo viaggio in Inghilterra per le vacanze natalizie, di acquistare nuove divise da gioco, in sostituzione di quelle pur già blasonate ma logore. Tuttavia, forse distratto dal clima di festivo della capitale britannica, non riuscì a trovare a Londra un numero sufficiente di divise coi colori dei Rovers e così una volta raggiunta Southampton, città dalla quale avrebbe preso il traghetto per rientrare a Bilbao, per non tornare a mani vuote decise di acquistare le uniche uniformi disponibili: quelle della squadra locale, con le strisce verticali bianche e rosse dei Saints (in inglese, i Santi), le maglie del Southampton FC, precisamente. Tutto sommato i colori erano quelli della bandiera di Bilbao, e la qualità delle maglie era superiore a quella delle precedenti divise, questo deve aver pensato. E poi portarono bene: infatti coi colori zurigorri l’Athletic vinse subito un’altra Coppa del Re, imponendosi nel 1910 a San Sebastián, in casa degli acerrimi rivali della Real Sociedad, allora ancora denominati Vasconia Sporting. Così si scelse definitivamente la nuova divisa bianca e rossa, abbinandola dal 1913 ai calzoncini e calzettoni neri.

Era il 1915 quando l’Athletic Club si rivolse a José Arrúe per fargli ritrarre la squadra che quell’anno vinse la Coppe del Re per la seconda volta consecutiva, contro l’Espanyol de Barcelona sconfitto 5-0. Il dipinto, intitolato Equipo del Athletic Club, raffigura i giocatori in piedi davanti a una delle due porte del vecchio San Mamés come in una foto ufficiale, ci sono anche l’allenatore e il preparatore atletico con un pallone da calcio.

I giocatori dell’Athletic sono conosciuti come i Lehoiak (in spagnolo, Leones) e il grande felino è la mascotte del sodalizio. C’è un motivo sottile, quanto romantico. Infatti lo stadio di San Mamés fu costruito sul terreno accanto alla Santa y Real Casa de Misericordia de Bilbao, un’istituzione di assistenza per i cittadini bisognosi, all’interno della quale è ospitata una cappella dedicata a Mamés, conosciuto in Italia come Mamete di Cesarea, un giovane cristiano che subì il martirio per la fede, divenuto uno dei santi più popolari dell’oriente bizantino. I romani, dopo averlo sottoposto a tremendi supplizi, decisero di gettarlo in pasto ai leoni, i quali, però, ogni volta si facevano mansueti ai suoi piedi, allora venne ucciso dai soldati imperiali. L’Athletic disputa le sue partite interne in questo stadio, familiarmente chiamato la Katedrala (in spagnolo, la Catedral), inaugurato il 21 agosto del 1913 e finanziato esclusivamente dai soci del club, tramite una raccolta popolare di fondi, inizialmente era composto da tre semplici gradinate in terra e una tribuna principale in splendido stile tardo-ottocentesco. Non distante ancora oggi sorge isolata una gigantesca gru, che è l’elemento più emblematico del Museo Marítimo Ría de Bilbao, dove un tempo c’erano i cantieri navali della città.

Il Museo Maritimo Ria di Bilbao occupa una vasta area della riva sinistra dell’estuario del fiume, proponendosi di preservare e diffondere la storia, la cultura e l’identità degli uomini e delle donne che hanno vissuto uno stretto legame con l’antica tradizione marittima della città, dalle sue finestre si osserva la mole della gru Carola e quella del San Mamés, più a sinistra.

Con un’altezza di 60 metri e un peso di 30 tonnellate, Carola è l’ultima gru rimasta a Bilbao, dove un tempo si costruivano e riparavano le navi. Ironicamente l’imponente mole rossa dell’infrastuttura deve il suo nome a una donna, bellissima e delicata, che ogni giorno attraversava l’estuario in barca per andare al lavoro. Sembra che fosse così affascinante da fermare la produzione, poiché gli operai dei cantieri interrompevano qualsiasi lavoro per ammirarla al punto che il direttore dei cantieri, si dice, le offrì addirittura un’auto con l’autista per accompagnarla ogni mattina cambiando tragitto, ma Carola rifiutò e continuò ad attraversare l’estuario come faceva tutti i giorni. Il San Mamés fu il primo stadio spagnolo costruito appositamente per il calcio, con 3.500 persone presenti alla partita inaugurale contro il Racing de Irún, il 21 agosto 1913 giocata soltanto sette mesi dopo la posa della prima pietra. La capienza venne subito aumentata a 9mila posti con l’inizio degli anni ’20, grazie al primo ampliamento e alla costruzione delle gradinate de la General, prima, e de Capuchinos, poi. In quello stadio proprio Rafael Moreno, alias el Pichichi, fu il primo giocatore a segnare un gol e sempre su quel campo, l’8 febbraio 1931, l’Athletic -guidato da mister Pentland – riuscì ad imporsi sul FC Barcelona per 12-1, ancora oggi la vittoria più ampia della Liga spagnola.

L’Athletic Club vincitore della Coppa del Re per il terzo anno consentivo nel 1916, quando in finale a Barcellona sconfisse i blancos del Real Madrid con il risultato perentorio di 4-0.

Rafael Moreno Aranzadi, conosciuto da tutti fin da ragazzo come Pichichi, per la bassa statura, nasce il 23 maggio 1892 a Bilbao da una famiglia di notabili della città biscaglina, suo padre infatti è Joaquin Moreno Goñi, un avvocato dal radioso avvenire politico che sarà anche sindaco di Bilbao, mentre la famiglia della madre, Dalmacia Aranzadi y Unamuno è imparentata con quella di una delle figure più importanti della cultura spagnola del Novecento, il grande Miguel de Unamuno. Durante l’infanzia agiata, il ragazzo passava i pomeriggi con i suoi compagni di fronte all’Università gesuita di Deusto (dal nome dell’omonimo quartiere cittadino), dall’altra parte del Nervión, il fiume che attraversa Bilbao, osservando i marinai inglesi che giocano a calcio nell’immenso spiazzo lì accanto, qualche volta organizzando partite tra studenti, giocate in strada. In questi pomeriggi e in queste sfide pomeridiane nasce il Rafael giocatore, ha classe, i suoi compagni di liceo fanno a gara per averlo in squadra e così fanno pure i colleghi della Facoltà di Diritto a cui il ragazzo si iscrive più per far piacere a papà Joaquin che a lui stesso. Una sorta di compromesso, per continuare a giocare al football nel tempo libero, anche se il Pichichi aveva già in mente cosa fare della sua vita perché in cuor suo aveva già deciso, pur accettando un impiego presso gli uffici comunali prima e poi alle dipendenze di un importante officina siderurgica: la sua vita sarebbe stato il calcio, e l’Athletic.

Rafael nasce a Bilbao nel 1892 da una famiglia di notabili, suo padre Joaquin Moreno Goñi è un avvocato che sarà sindaco della città, mentre la famiglia della madre, Dalmacia Aranzadi y Unamuno è imparentata con quella di una delle figure più importanti della cultura spagnola del Novecento: Miguel de Unamuno. Lui invece sarà per sempre el jugador maravilla de cualquier tiempo.

Dieci anni di Athletic gli regalarono tante soddisfazioni, infatti. Non solo cinque campionati regionali (all’epoca non esisteva la Liga, e non c’era un torneo nazionale a girone unico) vinti nel 1914, 1915, 1916, 1920 e 1921, e quattro coppe del Re (che attribuiva il titolo di campione di Spagna) nel 1914, 1915, 1916 e 1921, segnando in carriera 83 gol in 89 partite, oltre alla breve ma proficua avventura con la nazionale spagnola. Alle Olimpiadi di Anversa il Pichichi aveva giocato tutte e cinque le partite con le “Furie rosse”, segnando un gol, vincendo contro Danimarca, Italia, Olanda e Svezia e perdendo solo contro il Belgio, conseguendo la medaglia d’argento. In quegli anni è indiscutibilmente l’uomo più famoso di Bilbao, i giornali lo osannano, i tifosi lo adorano, qualcuno arriva a definirlo (il giornalista della Gaceta del Norte e futuro selezionatore della nazionale Rafael Mateos) “el jugador maravilla de cualquier tiempo”, e i compagni gli vogliono bene, non solo perché li trascina in campo ma anche perché il ragazzo è allegro, un compagnone, l’anima di mille scherzi e di cene lunghissime dopo le partite. Della seconda vita di Rafael Moreno però non sapremo mai nulla, perché il 1° marzo 1922, a pochi mesi dalla sua ultima partita, arrivò la notizia della sua morte, sembra a causa di un forte attacco di febbre tifoidea per aver ingerito delle ostriche andate a male, secondo la versione più accreditata.

La forte squadra magiara dell’MTK Budapest FC a Bilbao per il periodo natalizio prima di giocare un’amichevole di lusso, si direbbe oggi, contro l’Athletic Club rende omaggio deponendo una composizione floreale al monumento appena sistemato in gradinata e dedicato a Rafael Moreno alias Pichichi, prima di scendere in campo al San Mamés, già conosciuto come la Katedrala.

Ai bilbaini, che lo avevano amato a lungo, non restò che erigergli un busto – dove la grafia del suo apodo è quella basca: Pitxitxi – collocato l’8 dicembre del 1926 all’interno del vecchio stadio, nella tribuna d’onore, e poi nel 2013 spostato nel nuovo San Mamés, dove è ben visibile alla fine del tunnel degli spogliatoi di questo impianto straordinario, celebrato dal premio vinto ai World Design Awards 2020 nella categoria delle strutture sportive e per il tempo libero, un riconoscimento che si aggiunge a quelli di “miglior nuovo stadio” al World Architecture Festival 2015 e al World Football Summit 2017. La tradizione tuttavia non s’è interrotta e, dal primo episodio avvenuto nel 1927 su iniziativa dell’MTK Budapest FC, tutte le squadre che non hanno mai giocato in casa dell’Athletic, si recano ad omaggiare il Pichichi prima di calcare l’erba della “Cattedrale”. Ancor più significativo tributo alla figura del piccolo attaccante basco, che giocava con un fazzoletto bianco annodato sul capo, fu deciso nel 1953 dalla istituzioni sportive nazionali, che autorizzarono il quotidiano sportivo “Marca” a attribuire un premio per il più prolifico cannoniere della Liga e a chiamarlo “Trofeo Pichichi”, attribuito a grandi campioni come Alfredo Di Stefano, Mario Kempes, Enrique Quini, Cristiano Ronaldo, Luis Nazario Ronaldo, Hugo Sanchez e Telmo Zarra, e il cui record appartiene a Lionel Messi, che lo ha vinto per ben otto volte.

La tradizione dell’omaggio al Pichichi si rinnova nel gesto del capitano della squadra belga del RKC Gent che affronta l’Athletic Club nella gara di UEFA Europa League vinta per 5-3 con cinque gol realizzati da Aritz Aduriz, centravanti che ha legato la maggior parte della sua carriera alla squadra basca.

Trujillo è una magnifica città, abitata da circa diecimila anime, situata nella comunità autonoma dell’Estremadura, abbastanza vicina alla frontiera che separa il Portogallo dalla Spagna e distante da Bilbao quasi seicento chilometri. Curiosamente nacquero proprio qui ben tre esploratori delle Americhe: Francisco Pizarro, scopritore e conquistatore (anche se sarebbe più corretto dedinirlo “distruttore”) dell’Impero Incas, Francisco de Orellana, il conquistador che diede il nome al Rio delle Amazzoni e quindi Hernando de Alarcón, che fu il primo europeo a risalire il Colorado, trovandovi la morte. L’importanza culturale, sociale e storica di Trujillo emerge dal suo straordinario centro storico, ricco di monumenti meravigliosi, tra i quali non sfigura il complesso di Santa María la Mayor, una chiesa romanica del XIII secolo. La torre campanaria venne gravemente danneggiata a seguito dei contraccolpi dei terremoti di Lisbona del 1521 e del 1755 e per questo l’amministrazione cittadina decise nel XIX secolo di demolire una parte cospicua della struttura, allo scopo di evitarne il rovinoso crollo. Successivamente la Dirección General de Bellas Artes decise la ricostruzione della torre, ma in assenza dei necessari fondi toccò al comune di Trujillo farsene carico. Una volta completata l’opera di ricostruzione in cima alla torre si scoprì lo stemma dell’Atlético Bilbao, come si chiamava durante il franchismo il club basco.

Era successo che un artigiano del luogo, Antonio Serván, per gli amici el Rana, incaricato dalla municipalità di disegnare e realizzare gli oltre cinquanta capitelli della torre, essendo rimasto a corto di idee per l’ultimo da scolpire decise di utilizzare lo stemma della squadra del cuore, su cui aveva lavorato mesi prima e che dopo averlo scolpito custodiva gelosamente in bottega. Le Bellas Artes quando se ne accorsero non poterono censurare il risultato, in fin dei conti non era stata violata alcuna legge o precetto, mentre la singolare circostanza faceva il giro della Spagna e finiva su tutti i giornali, anche baschi naturalmente. L’intrepido Serván fu così invitato a Bilbao dalla sua squadra del cuore e poté assistere a una partita alla Catedral e conoscere José Ángel Iribar, leggendario capitano e portiere dell’Athletic e della nazionale spagnola, campione d’Europa nel 1964. El Rana lo racconta così quel momento: “Yo estaba allí, en el San Mamés, rodeado de miles de personas. Y luego vi a Iribar. ¡Le abracé! He conocido a Iribar. Ya me puedo morir en paz”. La traduzione in italiano mi sembra superflua, sono i sentimenti del tifoso, in tutte le lingue del mondo.

Iribar è stato il prototipo dell’estremo difensore: sicuro, sobrio, tecnicamente quasi perfetto. Non fece mai mistero di sostenere l’indipendenza basca. 

Si può sottoscrivere, insomma: l’Athletic è l’unica squadra alla quale i tifosi non chiedono di vincere, ma di resistere.

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La giovane Roma al Testaccio non perdeva (quasi) mai, la Serie A fascista che nasce a Viareggio e il primo film italiano sul calcio: 5 a 0!

Se la città di Roma e la squadra della Roma non sono la stessa cosa intanto hanno lo stesso nome e gli stessi colori: l’identificazione quindi è fortemente legittima, quasi scientifica. Lo scrittore Sandro Bonvissuto questo concetto lo sviluppa in un libro che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, dovrebbe leggere: La gioia fa parecchio rumore, scritto per Einaudi. Questo bel romanzo de noantri canta di un amore assoluto per la squadra del cuore e mi ha ricordato di quando avevo scoperto quello che rimane(va) del glorioso Campo Testaccio, anzi cosa non ne rimane(va): il leggendario stadio della Roma, infatti, quello “dove nessuna squadra ce passerà”, era ridotto a un cratere, come se non fosse mai esistito. Il quartiere del Testaccio, invece, seppure in continua evoluzione, è riuscito a conservare intatto il suo spirito genuino e popolare che lo rende il quadrilatero della romanità per eccellenza, oggi all’avanguardia nella produzione culturale capitolina, ma al tempo stesso capace di evocare romantiche memorie sportive: quelle della giovane Roma testaccina, squadra amatissima e gagliarda, tutta “petti d’acciaio, astuzia e core”.

La formazione della Roma per il primo incontro con la Juventus, disputato il 13 novembre 1927 nella capitale e terminato in pareggio; da sinistra, in piedi: il presidente Foschi, l’allenatore Garbutt, Ziroli, Fasanelli, Bussich, Cappa, Chini Luduena, il massaggiatore Cerretti e il suo secondo Moggiani; al centro: Ferraris IV, Degni, Rovida, Bianchi; a terra: Mattei, Rapetti e Corbyons.

A poca distanza dall’imponente Porta di San Paolo, uno dei varchi meridionali della cinta muraria aureliana, si scorge il Sepulcrum Cestii un monumento funerario singolare quanto incongruo, si tratta di una tomba a forma di piramide egizia, costruita tra il 18 e il 12 a.C. e dedicata a Caio Cestio Epulone, un ricco magistrato romano. La piramide, completamente rivestita di lastre di marmo di Carrara, dà il nome alla fermata della metropolitana che si trova al lato di piazzale Ostiense, ed oramai è inglobata nel perimetro delle mura, accanto al suggestivo Cimitero Acattolico. Il camposanto, nascosto da maestosi alberi secolari, è il luogo dove riposano per sempre i non cattolici, soprattutto britannici, come Keats e Shelley, e tedeschi, come il figlio di Goethe, e pure tanti illustri italiani: tra gli altri Gadda, Lussu, Gramsci e Camilleri, il creatore di Montalbano, che qui trascorreva molto tempo a meditare passeggiando in solitudine fra le tombe, in prossimità della piastrella che ricorda il luogo di sepoltura del gatto Romeo, già ospite della vicina colonia, un felino molto amichevole e benvoluto dai visitatori, che in vita era diventato una vera e propria mascotte.

Al confine fra il rione Testaccio e l’Ostiense si trovano la porta di San Paolo e la Piramide Cestia, proprio accanto a quest’ultima, dietro alle mura aureliane ha sede il Cimitero acattolico, fra questo e le pendici del Monte dei Cocci un tempo stava il leggendario Campo Testaccio.

Verso il fiume Tevere, lasciata la quiete del camposanto, si attraversa dapprima piazza Testaccio, il cuore commerciale del rione, e quindi piazza Santa Maria Liberatrice, al centro della sua verace socialità, che ospita l’unica parrocchia del quartiere, Santa Maria Liberatrice appunto, il Teatro Vittoria e un vasto giardino, dove una significativa porzione è stata ri-battezzata, a furor di popolo, piazza Francesco Totti, con tanto di segnaletica. Proseguendo la passeggiata, si raggiunge l’Emporium, dove si trovava niente meno che il grande porto fluviale dell’antica Roma: ne restano alcuni tratti molto ben conservati, incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio, una banchina lunga addirittura mezzo chilometro con gradinate e varchi da cui si accede(va) a due file di magazzini che si affaccia(va)no su un corridoio criptoportico. Le dimensioni dell’infrastruttura non devono sorprendere, perché qui arrivavano le merci provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo destinate a Roma, che una volta sbarcate al porto di Ostia proseguivano il loro viaggio a bordo di zattere trainate lungo la terra ferma da grandi buoi che risalivano il Tevere fino all’Urbe, che nel II secolo d.C. con oltre un milione e mezzo di abitanti era la più grande città della storia dell’umanità.

È l’iniziativa di alcuni romanisti che hanno ribattezzato piazza Santa Maria Liberatrice, uno dei luoghi simbolo del rione Testaccio, cuore del tifo giallorosso. Nei giardinetti, sulla targa originaria è stato apposto un adesivo con la la scritta “Piazza Francesco Totti, VIII re di Roma”, che si trova pure su Google Maps.

Poco distante dall’attuale indirizzo del Roma Club Testaccio, il primo circolo dei tifosi giallorossi, fondato nel quartiere addirittura nel 1969, dopo una sosta al nuovo mercato rionale, polo gastronomico dal design minimale e contemporaneo, ci si tuffa nella storia della Roma, intesa come squadra, non solo in quella di Roma. E allora, se il tema della passeggiata diventa la squadra giallorossa, c’è un posto imperdibile da visitare, un’atmosfera da respirare: bisogna salire al Monte Testaccio, approfittando delle visite guidate i cui partecipanti si raccolgono ai piedi di quello che viene chiamato familiarmente il Monte dei Cocci. Naturalmente non è un monte, ché a Roma ci sono solo colli, bensì una vecchia discarica a cielo aperto. Già, proprio così: un enorme accumulo di materiale di scarto. Questa collina artificiale, alta poco più di 50 metri con una circonferenza di circa un chilometro, è difatti una grande area archeologica di immenso valore, formata interamente da cocci, che in latino si chiamano testae, da cui evidentemente il toponimo Testaccio. Ma da dove arrivano tutti questi cocci? Questi cocci sono nient’altro che i frammenti di oltre cinquanta milioni di anfore. Tante sono quelle utilizzate nell’arco di qualche secolo per trasportare l’olio d’oliva dalle provincie africane e iberiche fino a Roma.

Per secoli il Monte Testaccio fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché il suo scopo originario di discarica non lo rendeva meritevole di particolare menzione, oggi è l’ottavo colle (seppur artificiale) di Roma, ed è intimamente legato alla storia della squadra giallorossa.

Queste grandi anfore a causa della rapida alterazione dei residui d’olio un tempo contenuto all’interno, non erano più riutilizzabili e quindi andavano smaltite, come si direbbe oggi. Una volta svuotate venivano quindi frantumate a poca distanza dall’Emporium e i resti, dopo essere stati trattati con calce al fine di impedire lo sviluppo dei batteri portati dalla decomposizione del contenuto, erano accumulati gli uni sugli altri, favorendone la coesione e così raggiungendo, a partire dal X secolo, l’attuale conformazione: una collina, diventata la sede ideale dei festeggiamenti carnascialeschi, ispirati alle antiche festività romane dei Saturnali, che prevedevano addirittura la celebrazione di cruente corride concluse con la mattanza di maiali e tori, fra l’ebbrezza generale. In seguito emerse una funzione religiosa del Monte dei Cocci, che consisteva nella rappresentazione della Via Crucis fino sulla sommità del colle, come testimonia la croce in ferro che dal 1914 si trova lì. Tutta l’area che chiamiamo Testaccio ancora nel medioevo era una vasta zona soggetta alle alluvioni del Tevere, comunque malsana a causa della malaria e, pur dentro le mura, popolata da contadini, emarginati dalla città e poveri.

Uno dei tanti locali costruiti in aderenza al Monte Testaccio, in questa sala in particolare si possono osservare i cocci, dietro le lastre di vetro, che una volta consolidati hanno formato l’intera – enorme – massa della collina artificiale.

Nonostante il degrado che caratterizzava l’area, il territorio pianeggiante e la presenza di collegamenti fluviali e terrestri furono alla base della decisione, assunta nelle pieghe del primo piano regolatore di Roma, di prevedere le operazioni di bonifica necessarie a destinare il territorio all’insediamento di una serie di attività industriali, quali ad esempio il grande mattatoio cittadino, i mercati generali agroalimentare e ittico e il parco ferroviario. Il rione nacque quindi come propaggine residenziale destinata agli operai addetti alle attività che si andavano via via insediando lungo l’asse dell’Ostiense: in un contesto di urbanizzazione programmata, che a Roma non aveva precedenti. Lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura aureliane venne lasciato ad uso pubblico, consacrandolo a destinazione tradizionale delle gite domenicali e delle “ottobrate” dei romani dove il vino scorreva a volontà, e proprio la particolare conformazione della collina che permette la circolazione dell’aria al proprio interno, favoriva la conservazione dei vini, offrendo un incentivo ai residenti più intraprendenti che avviarono l’attività di numerose fraschette, le tipiche aree di ristoro e svago dei romani, e che forse sono le remote antenate dei tanti locali che ancora oggi si trovano ai piedi dell’ottavo colle e che richiamano i festeggiamenti di un tempo.

È il 3 novembre del 1929 quando il Campo Testaccio viene inaugurato alla presenza delle autorità civili, religiose e militari, prima della partita Roma-Brescia, che terminerà col successo della squadra giallorossa.

Peraltro, la crescita tumultuosa del quartiere determinò un abusivismo edilizio caotico che deturpò gran parte di quella zona un tempo destinata a prati, al punto che alla fine degli anni Venti dello scorso secolo si rese necessario un intervento di recupero. Così, all’interno di quel perimetro ai piedi del Monte dei Cocci grazie alle risorse di Renato Sacerdoti, un facoltoso imprenditore che decise di investirvi, fu realizzato il Campo Testaccio, progettato sul modello degli stadi all’inglese, in particolare quello dei campioni d’Inghilterra dell’epoca, l’Everton Football Club, il mitico Goodison Park. Una volta realizzato, ben sette ingressi si affacciavano su via Nicola Zabaglia alla base della tribuna principale lunga 112 metri e coperta nella parte centrale da una tettoia di 64 metri sorretta da 6 pilastri. Era il luogo destinato alle autorità, ai soci vitalizi e alla stampa, potendo contenere in tutto 5000 persone disposte su 21 gradoni, mentre al di sotto di essa si trovavano vari locali di servizio e gli spogliatoi da cui i giocatori accedevano al campo attraverso un passaggio sotterraneo. La tribuna opposta, denominata dei “distinti”, era lunga 120 metri, aveva 31 gradoni e poteva contenere fino a 8000 spettatori ed era dotata ai fini della sicurezza del pubblico di un impianto che, sotto il peso della folla, indicava il raggiungimento della massima capienza. Dietro le porte del campo si alzavano le gradinate definite “popolari” che erano sopraelevate di 4 metri dal suolo e lunghe 60 metri per 10 di altezza e 15 gradoni che potevano contenere circa 2000 persone ciascuna.

Le tribune in legno – con balaustre liberty dipinte in giallo e rosso – erano uno dei tratti distintivi del Campo Testaccio. La tribuna era coperta nella tratta centrale destinata ad ospitare le autorità, dove un paio di volte si fece vedere a scopo propagandistico anche Benito Mussolini.

Fra le tribune e la rete che delimitava l’area di gioco si ricavarono poi due “parterre” leggermente inclinati lunghi ciascuno 120 metri e larghi 7 ove potevano trovare sistemazione in piedi, e quindi a un prezzo più contenuto, altri 6000 spettatori. L’impianto comprendeva anche l’abitazione del custode e dell’allenatore della squadra, un edificio sul cui muro esterno era dipinto un grande stemma della Roma, verniciato di giallo oro e rosso pompeiano. Il terreno di gioco era ricoperto da un soffice tappeto erboso dotato per l’epoca di un innovativo sistema di drenaggio, costituito da un reticolo di canaletti sotterranei che permettevano l’irrigazione e il deflusso dell’acqua piovana, mentre sotto il prato era stato collocato uno strato di carbonella, che insieme alla struttura a schiena d’asino, consentiva che non si formassero delle pozzanghere. L’ingente investimento per la costruzione della casa della Roma era stato sopportato da un personaggio centrale nella storia del sodalizio capitolino, il cosiddetto banchiere di Testaccio, Renato Sacerdoti, che ne diventerà il secondo presidente, dopo il fondatore. I prezzi erano abbastanza elevati per l’epoca, e tuttavia lo stadio che poteva contenere fino a 23 000 spettatori era spesso esaurito, mentre chi era senza biglietto saliva al Monte dei Cocci da dove si vedeva meno della metà del campo a causa della tettoia della tribuna, ma spesso si riunivano sino a 5000 persone. Tanto per dare un’idea della passione che suscitava la giovane Roma basti pensare che se il mezzo più usato all’epoca per raggiungere lo stadio era il tram, su 26 linee in funzione allora nella Capitale d’Italia ben 11 consentivano di arrivare al Campo Testaccio.

I tifosi della Roma rimasti senza biglietto salivano sul Monte Testaccio per assistere alla partita, anche se più che vederla la potevano sentire e a loro volta non facevano mancare il loro rumoroso appoggio alla squadra giallorossa.

L’entusiasmo popolare e la passione travolgente per la neonata squadra capitolina hanno una spiegazione, che ci porta a ricordare e spiegare la nascita della Serie A. Infatti, erano più o meno trent’anni che in Italia si organizzavano tornei di calcio: quello che è considerato il primo vero campionato risale al 1898, venne disputato in un’unica giornata tra quattro squadre e vinto dal Genoa. Negli anni successivi i campionati inclusero più squadre, si articolarono meglio, nacquero categorie diverse, gironi regionali e successive finali sino all’ultima partita della stagione che assegnava il titolo di campione d’Italia. Il tutto sotto la lente della Federazione Italia Giuoco Calcio, la FIGC, che tuttavia non riusciva a trovare l’accordo delle società iscritte a realizzare un assetto più razionale. Il problema era inoltre che le squadre del Nord Ovest erano nettamente più forti di quelle del Nord Est, del Centro e del Sud, ed ogni edizione era in qualche modo diversa nella sua formula dalle precedenti, dal momento che allo scopo di assegnare il titolo nazionale la FIGC cercava di coinvolgere tutto il paese, organizzando degli spareggi tra le squadre vincitrici dei diversi campionati, che peraltro vedevano prevalere sempre le grandi squadre lombarde, piemontesi o liguri, che avrebbero desiderato limitare il torneo a un girone che coinvolgesse esclusivamente il Nord Italia, scatenando l’opposizione di quelle squadre più piccole che si opposero e nel 1921 si arrivò addirittura a una scissione e si disputarono due campionati diversi, uno vinto dalla Novese (quello ufficiale, con le squadre minori) e uno dalla Pro Vercelli. I due campionati furono ricomposti l’anno successivo e si adottò una soluzione di compromesso che prevedeva una Lega Nord e una Lega Sud, con una finale tra le vincitrici, ma il divario tecnico tra le due leghe era incolmabile, e a vincere era puntualmente la squadra del Nord: Internazionale, Milan, Juventus, Pro Vercelli e Genoa non avevano rivali, tanto che la prima squadra di un’altra regione a vincere il campionato sarebbe stata il Bologna solo nel 1925, mentre il primo sodalizio non del Nord sarà la Roma, addirittura nel 1942.

Un telegramma di felicitazioni spedito da un tesserato giallorosso che festeggia il successo del primo campionato vinto dalla Roma, mai lo scudetto se lo era aggiudicato una squadra del Centro Sud e la questione nordista emerge con chiarezza dal testo del messaggio.

Nel frattempo il fascismo aveva preso il potere, tratteggiando l’idea di un campionato unico, più adatto ai sentimenti autarchici e nazionalisti propagandati dal regime. I progetti per l’unificazione delle diverse competizioni regionali erano però complicati dal fatto che, oltre alla prima divisione, l’impianto del campionato di calcio doveva prevedere strutture simili anche per le divisioni minori, a cui partecipavano squadre piccole per cui era logisticamente difficile, o impossibile, prendere parte a campionati di maggiori dimensioni e ambizioni. Tuttavia una scintilla venne in soccorso del regime e fornì il pretesto necessario a legittimare un intervento radicale. Infatti una grave crisi di sistema aveva colpito il mondo del calcio e quasi travolto la FIGC nel 1926, quando giunse al termine un campionato (per la cronaca, vinto dal Torino e poi revocato per una presunta frode che avrebbe determinato un dirigente granata a comprare un derby poi vinto dal Toro 2 a 1 contro la Juventus) rovinato dalle cosiddette “liste di ricusazione”, ovvero sia elenchi stilati dai club che ponevano all’indice arbitri a loro non graditi. Proprio lo sciopero arbitrale che ne seguì portò di fatto il regime, tramite il presidente del CONI dell’epoca Lando Ferretti, ad organizzare una speciale commissione cui venne dato l’incarico di riorganizzare il calcio italiano, nel frattempo ammorbato da sospetti e violenze, che culminarono nella finalissima fra Genoa e Bologna dell’anno precedente, detta “delle pistole”, e vinta alla quarta ripetizione della sfida dai felsinei, in un clima inaudito. Riunitisi in Versilia, in una sala del municipio di Viareggio, e alla presenza dell’on. Leandro
Ferretti presidente del CONI, la speciale commissione composta da Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Mauro, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, redasse un documento che venne pubblicato ed approvato dal CONI il 2 agosto del 1926: la cosiddetta “Carta di Viareggio”, che rivoluzionò in maniera sostanziale il calcio italiano, fino ad allora formalmente sport dilettantesco. Con quel documento, per iniziare, si riorganizzò la classe arbitrale, si approvò il professionismo e si cercò di disciplinare il calciomercato.

In una sala del municipio di Viareggio nell’estate del 1926 i tre esperti nominati dalla presidenza del Coni per riorganizzare la FIGC, dopo una stagione di scandali e veleni senza precedenti: Foschi, Graziani e Mauro cambiarono per sempre il volto del calcio italiano, rivoluzionandolo.

Venne inoltre ristrutturata la FIGC il cui presidente era Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, e si stabilì di procedere all’organizzazione di un vero e proprio campionato nazionale. Attraverso la “Carta di Viareggio” si dispose fu la chiusura delle frontiere, ispirata dalle idee nazionalistiche propugnate dal fascismo questa decisione colpì duramente i club, che all’epoca contavano più di ottanta calciatori provenienti dall’estero, per lo più da quella Scuola Danubiana che vedeva in austriaci ed ungheresi gli esponenti più illustri, e non piacque ai proprietari più facoltosi di quelle squadre già allora disposte ad effettuare investimenti importanti pur di sopravanzare i propri rivali. Ecco quindi che proprio in risposta all’autarchizzazione del calcio italiano vennero “inventati” gli oriundi. A convincere  Benito Mussolini a riconoscere la possibilità di tesserare calciatori figli della “grande Italia al di là degli Oceani” fu Edoardo Agnelli, che di fatto chiese la “grazia” per i figli dei tanti emigrati all’estero nel corso dei decenni precedenti. Così subito dopo che si era arrivati ad annullare il contingente straniero in terra d’Italia, come previsto dalla “Carta di Viareggio”, ecco riaprirsi uno spiraglio nelle frontiere del calcio italiano: nel 1929 furono subito undici gli “stranieri” – ma d’origine nostrana – cui fu permesso di venire a giocare nel Belpaese. Fatta la legge trovato l’inganno, nella migliore tradizione italica.

La Nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo era fortissima e con gli “oriundi” praticamente imbattibile: Campione del Mondo nel 1934 in casa e nel 1938 in Francia, vincitrice dell’Olimpiade nel 1936 in Germania e della Coppa Internazionale (il primo trofeo continentale per nazionali) nel 1930 e nel 1935, dominando letteralmente gli anni Trenta.

La ristrutturazione su scala nazionale dei campionati non poteva avvenire in molte realtà locali sulla base delle società esistenti, e non sarà priva di conseguenze, specialmente nelle città del Sud dove vi era una pletora di società di modeste dimensioni e seppure molto amate insignificanti dal punto di vista tecnico. In particolare i maggiori nuclei urbani del Centro-Sud, non esprimevano una singola società che potesse neanche lontanamente competere con i grandi club del Nord. In Toscana ad esempio il calcio si era sviluppato soprattutto lungo la costa a Livorno e Pisa, mentre il capoluogo era sportivamente in ombra, e così pure grandi città come Napoli, Taranto e Bari. Anche nella Roma tanto cara al regime dall’inizio del secolo si era formata una gran quantità di squadre, ma le uniche in grado di imporsi erano la Lazio, l’Alba e la Fortitudo, capaci di vincere in varie occasioni il campionato meridionale ma troppo lontanate dalle squadre del Nord per poterle anche solo impensierire. Quindi per favorire la nascita del campionato nazionale organizzato sulla base di un girone unico, appunto detto all’italiana, dove ogni squadra avrebbe incontrato tutte le altre in casa propria e al loro domicilio allo scopo di determinare la più forte di tutte, si diede avvio a una consistente serie di fusioni fra società della stessa città e nacquero in quegli anni la Fiorentina, il Napoli, la Dominante, che poi si chiamerà Liguria a Genova, il Bari e il Taranto in Puglia, la Fiumana nella città di Fiume, l’Ambrosiana dalla fusione fra l’Internazionale e l’Unione Sportiva a Milano e la Roma.

Italo Foschi fu il principale artefice della fondazione della Roma nel 1927, sodalizio del quale sarà il primo presidente, nato il 7 marzo 1884 a Corropoli, in provincia di Teramo, fu federale fascista dell’Urbe dal 1923, e si occupò poi di riorganizzare le attività sportive in Italia, essendo uno degli estensori della Carta di Viareggio.

Il neonato sodalizio capitolino era il risultato della fusione concordata dai dirigenti delle tre società calcistiche che raggiunsero l’intesa: il comm. Italo Foschi, presidente della Fortitudo Pro Roma e promotore della fusione, l’on. Ulisse Igliori, protagonista dell’impresa di Fiume e della Marcia su Roma, squadrista, poi imprenditore e costruttore, presidente dell’Alba Audace, e l’avv. Vittorio Scialoja, raffinato giurista, già ministro della Giustizia e degli Esteri, presidente dell’ Accademia dei Lincei, del Consiglio Nazionale Forense e del Foot Ball Club Roman, che a loro volta avevano aggregato una dozzina di società sportive sorte dal 1900 in avanti e quindi portatrici di un pubblico appassionato e sincero. I colori scelti per caratterizzare la nuova Associazione Sportiva, che nasceva nell’estate del 1927 col nome di Roma, furono il giallo oro e il rosso pompeiano del gonfalone cittadino e il simbolo adottato non poteva che essere la lupa capitolina mentre allatta Romolo, il fondatore di Roma, e suo fratello Remo. Il primo presidente del nuovo sodalizio sarà proprio Foschi che dopo aver pilotato politicamente l’intera operazione, destinato dal regime ad altri incarichi civili lontano da Roma, lascerà lo scranno presidenziale a Renato Sacerdoti, industriale del settore alimentare, un contrabbandiere per i suoi detrattori, certamente un uomo ambizioso e, come il suo predecessore, visceralmente innamorato della Roma, e impegnato nell’impresa di allestire una squadra in grado di competere con gli squadroni del Nord del paese, per questo affidata all’allenatore inglese William Garbutt, il mister per antonomasia, uno dei più prestigiosi e competenti tecnici dell’epoca, che aveva vinto tutto, battendo ogni record, alla guida dell’invincibile Genoa della prima metà degli anni Venti, e che condurrà la neonata Roma alla vittoria della prestigiosa Coppa CONI nel 1928.

La squadra giallorossa festeggia la vittoria della Coppa CONI presentandola durante la partita di campionato Roma-Triestina, riconoscibili Giovanni Degni con la fascia in testa, Attilio Ferraris al fianco del federale Turati, “Sciabbolone” Volk, il neo presidente Renato Sacerdoti e, mano sulla coppa, lo storico massaggiatore Angelino Cerretti, in forza alla Roma per oltre quarant’anni.

acquistando Rodolfo Volk, ottimo centravanti istriano dalla Fiumana, Guido Masetti, eccellente portiere fra i migliori d’Italia dal Verona, e uno dei giocatori più forti dell’epoca, forse il migliore centrocampista del momento, Fulvio Bernardini dall’Inter, che insieme ad Attilio Ferraris IV, primo nazionale e capitano giallorosso, costituirà una coppia affiatata quanto carismatica, il presidente Sacerdoti permetterà alla Roma di contendere la vittoria finale nel campionato 1930/31 alla fortissima Juventus di Edoardo Agnelli, che avrebbe dominato la Serie A per le successive cinque stagioni: il quinquennio d’oro bianconero appunto. Tuttavia il presidente giallorosso non si era perso d’animo e incoraggiando i suoi collaboratori il 1º maggio del 1933 disse loro “Ora possiamo puntare al titolo!”, infatti dopo essere sbarcati al porto di Genova provenienti dal Sudamerica, quella stessa sera arrivarono alla stazione Termini, accolti dai tifosi romanisti in delirio Enrique Guaita e Alejandro Scopelli dall’Estudiantes de la Plata e Andrés Stagnaro dal Racing Club de Avellaneda, acclamati come fra i migliori oriundi in circolazione. Dopo qualche amichevole per integrarsi in un organico già rodato soprattutto Enrique Guaita esploderà letteralmente, conquistando tutti: il 24 settembre 1933 la Roma all’esordio in campionato vincerà a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manderà in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse.

Il 1º novembre del 1933 al Campo Testaccio una Roma incontenibile – con il Dottore Fulvio Bernardini sugli scudi – travolge la Lazio 5-0 e ribadisce la supremazia cittadina sull’odiata rivale biancoceleste, quel giorno letteralmente cancellata dal campo.

Guaita inizia a segnare a raffica e diventa lo “spavento delle difese” mentre la Roma terminerà quel campionato solo al quinto posto, dopo il secondo e il terzo degli anni precedenti. Intanto il commissario tecnico della Nazionale, Vittorio Pozzo, arruola proprio l’oriundo Guaita fra gli azzurri, nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina, e la scelta si rivelerà quanto mai azzeccata: il contributo di Guaita, ribattezzato Enrico, risulterà infatti determinante al successo azzurro nei Mondiali di casa del 1934, realizzando il gol decisivo in semifinale contro l’Austria – il fortissimo Wunderteam che aveva superato l’Italia vincendo nel 1932 la Coppa Internazionale – nonché il decisivo assist per Angelo Schiavio, che confezionerà poi la rete della vittoria nella finale con la Cecoslovacchia. L’argentino è ormai un idolo indiscusso del popolo romanista, terminale offensivo implacabile di una squadra che voleva diventare protagonista del calcio italiano. Nel campionato successivo al Mondiale che porterà la Roma al quarto posto, Guaita sarà capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (un record ancora imbattuto nei tornei a 16 squadre), e protagonista di imprese memorabili come i tre gol al Torino con cui la Roma espugnerà il Filadelfia o quello a Milano che stenderà l’Inter in casa, o ancora quelli rifilati al Livorno che verrà polverizzato e che gli varranno il soprannome di “Corsaro Nero”, a motivo della maglia utilizzata dalla Roma in diverse occasioni, completamente nera e agitata dalle movenze grintose e veloci dell’argentino.

Ai Mondiali l’Italia si ritrova in semifinale l’avversario più temibile, l’Austria di Hugo Meizl e Mathias Sindelar, il Wunderteam. Ecco il gol che vale la finale: il portiere austriaco Platzer ha respinto corto un tiro di Schiavio, Meazza è finito in fondo alla rete, ma Guaita anticipando Platzer si avventa sulla palla e segna.

I tifosi giallorossi erano estasiati dai colpi dell’attaccante ed eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto, e il presidente Sacerdoti ci credeva davvero al punto di rafforzare ulteriormente la squadra. All’esito della campagna acquisti estiva arriveranno in giallorosso Eraldo Monzeglio dal Bologna e Luigi Allemandi dall’Ambrosiana-Inter, i due terzini della Nazionale. La Roma è ormai pronta, e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, ma a due giorni dall’esordio nel torneo succede l’imprevedibile: i tre argentini della Roma fuggono dall’Italia. Era successo che all’esito della visita di leva – obbligatoria avendo acquisito anche la cittadinanza italiana – i tre erano stati dichiarati abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. Si trattava di una prassi in realtà ma da quel momento Guaita, che aveva appena ricevuto un considerevole aumento di ingaggio, Scopelli e Stagnaro iniziarono a temere seriamente di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea e non credettero alle rassicurazioni della Roma, preferendo la fuga anche a costo di risultare come disertori e non potendo così più tornare non Italia. I calciatori romanisti, si presentarono all’ambasciata dell’Argentina e partirono in automobile per la Liguria e in treno arrivarono in Francia a Marsiglia, imbarcandosi da lì per il Sudamerica su un bastimento merci.

I giocatori della Roma durante l’allenamento, Guaita è l’unico in perfetta tenuta da gioco, con indosso la divisa sociale, forse per festeggiare il nuovo contratto appena stipulato, quando bastavano “mille lire al mese” lui dal sodalizio giallorosso ne riceveva diecimila, al mese.

Con la fuga degli argentini, la Roma venne a trovarsi in una situazione di gravissima difficoltà, stante la mancanza della prima punta e del centrocampista offensivo più forte forse del calcio italiano. Ad aggravare la situazione anche la pratica impossibilità di intervenire con qualche acquisto mirato, visto che la campagna acquisti era ormai conclusa: la soluzione andava trovata all’interno dell’organico. Luigi Barbesino non si lasciò travolgere né scoraggiare: in un primo momento l’allenatore giallorosso cercò di ovviare alla bisogna, inserendo un terzino al centro dell’attacco, per poi provare altre soluzioni anche se con scarsi risultati. Per tutto il girone di andata e nella fase iniziale del girone di ritorno la Roma fu condizionata dalla scarsa vena offensiva della squadra che tuttavia si concentrò sulla solidità della difesa dove giganteggiarono Masetti, Monzeglio e Allemandi e De Micheli. A quel punto, l’allenatore giallorosso decise di buttare nella mischia il giovanissimo Dante Di Benedetti, un attaccante del tutto privo di esperienza che tuttavia ripagò la fiducia del mister nel migliore dei modi, mettendo a segno 7 reti nelle 13 partite disputate e conferendo al reparto offensivo l’efficacia necessaria. Col suo innesto la Roma risolse d’incanto i propri problemi offensivi, e spinta dal suo pubblico, nel fortino di Campo Testaccio, inanellò una serie di risultati che la portarono a scalare imperiosamente la classifica, tanto da insidiare il primo posto del Bologna che, infine, riuscì ad avere la meglio per un solo punto vincendo lo scudetto che anche in questo caso la Roma aveva sfiorando, perdendolo beffardamente.

La Roma superstite alla fuga degli argentini riuscirà a completare una stagione iniziata nel peggiore dei modi sfiorando lo scudetto, vinto con un solo punto di vantaggio sui giallorossi dal fortissimo Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”.

Il Campo Testaccio era il tempio del tifo romanista, dove la passione vivace del popolo giallorosso esplodeva insieme al carattere vigoroso della squadra, tanto che quella leggendaria Roma testaccina è legata in modo indissolubile allo stadio dove si esibiva e imponeva alle avversarie “la legge del Testaccio”, se è vero che dalla partita inaugurale del 3 novembre 1929, vinta 2-1 contro il Brescia, all’ultima gara disputata nel quartiere il 2 giugno 1940, vinta 3-1 contro il Novara, la Roma lì disputerà in poco più di dieci anni 214 partite, fra campionato e coppa nazionale, concludendone la metà senza subire gol dagli avversari, perdendone 30, pareggiandone 34 e vincendo in ben 150 occasioni. In effetti, quando la squadra capitolina usciva dalla botola del sottopassaggio per entrare in campo, le tribune di legno vibravano di un entusiasmo talmente intenso che si diffondeva ai giocatori portandoli ad uno stato di ebrezza agonistica che rimase proverbiale, perché i calciatori sentivano una responsabilità in più: quella dell’appartenenza. Negli spogliatoi Attilio Ferraris IV, il mitico capitano, nonché primo giocatore della Roma a vestire la maglia azzurra della Nazionale italiana, lo ricordava a tutti, quando, mani sul pallone e sguardo fisso negli occhi dei compagni, recitava la formula consolidata del giuramento con la squadra, prima di guidarla in campo: «Chi s’estranea dalla lotta è un gran fijo de ‘na mignotta».

Quando i giocatori della Roma entravano in campo emergendo dalla botola l’entusiasmo esplodeva letteralmente e Campo Testaccio fremeva.

E ci sono gesta di quel tempo che assurgono a leggenda. La sfida Roma contro Juventus del 15 marzo del 1931 è uno di questi casi. Il 15 marzo è un giorno speciale per la storia di Roma antica: sono infatti le Idi di marzo, quando nel 44 a.C., Caio Giulio Cesare viene pugnalato a morte da un manipolo di senatori congiurati scatenando la guerra civile. Invece, tornando al calcio, a solo quattro anni dalla fusione che aveva portato alla nascita del sodalizio giallorosso, per la prima volta, la Roma poteva covare ambizioni tricolori, in quel 1931 le squadre più forti erano i campioni in carica dell’Ambrosiana-Inter dove giocava Giuseppe Meazza, il più forte giocatore italiano dell’epoca, capocannoniere implacabile e Balilla per antonomasia, il Bologna che aveva già conquistato due campionati negli anni precedenti e stava consolidando quel gruppo che sarebbe diventato lo squadrone che tremare il mondo fa, il Genoa e il Torino che stavano esaurendo il loro ciclo di successi degli anni venti – due campionati i rossoblu e uno i granata del trio delle meraviglie – ma erano ancora molto competitive e naturalmente la Juventus che sotto l’egida di Edoardo Agnelli aveva allestito una compagine straordinaria che saprà vincere i successivi cinque campionati inaugurando proprio quell’anno un lungo periodo di supremazia assoluta della squadra bianconera, ossatura della Nazionale italiana vincitrice due volte della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e dell’Olimpiade nel 1936, sotto la guida di Vittorio Pozzo.

È il 15 marzo 1931 al Campo Testaccio juventini e romanisti fraternizzano prima dell’inizio della gara, che la Roma per la prima volta riuscirà a vincere contro la Juventus, travolgendo letteralmente la squadra bianconera.

C’è grande attesa nella Capitale per un evento mai vissuto prima, lo si attende “cor core acceso”. Non solo è una sfida d’alta classifica, la Juventus infatti si presenta nella Capitale all’incontro valevole per la ventiduesima giornata con 5 punti di vantaggio sulle inseguitrici Roma e Bologna, è qualcosa di più: la Roma infatti non era mai riuscita a vincere contro la Juventus, è una possibilità di riscatto contro la supremazia del Nord nei confronti del resto del paese, è la sfida fra l’energia popolana della giovane squadra romanista composta quasi esclusivamente da romani e l’aristocratica rivale per eccellenza, la squadra più facoltosa e ambiziosa, espressione dell’antica capitale sabauda, contro la nuova capitale d’Italia. Per l’occasione l’allenatore dei giallorossi, l’inglese Burgess, cultore di un calcio dinamico e pragmatico, studiò una mossa per arginare l’ala sinistra bianconera Mumo Orsi, il più temibile degli avversari, spostando nella posizione di mediano laterale destro il capitano giallorosso Tilio Ferraris IV che in linea con il suo carattere spavaldo si impegnò solennemente coi tifosi: “Domani Orsi nun deve beccà palla.” E i tifosi puntuali accorsero riempiendo come sempre al Campo Testaccio, 25 000 presenza si dice, e un paio di migliaia di appassionati sul Monte dei Cocci crearono una cornice di pubblico mai vista prima, in un’atmosfera d’attesa quasi morbosa: sventolavano fazzoletti, spiccavano ovunque macchie sgargianti di giallorosso, e scintille di elettricità si sprigionavano da ogni parte, mentre la folla continuava ad affluire compatta al Testaccio. La Juventus schierava Combi, Rosetta, Caligaris, Barale, Varglien, Vollono, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi e la Roma rispondeva con Masetti, De Micheli, Bodini, Ferraris, Bernardini, D’Aquino, Costantino, Fasanelli, Volk, Lombardo e Chini.

Gianpiero Combi in uscita acrobatica anticipa il romanista Rodolfo Volk, lo Sciabbolone che tuttavia riuscirà a a scardinare quella che è ritenuta tuttora dalla stampa specializzata la miglior linea difensiva di tutti i tempi espressa nel calcio italiano nonché una delle migliori nella storia della disciplina, formata oltre al portiere bianconero, da Virginio Rosetta e Umberto Caligaris.

Ed ecco che la partita è da poco iniziata, ma sospinta da un tifo immenso la Roma passa subito in vantaggio, già al 6’ infatti quando Ferraris IV allunga al fiumano Volk, segue il passaggio di quest’ultimo a Lombardo che lascia partire una sassata e palla in rete! La Juventus tenta una reazione ma il punteggio rimane invariato sull’1-0 sino alla fine del primo tempo. Alla ripresa delle ostilità è ancora la Roma ad andare in rete al 50’: Costantino salta Caligaris e centra rapidissimo a Volk, il primo grande attaccante della storia della Roma, ribattezzato Sciabbolone per i suoi tiri potentissimi, che nella circostanza infila l’angolo alto con un colpo “de testa da fa ‘ncantà”, e così il risultato diventa 2-0, mentre Testaccio esplode in una gioia mai vista prima, del resto con la Juventus i giallorossi non avevano vinto mai, bensì perso in quattro occasioni e pareggiato una volta. I bianconeri non ci stanno e la partita, giocata senza risparmio di colpi duri, s’incattivisce ulteriormente. Cesarini si scontra con Fasanelli e il capitano Ferraris IV si butta nella mischia per difendere il compagno ma viene sgambettato e finisce a terra, cercando poi un contatto non proprio amichevole con Cesarini e così l’arbitro per non sbagliare li espelle entrambi. Al 62’ Caligaris intercetta con le mani un pallone destinato in rete, è rigore e si incarica della battuta Fulvio Bernardini che senza esitazioni tira e fa 3-0. A questo punto il capitano Ferraris IV, che non era rientrato negli spogliatoi ma era rimasto semi-nascosto accomodandosi sulle scale dentro la “buca” dell’ingresso al campo, perché voleva incoraggiare i compagni, facendo capolino, si liberò di coloro che cercavano di trattenerlo per entrare in campo a baciare “Furvio nostro” Bernardini, due icone del calcio giallorosso. La Roma è in trance agonistica mentre la Juventus è alle corde, con un guizzo al 79’ Fasanelli sfrutta un errato retropassaggio della difesa bianconera e insacca agevolmente per il 4-0 mentre all’87’ arriva il definitivo 5-0, in seguito ad un’azione travolgente del duo De Micheli e Costantino, con cross a Bernardini che insacca perentorio: “Cari professori appatentati sete belli e liquidati perché Roma ce sa fa”.

Gli spogliatoi sotterranei in origine erano rivestiti in legno e dotati di ogni comfort: docce, gabinetti e riscaldamento. Da quei locali partiva un tunnel, sorta di sottopassaggio coperto, che faceva sbucare i calciatori direttamente sul bordo del campo di gioco attraverso una scalinata e una botola protetta da un coperchio di assi di legno.

Quel successo avvicinò i giallorossi a soli tre punti dalla Juventus capolista, che quel campionato lo vincerà comunque, in ragione di qualche passaggio a vuoto degli inseguitori dovuto anche ai provvedimenti disciplinari che indebolirono la Roma, squalificandone diversi giocatori, dopo un infuocato derby di maggio pareggiato 2-2 contro la Lazio e terminato in rissa a causa degli schiaffi che volarono fra il difensore romanista De Micheli e niente meno che il presidente della società biancoceleste, il generale Vaccaro. Tuttavia quella goleada inflitta alla Juventus a corredo della prima vittoria contro i bianconeri, ispirò il regista romano Mario Bonnard, tanto è vero che l’anno successivo nel 1932 uscirà nelle sale cinematografiche “Cinque a zero” la prima pellicola cinematografica italiana a parlare di calcio. Il cinema e il calcio intrattengono rapporti a far data da un film inglese del 1911, “Harry the Footballer”, un cortometraggio muto diretto da Lewin Fitzhamon. Quella fu la prima opera di finzione che si conosca mai realizzata sul calcio e fu di fatto la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Tutt’altro che memorabile, verosimilmente. Una stella del calcio è rapita dalla squadra avversaria, finché viene liberato dalla sua ragazza, appena in tempo per giocare una partita e segnare il gol della vittoria. Distribuito dalla Hepworth, il film uscì nelle sale britanniche nell’aprile del 1911, e sappiamo che venne distrutto nel 1924 dallo stesso produttore, Cecil M. Hepworth, che trovandosi in gravi difficoltà finanziarie giunse a tanto per poter recuperare il nitrato d’argento della pellicola. “Cinque a zero” invece è una commedia di circa 70 minuti che racconta del presidente di una squadra di calcio, interpretato da Angelo Musco, all’epoca attore di gran successo, preoccupato perché il capitano della sua squadra è distratto, nella pellicola l’attore Osvaldo Valenti, uno dei protagonisti della cinematografia italiana del ventennio fascista, perché innamorato di una cantante del varietà, interpretata da Milly, pseudonimo di Carolina Mignone, all’epoca conosciuta soubrette d’avanspettacolo. Naturalmente tutto si riconcilierà in un classico lieto fine, addirittura con la conversione della moglie del presidente che si appassionerà al calcio, mentre la squadra del marito trionferà con un largo 5-0, per l’appunto.

Un articolo dell’epoca con la locandina del film.

Il film fu girato negli stabilimenti della Caesar Film di Roma ed memorabile anche perché alle riprese parteciparono Attilio Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Arturo Chini, Bruno Dugoni, Fernando Eusebio, Casare Augusto Fasanelli, Guido Masetti, Attilio Mattei e Rodolfo Volk, impersonando se stessi. Purtroppo questo documento è introvabile dal momento che sono andate distrutte le poche copie conservate, ed è quindi praticamente invisibile. Bonnard, però, non fu l’unico a essere folgorato da quella squadra, capace di tante imprese. Infatti il paroliere Antonio Castellucci le dedicò una canzone, anzi, la “Canzona”, con la “a”, riadattando il tango “Guitarrita” prendendone le note e plasmandole con i nomi dei calciatori romanisti scesi in campo quel 15 marzo. Nasce così all’epoca “La Canzona di Testaccio” che non è frutto di quella creatività collettiva che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana, ma che grazie ad una felice intuizione ed alla determinazione di Sandro Ciotti. che consente alle giovani generazioni di conoscere i miti di una Roma bellissima, spesso presa a modello di tenacia e gagliardia, inno arrivato sino a noi.

“La Roma racconta”, pubblicato fra la fine del 1979 e l’inizio del 1980 dalla De Sisti Editore, raccoglie 520 fotografie e 2 Lp – 33 giri, contenenti 109 testimonianze sonore, assemblate con interviste espressamente realizzate da Sandro Ciotti o con fonti d’archivio.

Infatti l’attuale traccia musicale facilmente rintracciabile su internet non è quella originale ma una versione registrata da Vittorio Lombardi per il popolare radiocronista e giornalista sportivo che l’aveva sentita canticchiare da Aldo Donati, centrocampista di quella Roma testaccina, mentre raccoglieva la sua testimonianza per il documentario sonoro e fotografico del 1980 intitolato “La Roma racconta”. All’interno Sandro Ciotti voleva inserire una rivisitazione della “Canzona di Testaccio” ma si rese conto che non ne esisteva nessuna registrazione. Si rivolse quindi al romano Vittorio Lombardi, un musicista che si era affermato negli anni Sessanta, e che diede la sua disponibilità. La fretta era tanta che Ciotti non volle prenotare uno studio di registrazione, ma raggiunse Lombardi al “Capriccio” una traversa di Via Veneto la sera stessa per incidere il brano direttamente al registratore, ed è proprio il caratteristico fruscio a dare al brano quell’effetto che lo fa sembrare originale. Grazie alla felice intuizione di Ciotti, quel riadattamento di Castellucci è diventato una delle più esaltanti colonne sonore della curva romanista.

Nel 1981, prima di un Roma-Juventus, viene esposto dalla Sud uno striscione a tutta curva: “Roma, Testaccio ti guarda”. E non dovrebbero occorrere altre motivazioni, per gettare il cuore oltre l’ostacolo.

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Bruno Neri, mediano e partigiano. Prendere una decisione e mantenere la posizione, in campo e nella vita.

Esiste solo una foto, piegata dal tempo, che ritrae un gesto clamoroso: una squadra di calcio schierata a centrocampo, rivolta verso la tribuna di uno stadio in costruzione dove i calciatori sono ritratti nel gesto di salutare le autorità e il pubblico in un modo tristemente familiare: il braccio destro teso. Fra loro uno solo ha le braccia lungo il corpo, verso il basso. È un mediano, e si chiama Bruno Neri.

Si tratta della partita inaugurale del nuovo stadio di Firenze – che ora conosciamo come Artemio Franchi – intitolato all’epoca a Giovanni Berta, giovane militante fascista e squadrista fiorentino ucciso dieci anni prima, dopo l’omicidio da parte delle squadre d’azione del dirigente comunista Spartaco Lavagnini, mentre da solo si trovava a transitare in bicicletta su di un ponte fu circondato e, dopo essere stato pugnalato, fu gettato nell’Arno al di là del parapetto del ponte. Terranno a battesimo il magnifico impianto sportivo in quel giorno del 13 settembre 1931 i fortissimi giocatori austriaci dello Sportklub Admira, squadra di Vienna che sarà proprio quell’anno campione nazionale, affrontando la giovane – ma ambiziosa – Fiorentina che, di fronte a ben 12 000 spettatori in estasi, riuscirà a imporsi vincendo 1-0. Il gol viola lo segnerà tal Pedro Petrone, due volte campione olimpico a Parigi nel 1924 e ad Amsterdam nel 1928 e campione del mondo nel 1930 con la nazionale uruguaiana, niente meno che il primo giocatore straniero a vestire la maglia della Fiorentina nonché il primo straniero a vincere poi la classifica dei marcatori della Serie A a girone unico. In quella circostanza l’impianto sportivo non era ancora stato edificato completamente, ma le aspettative erano molte e i cronisti dell’epoca ricordano che il pallone dell’incontro venne spettacolarmente lanciato da un aeroplano pilotato dal grande aviatore fiorentino dell’epoca Vasco Magrini, che sorvolò a lungo lo stadio prima dell’inizio della partita, impresa celebrata anche attraverso una splendida medaglia commemorativa realizzata da Mario Moschi, scultore e medaglista, che raffigura da una parte un calciatore e, sull’altra faccia, la città stilizzata di Firenze e il nuovo impianto sportivo.

Estratto della planimetria generale del quartiere Campo di Marte, di cui lo stadio costituisce l’elemento caratterizzante a forma di grande D in omaggio a Mussolini, il duce del fascismo.

Tanta enfasi non era ingiustificata, comunque. Infatti la nuova struttura progettata da Pier Luigi Nervi, il grande ingegnere che divenne il simbolo di un continuum tra il grande passato artistico dell’Italia e il presente, era ricca di elementi innovativi e addirittura avveniristici, per l’epoca: la grande pensilina a copertura della tribuna centrale priva di sostegni intermedi, ben tre scale elicoidali di accesso alle tribune opposte e la slanciata torre di Maratona, mentre il drenaggio del terreno di gioco era considerato tra i migliori d’Europa e nell’insieme all’altezza dello stadio Littoriale di Bologna, inaugurato nel 1927 da Leandro Arpinati – all’epoca deus ex machina del calcio italiano – e Benito Mussolini a cavallo, niente meno che il duce in persona. L’originalità, il carattere innovativo e la pregevolezza dell’opera fiorentina di Nervi, nel suo coniugare la raffinatezza estetica e il rigore strutturale con le eleganti e ardite strutture in cemento armato, furono comunque apprezzate dagli addetti ai lavori di tutto il mondo che lo definirono un capolavoro dell’architettura italiana evidenziandone anche l’assoluta eccezionalità nel panorama della produzione architettonica fiorentina dell’epoca. Uno dei maggiori allenatori degli venti e trenta, il grande Hugo Meisl, creatore e tecnico del Wunderteam austriaco, descrisse il nuovo impianto fiorentino come «il migliore stadio del mondo sia dal punto di vista strettamente estetico che da quello della funzionalità delle sue attrezzature sportive e della comodità per il pubblico: un’opera all’altezza di Firenze».

Molte delle soluzioni progettate da Pier Luigi Nervi caratterizzano uno stadio che è un autentico capolavoro di ingegneria, imitato ovunque a cominciare dall’iconico tempio del Boca Juniors – la Bombonera a Buenos Aires – che vi si ispira.

Il disobbediente Bruno Neri, nato a Faenza nel 1910, da ragazzo frequenta a Imola l’istituto agrario, e cerca di conciliare lo studio con gli allenamenti, perché già all’età di 16 anni disputa uno strepitoso campionato di rincalzo, la cosiddetta Divisione Nord, giocando titolare proprio nel Faenza dove si disimpegna nel ruolo di mediano. Le sue qualità non passano inosservate agli osservatori di un club neonato quanto già importante – la Fiorentina – che nell’estate del 1929 lo acquisterà per una somma all’epoca niente affatto trascurabile: ben 10 mila lire. Alla presidenza del club viola c’era il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano fascista della prima ora, partecipò alla Marcia su Roma, squadrista e futurista, diventò imprenditore petrolifero, e fu mecenate nella musica, fondatore del Maggio Fiorentino, e nello sport, fondatore del sodalizio gigliato che voleva rendere immediatamente competitivo per partecipare al campionato di serie A, appena inaugurato. Quell’anno la Fiorentina raggiungerà un onorevole quarto posto in Serie B e il mediano faentino disputerà un campionato d’eccezione, meritandosi le lodi della stampa sportiva. Bruno Neri è un calciatore particolare, attento alla cultura e lettore accanito, frequenta musei e pinacoteche, è di casa al Bar delle Giubbe Rosse di Firenze, il suo linguaggio forbito gli consente di avere conversazioni e coltivare amicizie con giornalisti e scrittori. È un ragazzo silenzioso, attento a quello che dice, soprattutto è uno che in campo lavora sodo, non sbaglia un passaggio e dirige con maestria la linea del centrocampo viola, tanto che l’anno successivo al suo esordio, la Fiorentina vincerà il campionato di serie B con tre giornate di anticipo e il merito principale di quell’annata calcistica strepitosa, a giudizio unanime della stampa sportiva, sarà proprio di Bruno Neri.

A 22 anni per il calciatore di Faenza arriva la convocazione nella nazionale B, allenata da Vittorio Pozzo, l’esordio è Italia-Austria che si disputa il 5 maggio 1932, in seguito sarà inevitabile la convocazione nella squadra nazionale maggiore, quella che aveva vinto il campionato del mondo del ’34. È il 25 ottobre del 1936 e a Milano si gioca Italia- Svizzera, finita con un netto 4 a 2 per l’Italia, ed ecco quanto riferisce del mediano di Faenza la Gazzetta dello Sport: «Neri imposta magnificamente l’azione che sviluppa Meazza, Ferrari, Piola». Del resto la stagione 1934/45 aveva visto i giocatori gigliati, tra i protagonisti della Seria A: grazie a una buona difesa e a una notevole partenza in campionato, la Fiorentina si laureò addirittura campione d’inverno il 3 febbraio 1935. La squadra viola non riuscì a ripetersi nel girone di ritorno, complici alcune sconfitte sul finale di stagione e finì terza in classifica dietro ai bianconeri della Juventus e ai nerazzurri dell’Ambrosiana-Inter, conquistando comunque il diritto di partecipare per la prima volta alle competizioni europee, prendendo parte alla Coppa dell’Europa Centrale, dove la Fiorentina esordirà il 16 giugno 1935 a Budapest, sconfiggendo i fortissimi ungheresi dell’Újpest Football Club per 2-0, mentre verrà eliminata ai quarti dallo Sparta Praga, che in seguito vincerà il prestigioso trofeo mitteleuropeo di quell’edizione.

L’iconica maglia della Fiorentina si ispira a quella dell’Újpest Football Club da cui il marchese Luigi Ridolfi Vay da Verrazzano decise di mutuare il colore viola, in luogo di quelle bianche e rosse, i colori di Firenze.

L’anno successivo Bruno Neri passa alla Lucchese che nel frattempo aveva conquistato la Serie A a girone unico per la prima volta. La squadra era composta da giocatori molto forti per la categoria di provenienza, tra cui il portiere Aldo Olivieri e Vinicio Viani, che realizzò addirittura 35 reti in 34 partite. Le “pantere” erano guidata dall’allenatore ungherese Ernő Egri Erbstein, e in quella stagione di esordio nella massima serie, anche grazie all’esperienza e al contributo di Bruno Neri, la squadra rossonera raggiunse un notevole risultato per una matricola: addirittura il 7º posto assoluto. La stagione successiva, Erbstein raggiungerà la sponda granata di Torino dove Ferruccio Novo gli chiederà di allestire quella squadra formidabile che poi avrebbe dominato la Serie A negli anni a venire: il Grande Torino. In principio tuttavia si trattava di gettare le basi, e il grande tecnico aveva bisogno di un mediano affidabile, e così invitò Bruno Neri a raggiungerlo nel capoluogo piemontese dove il faentino vivrà, frequentando artisti e intellettuali che lo videro come lo ricorda il grande storico ed economista Antonello Gerbi, già a capo dell’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana: «Neri frequentava giovani giornalisti e scrittori, alcuni di loro lo avevano scelto come modello di personaggio, come esempio di atleta con una sensibilità aperta e cordiale, dotato di fermezza di carattere e schiettezza nei rapporti, coraggio e fiducia nel prossimo». A Torino il faentino fu tra i più presenti, giocò e molto fino al 1940, quando a seguito di una serie di incidenti dovette ritirarsi all’età di 30 anni: disputò la sua ultima partita a Milano contro l’Ambrosiana-Inter, finita 5 a 1 per la squadra nerazzurra.

Bruno Neri lasciata Firenze si troverà bene a Lucca, e con la maglia rossonera della Lucchese centrerà un risultato storico, quando le “pantere” guidate dall’allenatore ungherese Ernő Egri Erbstein si classificheranno al settimo posto in Serie A.

Ritornato a Faenza con un consistente gruzzolo di 600 mila lire, Bruno Neri intensifica i rapporti con il cugino Virgilio, notaio con studio a Milano, dove compra una grande officina meccanica e mette a lavorare alcuni suoi amici. Gli eventi politici tuttavia precipitano e sempre attraverso il cugino, Bruno Neri decide di entrare nella Resistenza. Sono passati molti anni oramai da quel gesto del 13 settembre 1931, che precedeva cronologicamente la fama sportiva che Bruno Neri avrebbe conseguito in seguito e proprio per questo si tratta di un gesto coraggioso, quanto pericoloso. All’epoca erano passati cinque anni dall’omicidio di Giacomo Matteotti, solo tre da quando i partiti di opposizione erano stati sciolti, il diritto di sciopero abolito, la libertà di stampa ridimensionata e Antonio Gramsci incarcerato. Erano passati solo due anni dalle elezioni del 1929 quando la quasi totalità dei circa nove milioni di italiani che andarono a votare dissero va bene, si proceda, ci fidiamo del Fascismo, è tutto a posto, mentre Bruno Neri, apartitico, forse simpatizzante azionista, nutriva la convinzione di stare dalla parte giusta, quella opposta. Decide per questo che è il momento di mettere in gioco quel moto di spirito che lo percorreva, certo in un campo diverso rispetto a quello con linee, pali e traverse, fatto di sentieri di montagna, boschi e nascondigli in casolari isolati. Inquadrato nel battaglione Ravenna, “Berni” questo il nome di battaglia, partecipa all’operazione «Zella», in pratica provvede di persona al trasporto in bicicletta di una radio che farà da centro di informazione per i gruppi partigiani della sua zona. Nel 1944 torna perfino a giocare a calcio nel campionato Alta Italia con la maglia del Faenza, chiudendo così il cerchio e indossando per l’ultima la maglia della sua città natale con la quale aveva debuttato ad appena 16 anni.

Il ricordo apposto sulla casa natale a Faenza, dove Bruno Neri nacque il 12 ottobre 1910 e dove tornò una volta ritiratosi dal calcio, per abbracciare la causa della Resistenza.

È il 10 luglio del ’44. Con la bella stagione la montagna è meno dura e le operazioni partigiane si intensificano. Durante una di queste Bruno Neri, o “Berni”, è con l’amico Vittorio Bellenghi, anche lui di Faenza, e insieme devono controllare la strada di Marradi, vicino Firenze, per recarsi a Gamogna dove sul monte Lavane c’è da recuperare un aviolancio delle truppe alleate. I due percorrono la strada e, dopo una svolta, si trovano di fronte a quindici soldati nazisti con divise, fucili ed elmetti, non magliette e pantaloncini. È l’ultima partita. I tedeschi sono più svelti, in un attimo arretrano, si riparano dietro un parapetto ed iniziano a sparare all’impazzata sui due partigiani che inizialmente rispondono al fuoco, poi si rendono conto di essere in strada e senza ripari e battono in ritirata: troppo tardi perché vengono raggiunti da una scarica di pallottole che non lascia scampo a nessuno dei due. A Bruno Neri è oggi intitolato lo stadio cittadino di Faenza.

L’impianto faentino è situato in Piazzale Pancrazi e presenta una tribuna centrale coperta, due tribune laterali di metallo, una curva e la tribuna scoperta opposta a quella centrale, in questo stadio intitolato a Bruno Neri gioca il Faenza Calcio.

Lo dicevamo all’inizio: questa storia ci insegna qualcosa pur essendo così lontana nel tempo e nel contesto. Prendere una posizione. In campo e fuori, nelle piccole e nelle grandi battaglie.

[Disclaimer. Le immagini digitali e/o fotografiche utilizzate sono estratte in rete e principalmente (ma non solo) dalle pagine https://it.m.wikipedia.org/ dove si legge la dichiarazione che le fotografie sono nel pubblico dominio poiché il loro copyright è scaduto o altrimenti possano essere riprodotte in osservanza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, e comunque della normativa vigente, in ragione delle mere finalità illustrative e per fini non commerciali, non costituendo concorrenza all’ipotetica utilizzazione economica dell’opera di chiunque altro].