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Il calciatore diventato un modo di dire (quello della zona Cesarini), nel bel mezzo del Ventennio e nonostante lo Stile Juve …

Cesarini, Renato. – Giocatore di calcio (Senigallia 1906 – Buenos Aires 1969), mezz’ala sinistra nella nazionale italiana e nella Juventus. Famoso per aver deciso l’esito di un incontro internazionale, Italia-Ungheria del 13 dicembre 1931, marcando proprio sul finire della partita il gol della vittoria per 3-2, onde la locuzione segnare in zona Cesarini, realizzare un gol sullo scadere del tempo regolamentare, e per estensione, riuscire in extremis in una cosa.

Era nato a Senigallia, Renato. I suoi genitori avevano atteso la nascita del bimbo per poi dirigersi tutti insieme alla volta di Genova, un viaggio non confortevole (neanche) all’epoca, e da lì imbarcarsi per raggiungere l’Argentina, come tantissimi altri connazionali in cerca di un futuro migliore. Il Genoa intanto aveva già vinto sei volte il campionato italiano di calcio, una volta c’era riuscita la Juventus e il Milan stava per vincere il terzo alloro, quando i Cesarini arrivarono, dopo un mese di navigazione, a Buenos Aires, una metropoli elegante che si stava conquistando l’appellativo di “Parigi del Sudamerica”, dotata di grandi edifici governativi, come la Casa Rosada, e istituzioni culturali di fama mondiale, come il Teatro Colón. Al principio del XX secolo l’economia argentina stava crescendo tumultuosamente e per questo attirava, in un paese immenso e praticamente spopolato, milioni di immigrati dalla vecchia Europa. Il censimento del 1909, riferito a Buenos Aires, aveva registrato una popolazione di oltre un milione di abitanti (il doppio di Roma, per avere un’idea) dei quali oltre cinquecentomila erano stranieri (278 041 italiani, per la precisione), che andavano ad abitare i nuovi quartieri sorti nel frattempo accanto agli impianti industriali della città, e fra loro – da un paio d’anni – nella capitale c’erano anche i Cesarini.

Il giovane Renato crescerà aiutando i genitori a sbarcare il lunario attraverso tanti lavoretti, pensando poi a divertirsi coi pochi spiccioli di cui all’epoca poteva disporre, e un po’ come molti altri ragazzi della sua età e della sua condizione sociale scoprirà – dopo le ragazze e il tango – il fútbol, giocandolo come si praticava nei campi polverosi di strada, e in seguito praticandolo non più come un passatempo, ma come un mestiere: lo strumento che gli consentirà di emanciparsi dalla miseria. Renato infatti, che era dotato e aveva personalità da vendere, arrivò a debuttare nella prima divisione nazionale con la squadra del Club Atlético Chacarita Juniors – fondato venti anni prima da alcuni giovani, cattolici e socialisti, proprio nel suo stesso anno di nascita, il 1° maggio del 1906 – i cui colori sociali rosso, bianco e nero erano stati scelti in ragione del richiamo al socialismo (il rosso), alla purezza d’animo dei fondatori (il bianco) e al Cementerio de la Chacarita (il nero), in onore dell’enorme cimitero cittadino (esteso per circa 95 ettari), che ha sede proprio nello stesso barrio ed è all’origine del singolare soprannome del club: el Funebrero; perché in Argentina qualunque soggetto animato e qualsiasi oggetto inanimato devono avere un apodo, altrimenti non esistono.

Sarà l’Athletic Club Alumni in quegli anni a dominare il campionato argentino di calcio, capace di vincere dieci titoli in undici stagioni, e in seguito toccherà al Racing Club de Avellaneda, che ne vincerà sette di campionati, in dieci stagioni. Nel frattempo soprattutto in Europa si era consumato il dramma della prima guerra mondiale, che ebbe inizio il 28 luglio 1914, con la dichiarazione di guerra dell’Impero austro-ungarico al Regno di Serbia e che, a causa del gioco di alleanze formatesi negli ultimi decenni del XIX secolo, vide poi schierarsi le maggiori potenze mondiali in due blocchi contrapposti: da una parte i cosiddetti “Imperi centrali” (la Germania, l’Austria-Ungheria e la Turchia), dall’altra gli “Alleati”, rappresentati principalmente da Francia, Gran Bretagna, Russia, Giappone e Italia, che si affrontarono fino all’11 novembre 1918. E proprio in Italia la situazione si rivelò particolarmente precaria. Infatti, il drammatico conto presentato dalla guerra in termini di perdite umane fu pesantissimo, con oltre mezzo milione di caduti e un milione e mezzo tra mutilati, feriti e dispersi, senza contare le distruzioni occorse sul fronte bellico nell’Italia nord-orientale, con la perdita di ogni bene da parte di centinaia di migliaia di profughi che erano fuggiti dalle loro case trovatesi nel mezzo di assalti e bombardamenti.

Era drammatica anche la situazione economica dell’Italia. Il paese infatti dipendeva in gran parte dalle importazioni oltremare di grano e carbone, e se aveva pesanti debiti con gli Stati Uniti, le casse statali erano quasi vuote mentre la lira, durante il conflitto, aveva perso buona parte del suo valore e il costo della vita era aumentato a dismisura. A causa della mancanza di un solido mercato interno, e della crisi di quelli esteri, molte manifatture semplicemente chiusero determinando fra gli altri anche il problema dell’assorbimento di centinaia di migliaia di disoccupati dell’industria di guerra e di milioni di soldati smobilitati, che erano in fibrillazione perché molte delle promesse fatte loro durante la guerra (come l’espropriazione di terre ai latifondisti e la loro distribuzione in lotti ai reduci di guerra) non furono rispettate, provocandone il grave malcontento. Intanto anche la situazione politica diventava incandescente: i partiti e movimenti di sinistra, in particolare modo il Partito Socialista Italiano, crescevano a fronte delle pessime condizioni dei più deboli, galvanizzati anche dal successo della rivoluzione russa, mentre a destra le formazioni nazionaliste e interventiste si scatenavano nella contestazione del governo e dei trattati di pace. Intanto, in questo clima di grave tensione, era ricominciato il campionato di calcio: aveva vinto l’Internazionale, che riprendeva il filo sospeso dall’ultima vittoria prima della guerra, che era stata attribuita al Genoa a campionato quasi concluso per manifesta superiorità, si esauriva in quegli anni anche l’epopea gloriosa della Pro Vercelli, capace di vincere sette volte il campionato, con il contorno degli squilli piemontesi del Casale, prima del conflitto, e dopo la guerra, della Novese.

Attorno ai circoli dannunziani veniva creata l’idea della “vittoria mutilata”, che sarebbe poi divenuta il simbolo della delusione dell’opinione pubblica italiana, che aveva sperato invano in accrescimenti territoriali e coloniali e invece si trovava a fare i conti con il grave peggioramento delle condizioni di vasti strati delle classi medie, e più in generale delle condizioni economiche e sociali che preoccupavano la grande borghesia industriale e agraria, assediate di fronte alle agitazioni sociali, che arrivarono nelle città sino all’occupazione delle fabbriche e nelle campagne a non minori prevaricazioni, nel cosiddetto “biennio rosso”. Il fascismo cresce allora, dapprima come movimento, poi via via si rafforza nel contesto dello sconcertante vuoto politico di un paese oramai allo sbando, attribuendosi la “missione” di salvare l’Italia dal bolscevismo; sorse così e si estese l’azione delle “squadre”, che miravano con le loro “spedizioni punitive” a scompaginare le organizzazioni di socialisti e popolari, tra il favore dei ceti agrari e industriali e la condiscendente passività delle forze dello Stato. Giolitti, il dominus della politica italiana dell’epoca, infatti illuso di poter riassorbire il fascismo nello stato liberale, come vent’anni prima gli era riuscito con i socialisti, diede un tacito appoggio all’attività delle squadre fasciste e alla loro violenza, permettendo così al movimento di Mussolini di estendere la sua influenza attraverso l’intimidazione e la prevaricazione delle sue “camicie nere”.

Nel 1921 il movimento fascista, si trasforma in partito e dichiara espressamente l’obiettivo della conquista dello Stato, Mussolini prova a dare la “spallata” alla sua maniera, favorito dalla crisi profonda delle istituzioni liberali, dal succedersi di governi deboli e inconcludenti e dalla divisione parlamentare delle sinistre: il 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma. All’esito di questa coreografica manifestazione di forza, la situazione precipita quando il re Vittorio Emanuele III deciderà di affidare proprio a Mussolini il compito di formare il nuovo governo; quello che poi diventerà il Duce, dopo una prima fase, nel contesto di una ampia coalizione, vinte le elezioni del 6 aprile 1924 svoltesi in un clima plumbeo di intimidazioni e violenze, abbandonerà la tattica della collaborazione con i fiancheggiatori, incamminandosi – dopo essersi addirittura assunto la responsabilità “politica” dell’omicidio del deputato Giacomo Matteotti – sulla via della dittatura e del regime totalitario. Intanto il campionato va avanti fra il sempre maggiore entusiasmo degli italiani che oramai vanno pazzi per il calcio; mentre un Genoa quasi invincibile si aggiudicava due lunghissimi campionati nel 1922-23 e 1923-24, grazie a una squadra magnifica, che perfino Mussolini volle incontrare a Palazzo Venezia, emergeva il Bologna che in un clima arroventato in linea con quei tempi difficili, piegava i campioni in carica del Genoa – che difesero strenuamente lo scudetto, invenzione dannunziana, per la prima volta cucito sulle maglie dei detentori – vincendo una sfida, durata per cinque partite svoltesi nell’arco di undici settimane, segnata da querelle arbitrali, scontri istituzionali e financo atti di violenza ispiratori del nome con cui lo scudetto del 1924-25, vinto dai rossoblu felsinei sui grifoni genovesi, è popolarmente conosciuto: quello “delle pistole”.

L’organizzazione dello Stato fascista procedette spedita, si sciolsero partiti e sindacati, fu abolita la libertà di stampa e di riunione, fu creato un tribunale speciale per la difesa dello Stato, e ogni potere di fatto passò a Mussolini, capo del governo e capo del fascismo, con il concorso del cosiddetto Gran consiglio, che a partire dal 1926 attuerà una politica economica deflazionistica allo scopo di favorire l’industrializzazione. Si persegue l’autarchia, ovvero si tenta di rendere autosufficiente l’economia italiana attraverso il potenziamento della produzione interna e si accentua il dirigismo economico con la nascita delle corporazioni e, prima ancora di affrontare il tema della religione – con il processo di conciliazione tra Stato e Chiesa che sarà sublimato nei “Patti Lateranensi” dell’11 febbraio 1929 – si mette mano anche al calcio; Mussolini non amava questo sport e solo nel corso del tempo (e con l’esperienza) imparò ad apprezzarlo, soprattutto perché riuscì a comprendere la portata sociale e popolare di questo gioco “nazionale”, stando bene attento a non ostacolarne il gradimento e anzi ad incoraggiarlo, ad esempio attraverso la costruzione di nuovi impianti in grado di magnificare la potenza del regime: oltre allo Stadio Mussolini di Torino (poi Comunale) e allo Stadio dei Cipressi (poi Olimpico) all’interno del Foro Mussolini (poi ribattezzato Foro Italico) di Roma, il simbolo più importante dell’architettura calcistica fascista sarà il Littoriale di Bologna (poi Renato Dall’Ara), il migliore impianto di tutta Europa.

Dalla partenza della famiglia Cesarini, quando il Genoa e il Milan erano le squadre di maggiore successo e i campionati duravano poche settimane, si era giunti al momento della nascita della Serie A, quando si stavano rafforzavano, in particolare, il Torino del Conte Marone Cinzano, erede della famiglia fondatrice dell’omonima azienda alimentare e di bevande, e la Juventus, che programmava il futuro grazie all’arrivo di Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni Agnelli, fondatore della FIAT, che sarebbe diventato il più importante gruppo finanziario e industriale privato italiano. Il regime fascista intervenne dunque al fine di sottomettere al proprio disegno totalitario questo sport così amato; successe in occasione della grave crisi che colpì la FIGC nella primavera del 1926, a causa delle “liste” con cui le società calcistiche ricusavano arbitri a loro non graditi e del conseguente sciopero a oltranza dei direttori di gara, che non poteva però essere tollerato. Fu così che il CONI, già allineato al regime, esautorata la FIGC, nominò una commissione di esperti col compito di redigere un documento concernente la nuova organizzazione del calcio italiano. In pochi giorni, il 2 agosto dello stesso anno verrà pubblicata in effetti la cosiddetta “Carta di Viareggio”, dal luogo in cui si erano ritirati i commissari, la località della Versilia, che andava a riformare profondamente l’ordinamento calcistico nazionale.

La Carta impose una prima svolta, attuando il primo storico strappo verso il professionismo, dividendo infatti i calciatori in due categorie: dilettanti e non-dilettanti, consentendo così il riconoscimento dei numerosi precedenti di passaggio da una squadra all’altra avvenuti clandestinamente nel torneo italiano, e dei relativi stipendi pagati ai giocatori più talentuosi mascherandoli dietro rimborsi-spese o salari fittizi (come era successo per Renzo De Vecchi, passato dal Milan al Genoa, Virginio Rosetta, dalla Pro Vercelli alla Juventus, o Adolfo Baloncieri, dall’Alessandria al Torino, sempre per somme esorbitanti), questo approccio consentì inoltre di legalizzare il calciomercato, che da allora inizierà a strutturarsi; la Federazione venne riorganizzata in maniera verticistica in modo da essere controllata dal regime, e si arrivò (finalmente) all’introduzione di un girone unico nel campionato italiano, i princìpi di unità nazionale mal si rispecchiavano infatti in un torneo che fin dalla sua nascita era stato suddiviso fra campionati regionali (come in Germania si sarebbe continuato a fare fino agli anni Sessanta del Novecento): venne quindi disposta la creazione di una Divisione Nazionale unica per tutta Italia, per l’assegnazione dello scudetto, formata da due gironi, che si sarebbe trasformata di lì a poco in un unico torneo a venti squadre con partite di andata e ritorno in cui tutti affrontavano tutti (il cosiddetto girone all’italiana, che poi si chiamerà: Serie A).

Alle idee di nazionalismo del fascismo fu invece ispirata la regola che chiudeva il campionato italiano agli stranieri: infatti, dal 1928 non sarebbe stato più ammissibile nessun tesseramento di calciatori stranieri nel torneo nazionale. In Italia però si sa come va a finire: fatta la legge trovato l’inganno, anzi l’oriundo, tramite la concessione di re-italianizzare i cosiddetti rimpatriati; in altri termini, se l’oriundo nasceva in una famiglia di emigrati (italiani) nel luogo di destinazione dello spostamento migratorio (poniamo l’Argentina), pure in assenza di legami formali con il luogo di provenienza dei suoi ascendenti, in ragione del contrasto fra la provenienza culturale (supponendosi che la famiglia emigrata abbia conservato almeno in parte tradizioni e valori, e spesso lingua, del sito di provenienza, quindi l’Italia) e il contatto con la cultura locale del luogo ove il nucleo familiare si è stabilito era sufficiente la volontà dell’interessato di scegliere la cittadinanza italiana, per ottenerla. E così niente più austriaci e ungheresi che fino a quel momento tanto avevano offerto al nostro calcio, e benvenuti ai sudamericani: argentini e uruguagi in particolare, che doneranno caratteristiche uniche alla nostra scuola. Il 1° dicembre 1929 sarà l’occasione per un doppio esordio di oriundi in Nazionale; la partita è Italia-Portogallo, che terminerà 6 a 1, ed in campo in azzurro scenderanno il paraguaiano Attila Sallustro, un attaccante rapido, che giocò a lungo nel Napoli, venerato dai media di allora alla stregua di un divo per la sua imponente bellezza, ma soprattutto l’argentino Raimundo “Mumo” Orsi, un giocatore assolutamente imprendibile che quando era in vena (e ne aveva voglia) faceva cose strabilianti: la Juventus scommise su di lui dopo averlo visto con la maglia dell’Argentina, sconfitta in finale dall’Uruguay alle Olimpiadi di Amsterdam, nel 1928, e ritenendolo l’ala sinistra più forte di tutti i tempi, senza limiti di età, decise si assicurarselo prelevandolo dall’Independiente di Avellaneda, per una cifra enorme, che all’epoca fece molto discutere.

“Mumo” in effetti aveva scatto, velocità, un perfetto controllo della palla e disponeva di un dribbling e di un repertorio di finte di corpo che allora nessuno era in grado di riprodurre. I giornali di allora evidentemente non pubblicavano fotografie, perciò vi era grande attesa di vedere di persona quel prodigioso fenomeno, dopo averne sentito parlare ed averlo immaginato – chissà perché – grande e grosso, con una grinta feroce; invece, quando arrivò con il piroscafo a Genova, apparse ai giornalisti in trepidante attesa un uomo magro e stretto di spalle, si seppe anche che suonava il violino, e in molti si dissero a dire poco perplessi. E preoccupati, gli juventini. Orsi inoltre non avrebbe giocato per un anno, per questioni regolamentari, lo si vedeva solo in allenamento e dopo la partita di campionato della domenica mentre faceva gli esercizi; la gente si fermava per osservarlo, piena di curiosità e di scetticismo, mentre quel campionato del 1928-29, lo vinse il forte Bologna. Terminato l’anno di “quarantena”, Orsi poté finalmente debuttare in bianconero e iniziò a sbalordire, segnando in tutti i modi: di destro, di sinistro, con il ginocchio, di testa, direttamente dal calcio d’angolo – era la sua specialità – e anche su rigore, perché l’incaricato del tiro dagli undici metri, nella Juventus, era proprio lui, contrariamente all’abitudine vigente in quell’epoca, in cui il rigore veniva tirato dai terzini. Comunque, dopo l’esordio in azzurro Orsi diede un grande contributo anche alla causa della Nazionale, e si laureò campione del mondo con l’Italia nel 1934, nella Coppa Rimet disputatasi nella penisola per la felicità del regime, risultando decisivo anche nei successi della Nazionale già dal 1930 nella Coppa Internazionale; frattanto con la sua squadra di club, “Mumo” vinse quattro scudetti consecutivi, tra il 1930-31 e il 1933-34; non poté formalmente fregiarsi del quinto e ultimo titolo del cosiddetto “Quinquennio d’oro” juventino, solo perché nell’aprile del 1935 dovette lasciare Torino per fare ritorno in patria, al capezzale della madre malata, per poi rimanere a Buenos Aires.

Orsi alla Juventus fece un altro regalo. Era infatti amico fraterno di Renato Cesarini e convinse la società bianconera che quel ragazzo, peraltro nato a Senigallia in Italia, e quindi “meno oriundo” di lui, doveva essere acquistato, senza ritardo. Era difficile non assecondare le richieste di “Mumo”, che spesso veniva accontentato perché con il suo talento dimostrava di valere quel patrimonio che era servito ad acquistarlo, cosa che Edoardo Agnelli teneva bene a mente. E fu così che – grazie alle illimitate disponibilità assicurate al club dalla facoltosa proprietà – il giovane Cesarini fece a ritroso il viaggio affrontato tanti anni prima da neonato, partendo questa volta da Buenos Aires, il 27 gennaio del 1929, a bordo del transatlantico Duilio, e sbarcando a Genova il 13 febbraio, dove lo attendevano giornalisti, curiosi e un’automobile della Juventus con tanto di autista, incaricato di verificarne i documenti e accompagnarlo a Torino. Il giovane Renato era agghindato come un divo del cinema, abiti stretti e colori sgargianti, e mentre scendeva dal piroscafo alla stazione marittima, raccomandava ad uno dei facchini di fare molta attenzione a una valigia morbida e nera: era la sua valigia delle cravatte, ne possedeva a centinaia. Non era (ancora) ricco, ma era fatto così, vivere alla grande era per lui come respirare e forse per questo il suo ambientamento fu immediato; prima delle innegabili, ma non ancora conosciute, doti del giocatore, vennero infatti alla ribalta le qualità dell’uomo: schietto, gioviale, arguto, generoso oltre ogni immaginazione, tanto che in pochi giorni divenne l’amico di tutti.

Con Renato Cesarini prese così corpo la Juve dei sogni di Edoardo Agnelli. Il figlio del senatore Giovanni Agnelli – fondatore della FIAT – era un grande appassionato di sport, e divenne presidente della Juventus nel 1923 e per i seguenti dodici anni, sino al drammatico incidente che gli stroncherà la vita a soli 43 anni, il 14 luglio 1935. Egli rese la sua Juventus una delle squadre più vincenti d’Europa nel periodo interbellico, ma oltre ai successi sportivi riuscì a organizzare una delle prime vere e proprie società sportive nel senso moderno del termine. Edoardo Agnelli introdusse nel club quel peculiare modello gestionale noto a posteriori come lo “Stile Juventus”, riconosciuto come uno degli elementi che più contraddistinguono l’identità della società bianconera, inerente all’amministrazione aziendale, alla cultura organizzativa, alla pianificazione strategica e all’insieme di valori che Edoardo Agnelli pretendeva da dirigenti, giocatori e tecnici: concretezza, disciplina, eleganza, parsimonia, serietà, semplicità e serietà, nonché la capacità di conseguire il risultato sportivo con tutte le proprie forze, ma con correttezza e professionalità. Caratteristiche apprezzate dalla piccola borghesia torinese, che la contraddistinguono agli occhi della popolazione media italiana, riconosciute alla stessa “dinastia” Agnelli, e intrinsecamente legate al cosiddetto “stile sabaudo” strettamente affine alla cultura piemontese.

In campo, il mosaico che risulterà tanto vincente era stato composto dal tecnico Carlo Carcano, studioso e precursore del Metodo, che porta con sé dall’Alessandria un mediano di classe purissima come Giovanni Ferrari, capace di trovare i compagni in campo con passaggi perfetti e diventare il motore della squadra. In attacco, la “Signora” ha un’anima sudamericana, fatta di estro e fantasia: le invenzioni sono di “Mumo” Orsi e di Renato Cesarini, ai quali si affianca Giovanni Vecchina, arrivato dal Padova e subito rivelatosi fondamentale; mentre in difesa nasce il mito del “trio dei ragionieri” della Juve e della Nazionale: il terzino destro nonché capitano della squadra Virginio Rosetta – il primo calciatore “professionista” in Italia – il portiere Gianpiero Combi e il terzino sinistro Umberto Caligaris, tutti e tre campioni del mondo nel 1934, così diversi in campo e nella vita e così complementari. Quella Juventus vince lo scudetto del 1930-31, il terzo della sua storia dopo quelli del 1905 e del 1925-26, e l’idea di un ciclo è nell’aria. Idea che si consoliderà quando arriverà a Torino, l’altro oriundo: Luisito Monti, in un primo momento guardato con sospetto pure lui, avendo smesso di giocare a calcio da qualche mese, in Argentina. Invece, il nuovo acquisto, affidato alle cure del “generale” Carcano, in pochi mesi inizierà una seconda vita agonistica: perse venti chili di peso, tornò in perfetta forma e andò a completare la linea mediana bianconera, portando un contributo di potenza e forza fisica inaudita. Quella Juventus divenne la prima formazione nella storia del calcio italiano a vincere cinque campionati consecutivi, dal 1930-31 al 1934-35, raggiungendo le semifinali della Coppa dell’Europa Centrale per quattro anni consecutivi.

Estroso come nessun altro giocatore venuto alla Juventus, considerato un po’ matto addirittura, Renato Cesarini sembrava fatto su misura per mettere a dura prova il severo codice previsto fra i bianconeri e provocare la disperazione del vicepresidente bianconero, il barone Mazzonis, che era solito vigilare come un gendarme sulla buona condotta dei giocatori, disponendo addirittura di una rete di informatori. Un giorno Edoardo Agnelli entrando in un ristorante in centro-città scorge Cesarini seduto a tavola, impegnato a corteggiare una donna, per giunta in orario di allenamento. Allora il presidente si siede comodamente e fa recapitare a Cesarini dal cameriere una bottiglia di champagne, accompagnandola con un biglietto che ricorda al giocatore l’allenamento e la partita del giorno dopo; Cesarini, per nulla a disagio, gliene fa arrivare cinque di bottiglie a Edoardo Agnelli, con tanto di biglietto: «Domani vinciamo e segno così». Illuminante aneddoto sulle mattane del Cè (così lo chiamavano in squadra), che si sprecano: adorava le carte da gioco, l’eleganza, le belle donne, i locali notturni, e lo champagne. Spesso se ne andava a spasso per la città accompagnato da una scimmietta, e pagava senza scomporsi tutte le multe che la società gli comminava, e va detto che gliene piovevano letteralmente addosso, a cura del vicepresidente Mazzonis.

Funzionava così, Carlo Carcano – fine psicologo e uomo pragmatico – non interveniva mai di persona, e il controllo dei ragazzi era coordinato dal severo Mazzonis, che riceveva notizie dei “misfatti” compiuti dai suoi ragazzi attraverso una fitta rete di informatori, reclutati tra i ragazzini per le strade di Torino, che prezzolava alla somma di un paio di lire per prestazione. I piccoli in pratica si appostavano in vicinanza delle abitazioni dei calciatori, attenti a riferire in società ogni movimento. Tuttavia Cesarini, che si era accorto di questa pratica, era riuscito a individuare i ragazzini e gli aveva offerto più soldi di quanto non facesse Mazzonis, neutralizzandolo e riuscendo a limitare i danni. Nella vita privata in effetti l’estroso giocatore non era un modello di serietà: giocatore di carte fenomenale e appassionato ballerino, spesso passava le notti senza riposare, andando a letto solo all’alba, non riuscendo quasi mai a svegliarsi in tempo per presentarsi puntuale all’allenamento. Spesso arrivava al campo a bordo di un taxi, e sotto il cappotto o all’impermeabile non aveva che il pigiama, perché magari si era alzato dal letto cinque minuti prima, e non aveva avuto tempo di vestirsi. Tuttavia, quando iniziava l’allenamento, si impegnava al massimo, senza mai dimostrare stanchezza o tirarsi indietro, e il mister bianconero Carcano non si poteva lamentare.

Una volta informato, il vicepresidente Mazzonis formulava un primo avvertimento amichevole verso chi aveva mancato, che se rimaneva lettera morta, precedeva l’avviso ufficiale, con l’invito a presentarsi in sede per comunicazioni “che La riguardano”. Cesarini gli toglieva il sonno a Mazzonis, e giunse persino ad aprire un locale da ballo molto lussuoso in Piazza Castello, sopra il famoso Gran Bar Combi, che apparteneva all’epoca alla famiglia del portiere bianconero: due orchestre vi si alternavano per buona parte della notte, offrendo al pubblico infinite serie di tanghi, la danza che a quei tempi furoreggiava. Le multe per le infrazioni più gravi erano di mille lire, che peraltro non erano pochi soldi. Cesarini dichiarava di volerle pagare senza battere ciglio, ma cercava poi di scendere a patti: «Se gioco da campione e segno almeno un goal nella prossima partita la multa viene cancellata!» E quasi sempre Cesarini riusciva ad ottenere la cancellazione della punizione, del resto sul terreno di gioco, l’estroverso Renato sapeva essere sempre protagonista: non aveva paura di nessun avversario, era dotato di un fisico eccezionale, in possesso di una tecnica personale e di un’intelligenza di gioco raramente riscontrabili, e aveva spesso intuizioni tattiche tanto improvvise quanto felici; lo dimostrerà anche da allenatore, sia in Argentina al River Plate che in Italia, proprio alla Juventus, in un’altra fase della sua vita.

Quella Juventus riusciva a mobilitare le masse quasi alla pari di un partito politico, e in migliaia aspettavano i bianconeri alla stazione ferroviaria di Porta Nuova, per festeggiarne la vittoria ottenuta in trasferta e il ritorno a Torino. Un compagno di squadra nella Juve e nella Nazionale lo descrive come “il più imprevedibile degli uomini che ho conosciuto” a Renato Cesarini, e racconta, a sostegno della sua affermazione, un aneddoto che rende bene l’idea. Si doveva affrontare la Spagna a Bilbao, dice Luigi Bertolini, formidabile difensore, sempre riconoscibile perché per proteggersi dai colpi del pallone indossava un fazzoletto bianco sulla fronte; era durante una tournée nella penisola iberica, per affrontare Portogallo e Spagna. Vittorio Pozzo meditò la maniera di annullare la mente della squadra spagnola – una forte mezz’ala dell’Athletic Bilbao di nome Ignacio Agirrezabaka, conosciuto come Chirri II – e decise di piazzargli alle costole Renato Cesarini con il compito di non perderlo mai di vista, di marcarlo a distanza ravvicinata. «Dove lui va, tu devi andare», disse il commissario tecnico a Renato. Cesarini rispettò le direttive, cancellando dalla gara il pur valido avversario, e lo fece in un modo così implacabile e deprimente per lo spagnolo che, a un quarto d’ora dal termine, con i nervi a pezzi, Chirri II lasciò volontariamente il terreno di gioco. E Cesarini gli andò appresso, fra lo stupore di tutti, seguendolo fino negli spogliatoi e ristabilendo la parità numerica. Pozzo, annichilito, a fine gara tentò di rimproverare Cesarini – che non amava affatto – con una certa durezza, ma ne venne disarmato quando l’azzurro gli replicò con angelico candore: «Quando una sentinella ha una consegna, deve rispettarla fino in fondo».

E allora vediamolo quel minuto lì, straordinario e unico. Quello della “zona Cesarini”. È inverno, a Torino, stadio Filadelfia, c’è pioggia e fango, è il 13 dicembre 1931, l’Italia gioca contro l’Ungheria. Gli azzurri chiudono il primo tempo in vantaggio, 1-0, goal di Libonatti. Avar fa l’uno pari, Orsi riporta l’Italia in vantaggio ma Avar segna di nuovo: 2-2 al novantesimo. Tutto o niente da rifare. Cesarini la racconterà così: «Mancavano pochi secondi alla fine, dirigeva lo svizzero signor Mercet. A un certo punto ebbi la palla. Avevo addosso il terzino Kocsis, un tipo che faceva paura. Non potendo avanzare passai alla mia ala, Costantino. Allora ebbi come un’ispirazione, mi buttai a corpo morto, tirai Costantino da una parte, caricandolo con la spalla, come fosse un avversario, e fintai, evitando Kocsis. Il portiere Ujvari mi guardava cercando di indovinare da quale parte avrei tirato. Accennai un passaggio all’ala dove stava arrivando Orsi, Ujvari si sbilanciò sulla sua destra, allora io tirai assai forte, sulla sinistra, il portiere si tuffò, toccò la palla, ma non riuscì a trattenerla. Vincemmo per 3-2. E non si fece nemmeno in tempo a rimettere il pallone al centro».

Alessandro Baricco, il grande autore e scrittore torinese (e torinista) lo celebra da par suo: «Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di tempo – il quale è solo di Dio, dice la Bibbia – qualcosa nella vita lo hai fatto».

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Ognissanti è il compleanno della Juventus. Poteva essere altrimenti?

È l’autunno del 1897 quando un gruppo di studenti torinesi del Liceo Massimo d’Azeglio, fonda l’allora “Sport-Club Juventus”, come naturale conseguenza dei pomeriggi post-scolastici trascorsi a parlare dell’association football, il nuovo sport – già affermato in Gran Bretagna – che si stava diffondendo come una febbre proprio a Torino, e che quei ragazzi avevano iniziato a giocare nella vicina piazza d’armi cittadina, imitando alcuni adulti che lo praticavano poco distante, al parco del Valentino.

Il Liceo “D’Azeglio” è oggi una delle scuole “storiche” di Torino: i suoi albori risalgono al 1831 quando nella zona sud-orientale della città, area di ampliamento nei primi decenni dell’Ottocento, venne istituito il Collegio di Porta Nuova, che nei primi anni funzionava solo con quattro classi di “grammatica”, cui a partire dal 1838-39 viene aggiunto l’insegnamento di “umanità” e infine, dall’anno scolastico 1845-46, anche l’insegnamento della “retorica” che completava il ciclo di studio all’epoca definito preparatorio. Nel 1852 il Collegio di Porta Nuova viene poi trasferito in via Arcivescovado, presso la Parrocchia della Madonna degli Angeli e più tardi, nel 1857, trova collocazione in quella che da allora è rimasta la sua sede, con il nome di Collegio Municipale Monviso, assumendo dal 1860 il nome di Regio Collegio Monviso. Con il crescere della popolazione torinese, in ripresa dopo gli anni difficili del trasferimento della capitale d’Italia prima a Firenze e quindi a Roma, intorno agli anni Ottanta del XIX secolo si sente il bisogno di creare un nuovo Liceo Classico (dopo il “Cavour” e il “Gioberti”, risalenti al 1859): nel 1882, in luogo del “Monviso”, viene così fondato il “D’Azeglio”, intitolato al grande uomo politico del Risorgimento, che comprendeva i cinque anni di corso ginnasiale (gli attuali tre anni di Scuola Media e i due ginnasiali) e i tre del corso liceale.

Gli studenti del Liceo degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento appartengono, per lo più, alla borghesia che abita i palazzi della Torino umbertina e liberty (la zona della Crocetta e il corso Re Umberto), mentre le ragazze frequentavano scuole femminili o ricevevano una forma di insegnamento familiare. Del resto l’istruzione paterna (tramite un precettore) era ancora molto diffusa anche tra i maschi: talvolta si frequentava la scuola pubblica infatti solo per sostenere gli esami. I giovani fondatori del nuovo sodalizio sono quindi molto giovani, dapprima 13 ragazzi, le due coppie di fratelli liguri Eugenio ed Enrico Canfari e Gioachino ed Alfredo Armano, il toscano Luigi Gibezzi, i piemontesi Umberto Malvano, Carlo Vittorio Varetti, Umberto Savoja, Domenico Donna, Carlo Ferrero, Luigi Forlano, Enrico Piero Molinatti ed il pavese Francesco Daprà a cui si aggiunsero successivamente altri studenti, Guido Botto, Pio Crea, Carlo Favero, Gino Rocca ed Eugenio Secco, tutti con un’età compresa tra i quattordici e diciassette anni. Il luogo tipico di riunione di questi 18 liceali era una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II; la panchina, dove i ragazzi poggiavano i loro libri e le loro cartelle, è custodita dal 2012 nel bellissimo museo del club bianconero, il J-Museum.

La data ufficiale di fondazione del club non è nota né contenuta in alcun documento e pertanto si assume come data convenzionale il 1º novembre 1897, mentre in Inghilterra da quasi trenta anni si disputava già il più antico al mondo e prestigioso dei tornei, che metteva in palio l’ambitissima The Football Association Cup [The FA Cup, o Coppa d’Inghilterra] vinta dai londinesi Wanderers (5), dall’Oxford University (1), dai Royal Engineers (1) del corpo genieri dell’esercito britannico, dall’Old Etonians (2) la squadra degli ex studenti del prestigioso Eton College, dal Clapham Rovers (1), dall’Old Carthusians (1) della Charterhouse School, dal Blackburn Olympic (1) e dal Blackburn Rovers (5), dall’Aston Villa (3), dal West Bromich Albion (2), dal Preston North End (1), dai Wolves del Wolverhampton (1), dallo Sheffield Wednesday (1), dal Notts County (1) e proprio quell’anno, per la prima volta, dal Nottingham Forest, mentre il più recente (si fa per dire, la prima edizione nel 1888) campionato inglese, denominato First Division, era un affare fra il Preston North End (2), l’Everton (1), il Sunderland (3) e campioni in carica dell’Aston Villa (3) di Birmingham. Inizialmente invece a Torino i soci fondatori del neonato sodalizio erano impegnati ad affrontare il non secondario problema della sede, risolto però dai fratelli genovesi Canfari che offrirono il retrobottega dell’officina ciclistica di proprietà del padre, in corso Re Umberto, al numero 42, dove ebbe luogo la prima riunione sociale.

Dopo una discussione accesa e molto partecipata i giovani soci selezionarono tre possibili denominazioni, fra cui votare quello che sarebbe diventato il nome della loro creatura. Una era “Società Via Fort”, il prediletto dagli studenti più classicheggianti, l’altra, caldeggiata invece dai latinofobi, era “Società Sportiva Massimo d’Azeglio” e, infine la meno quotata “Sport-Club Juventus” che alla fine – benché la maggioranza propendesse per i primi due nomi – prevalse, forse perché suonava come un elegante compromesso tra un nome anglosassone e uno latineggiante, e sembrò di certo più adatto per favorire la diffusione del nuovo sport e la passione per la squadra anche fuori dell’ambito cittadino o regionale. Mentre in Inghilterra, che da Torino si osservava con curiosità, l’irlandese Bram Stoker aveva pubblicato a Londra il suo capolavoro, il romanzo horror Dracula, che in Italia sarebbe arrivato solo nel 1922, il già famosissimo e discusso Oscar Wilde era stato rilasciato dalla prigione, e abbandonava la Gran Bretagna dove non avrebbe più fatto ritorno, e il genio italiano Guglielmo Marconi aveva brevettato la radio, sempre a Londra, e nella capitale britannica fondato la Wireless Telegraph Trading Signal Company che diventerà poi la Marconi Company Ltd, Enrico Canfari, a cui dobbiamo l’unico documento con caratteristiche di “ufficialità” attestante con sufficiente certezza la nascita e i primi anni della Juventus, scriveva che pochi simpatizzavano per il nome scelto, e che fra gli oppositori c’era proprio lui, che era il più maturo del gruppo, perché gli sembrava che quel “Juventus” più non s’addicesse ai soci una volta fattisi maturi, ma riconobbe poi di avere torto “perché nella Juventus non s’invecchia”, e proprio lui ne divenne il secondo presidente, succedendo al fratello Eugenio il quale aveva occupato il ruolo a partire dalla fondazione del club che aveva iniziato ad allenarsi sfoggiando una divisa molto semplice: una camicia bianca e lunghi pantaloni neri.

Allenamenti e primi confronti continuarono a svolgersi in prevalenza nella piazza d’armi torinese e proprio lì il giorno 11 giugno 1899 ebbe luogo la prima amichevole documentata della Juventus giocata contro la rappresentativa dell’Istituto tecnico Germano Sommeiller di Torino, sconfitto per 3-0, con tutte e tre le segnature intervenute nel secondo tempo da parte degli juventini che nel frattempo avevano adottato quella che è comunemente considerata la storica tenuta di gioco della Juventus, una camicia rosa carnicino con cravatta o farfallino nero accompagnata a pantaloni e calzettoni pure neri, introdotta dopo la sua ridenominazione del sodalizio quale Foot-Ball Club Juventus nel 1899 e originariamente adottata, date le ristrettezze economiche in cui versava il club agli albori, essenzialmente per l’esigenza di ricorrere al tessuto meno costoso disponibile sul mercato, per l’appunto il percalle rosa. Comunque questa divisa, comprendente anche voluminose cinture, che richiamavano le fasce dei giocatori di palla basca, venne sfoggiata sino all’entrata nel Novecento, e accompagnò l’esordio della Juventus nel campionato italiano del 1900, quando la squadra debuttò l’11 marzo nelle eliminatorie piemontesi perdendo 1-0 contro la FC Torinese, ma cogliendo poi il suo primo successo della storia la settimana successiva (18 marzo), superando per 2-0 la Ginnastica Torino e chiudendo il girone al secondo posto, non sufficiente per qualificarsi alla finale, dove la FC Torinese sarà poi battuta dal Genoa per 3-1 ai tempi supplementari.

Invece la stagione successiva, nell’edizione del 1901, gli juventini saranno sconfitti in semifinale dal Milan, che poi si aggiudicherà il torneo, diventando campione d’Italia per la prima volta, dopo i tre successi consecutivi del Genoa. Nel mentre le divise rosanero avevano fatto il loro tempo in casa juventina, sia perché irrimediabilmente usurate dalla pratica sportiva, sia perché il rosa era ormai visto da più parti come una tinta non conforme all’immagine che il club desiderava trasmettere. A questo punto non è più dato conoscere con certezza lo svolgimento dei fatti, che si perde nei racconti di allora, tramandati in più versioni, confusi dal tanto tempo trascorso. Si fece avanti a un certo punto un socio di nazionalità inglese, tale Gordon Thomas Savage, noto anche come John o Jim, commerciante all’ingrosso di prodotti tessili a Torino, giocatore di calcio oltreché arbitro in alcune partite ufficiali. Qualcuno racconta che Savage propose di comprare a Nottingham delle nuove divise, rosse con bordini bianchi, simili a quelle utilizzate dal Forest, la storiografia ufficiale fissa convenzionalmente al 1903 questo momento, perché nelle sue memorie Enrico Canfari racconta di «un percalle sottile e roseo che portammo, sbiadito all’inverosimile, sino all’anno 1902».

Nuove ricerche hanno ventilato l’ipotesi di retrodatare financo al dicembre del 1901 l’abbandono del rosanero e il debutto della maglia bianconera, all’amichevole contro il Milan giocata l’8 dicembre 1901 al Campo Trotter di piazza Doria a Milano, perché sulla cronaca dell’incontro riportata il giorno seguente dal quotidiano meneghino Corriere dello Sport – La Bicicletta si presenta l’ingresso dei calciatori torinesi in campo «sfoggiando i nuovi colori non più bianco e rosa ma bianco e nero». Fatto sta che, ricevuto l’incarico, Savage si mise in contatto con una fabbrica tessile di Nottingham e inviò l’ordine d’acquisto, accompagnandovi come campione la più maltrattata delle vecchie camicie rosa. Alla vista dello scolorito capo, probabilmente l’impiegato del fornitore credette che la camicia anziché rosa fosse bianca e macchiata: sicché, vista la coincidenza con i colori bianconeri della più antica compagine di Nottingham, il Notts County, uno dei più antichi club del calcio inglese, fondato nel 1862, pensò bene di spedire in Italia una dotazione di uniformi appunto dei Magpies. A Torino, quando fu aperto il grosso pacco postale, inizialmente le quindici maglie a strisce verticali bianche e nere decisamente non piacquero, ma data la prossimità degli impegni ufficiali non vi erano alternative per i soci-giocatori juventini. Vale la pena di ricordare tuttavia che Savage prima di trasferirsi in Italia in Inghilterra aveva giocato a calcio militando nel Notts County che solo pochi anni prima aveva vinto la Coppa d’Inghilterra nel 1894 ed era la sua squadra del cuore.

In ogni caso i nuovi colori porteranno fortuna e segneranno la progressiva e inarrestabile ascesa del club bianconero. Intanto il 10 aprile del 1903 per la prima volta una squadra straniera venne invitata a disputare una gara in territorio italiano, successe al Velodromo Umberto I, dove la Juventus ospitò gli svizzeri del Montriond Lausanne, e venne sconfitta per 0-1. Mentre il 13 aprile 1903 i bianconeri parteciperanno per la prima volta alla finale del campionato italiano di calcio, sul campo sportivo di Ponte Carrega a Genova, in Val Bisagno, dove saranno travolta dal fortissimo Genoa che sconfiggerà la Juventus nettamente con un perentorio 3-0. Il 1904 tuttavia qualcosa cambierà, arrivarono alla Juventus nuovi soci e in particolare i tre fratelli Alessandro, Annibale e Riccardo Ajmone Marsan che organizzeranno al meglio le “riserve” e il cui facoltoso padre Marco si impegnerà a pagare l’affitto del nuovo campo di gioco ufficiale che diventò il Velodromo Umberto I, dotato di tribune che iniziarono a riempirsi. Nel campionato italiano di Prima Categoria, dopo avere vinto le eliminatorie, per la seconda volta consecutiva la Juventus arrivò in finale contro il Genoa, perdendo tuttavia ancora una volta sull’inviolabile campo di ponte Carrega, ma questa volta con il risultato di 1-0. Nel 1905 divenne poi presidente della Juventus lo svizzero Alfred Dick, un uomo caratteriale e spigoloso, grande organizzatore e proprietario di un’industria molto bene avviata di calzature, che rinforzerà la squadra inserendo alcuni giocatori, suoi dipendenti, che renderanno la Juventus più solida. In quella stagione la società spostò la sua sede a via Donati 1 e il nuovo presidente firmò un lungo contratto di affitto per l’utilizzo del Velodromo di corso Re Umberto.

Nel campionato dello stesso anno la Juventus aveva superato il girone eliminatorio vincendo 2-0 per forfait le due partite contro la Torinese, ritiratasi dalle eliminatorie regionali. Dopo due anni in cui la vittoria fu solo sfiorata nel 1905 finalmente la Juventus riuscì a cogliere il suo primo titolo di campione d’Italia. La nuova formula delle finali nazionali metteva di fronte tutti e tre i campioni regionali, ma la sorpresa arrivò dalla Lombardia: un Milan alle prese con un ricambio generazionale, causato dall’addio di molti dei suoi fondatori inglesi, fu per la prima volta eliminato dalla US Milanese in due gare spettacolari, come sovente se ne verificavano all’epoca. Nel girone finale però la US Milanese giocò prevedibilmente il ruolo del «vaso di coccio»: infatti perse i primi tre incontri, mentre gli scontri diretti tra la Juventus e il Genoa finivano in entrambi i casi in parità, ma quando all’ultima giornata i rossoblu del Grifone accolsero la US Milanese sicuri di una facile vittoria che li avrebbe condotti allo spareggio a sorpresa non si andò oltre il pareggio, consegnando di fatto il titolo per la prima volta nella sua storia alla Juventus che così poté sollevare la Coppa Spensley, donata alla Federazione Italiana di Football dal portiere del Genoa, James Spensley, e scolpita dallo scultore genovese De Albertis. Il trofeo rimpiazzò la Coppa Fawcus, appena vinta proprio dai genovesi, e si basava sugli stessi principi, venendo consegnata a titolo provvisorio a ogni squadra vincitrice del campionato, e a titolo definitivo a chi si fosse imposto per tre stagioni consecutive oppure cinque complessive.

Gli undici giocatori della Juventus che vinsero il campionato italiano per la prima volta furono Domenico Durante, che in seguito diventerà l’illustratore del mensile Hurrà Juventus e delle campagne promozionali dei bianconeri torinesi, Gioacchino Armano, Oreste Marzia, lo svizzero Paul Arnold Walty, il capitano Giovanni Goccione, lo scozzese Jack Diment, Alberto Barberis, Carlo Vittorio Varetti, Luigi Forlano, l’inglese James Squair e Domenico Donna, quest’ultimo giocatore-allenatore della squadra che quell’anno si aggiudicò anche il torneo di Seconda Categoria, a cui partecipavano sia le squadre riserve sia le prime squadre di club non iscritte alla Prima Categoria. Gli artefici della vittoria della Juventus II furono Francesco Longo, Giuseppe Servetto, Lorenzo Barberis, Fernando Nizza, Ettore Corbelli, Alessandro Ajmone Marsan, Ugo Mario, Frédéric Dick, Heinrich Hess, Marcello Bertinetti e Riccardo Ajmone Marsan, che a coronamento di una stagione straordinaria ottennero un clamoroso successo per 2-1 sui titolari, freschi campioni d’Italia, nella partitella in famiglia al termine del stagione.

Da allora le strisce bianche e nere sfoggiate dalla Juventus e riconosciute in tutto il mondo sono diventate un simbolo di autorità e potere, che nella storia del calcio ha pochi eguali.

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Granatismo, sostantivo maschile. Il Toro e l’Enciclopedia Treccani.

La passione e il tifo per la squadra di calcio del Torino, i cui giocatori indossano la casacca granata, dal 2008 è definita in Treccani fra i neologismi: granatismo, sostantivo maschile.

Giusto. Infatti l’identità di una squadra passa anche dalla divisa, anzi nel calcio i due concetti si fondono. È tramite la maglia, la divisa appunto, che si identifica la squadra, il suo colore è un simbolo intimo, che anima il tifoso in ogni città o nazione, e rappresenta la storia, la missione e gli obiettivi di un sodalizio. Proprio la maglia della squadra del cuore permette all’individuo di sentirsi gruppo, e di condividerne con altri il culto, così centrale nel calcio. Allora, veniamo al colore di quella del Toro, di maglia. Non lo sappiamo con certezza, perché nessuno l’ha scritto inequivocabilmente e sopravvivono quindi alcune teorie sul perché la scelta del colore cadde sul granata. Alcuni parlano di un possibile riferimento al club svizzero del Servette Football Club 1890, la squadra che deve il nome a un quartiere di Ginevra, una delle formazioni più forti all’epoca dei pionieri del calcio, soprannominata les Grenat [i granata] e molto amata dalla comunità elvetica, così vivace a Torino. Altri sostengono un’altra teoria, che evoca l’omaggio alla casacca maroon degli inglesi dello Sheffield Football Club, riconosciuta nella storia di questo sport come la più antica squadra di calcio al mondo, fondata nel lontano 1857 nella cornice della città inglese dell’acciaio. Peraltro c’è un’altra spiegazione possibile, molto più romantica, che vede nella gradazione scelta dai fondatori del Toro un richiamo alla Brigata Savoia, magnifica protagonista della difesa di Torino in occasione del tremendo assedio franco-spagnolo del 1706. E vale la pena di raccontarla bene, questa storia.

“È senz’altro l’invenzione di osservatori superficiali la leggendaria monotonia della città, come un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciano ingannare. Invece, sotto quell’apparenza così ovvia, Torino è una città per intenditori”. Così definiscono la città sabauda ne La donna della domenica, uno dei loro capolavori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Città per intenditori, quindi. Non potrebbe essere altrimenti. Una città fiera e quasi straniera al resto del Paese dove quasi tutto è nato: l’automobile, il cinema, il cioccolatino, la gianduia, il grissino, la radio, la televisione, il tramezzino, il vermut e l’Unità nazionale. Una città considerata magica, dai conoscitori dell’occulto, che incarna e racchiude una profonda tensione verso il mistero, sullo sfondo di una metropoli ordinata e precisa, ammantata di grazia, densa di riserbo e chiaroscuri, agiata senza sfarzo, elegante ma discreta, golosa di piccoli piaceri accompagnati da un’energia non manifesta, che cela un cuore folle. E un cuore Toro. A proposito, proprio a Torino, in Italia, è nato (anche) il calcio.

La società calcistica più antica d’Italia è il Genoa, come i rossoblu genovesi dichiarano orgogliosamente. Ed è vero, naturalmente. Tuttavia occorrerebbe una precisazione. Infatti il Genoa è certo la squadra più antica d’Italia, ma fra le quelle ancora in attività. Per amor di verità bisogna riferire che, al tempo della fondazione del glorioso sodalizio del Grifone – avvenuta nel 1893 a Genova – in quel di Torino si palleggiava già da un bel pezzo. Francesco Crispi nel 1887 formava il suo primo governo, Giuseppe Verdi tornava a scrivere e trionfava alla Scala con l’Otello. Invece l’Italia, che aveva appena festeggiato i suoi primi 25 anni dall’unificazione, rinnovava il trattato della Triplice Alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. E sempre in quel 1887 Edoardo Bosio, un ragioniere di origine elvetica, impiegato presso la sede torinese della grande casa inglese di tessuti Thomas & Adam, rientrando a Torino dopo una lunga trasferta presso la casa-madre a Nottingham, portava con sé un vero pallone di cuoio brevettato per il gioco del calcio e una copia delle regole dell’association football, che lui aveva praticato ed era capace di giocare. Bosio aveva in effetti l’intenzione di creare un’organizzazione che consentisse la diffusione della pratica di quel gioco, e per questo fondava il primo undici italiano, il più antico sodalizio d’Italia in assoluto, che in quel 1887 indossava una camicia a righe rossonere, un berretto in testa e lunghi calzoni: era il Torino Football & Cricket Club, che aveva sede in piazza Solferino, nel salotto di casa del fondatore.

Un paio d’anni dopo, nel 1889, veniva approvato con l’unanimità dei voti in Parlamento il cosiddetto Codice Zanardelli che aboliva la pena di morte (ancora in vigore nei principali Stati europei) per tutti i reati, e consentiva la libertà di sciopero, in condizioni non-violente e anti-intimidatorie. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo, ammettendo inoltre l’infermità mentale certificata come causa di esonero dal processo, rendendo quella italiana una società più liberale. In quello stesso anno, venne fondato, per volontà del grande ammiraglio, esploratore e alpinista italiano Luigi Amedeo di Savoia, futuro Duca degli Abruzzi, il Nobili Torino. La seconda squadra più antica d’Italia, che permetteva ai rappresentanti dell’aristocrazia cittadina di cimentarsi con il calcio, sfoggiando una maglia a strisce gialle e nere. E sempre allora Friedrich Nietzsche, ebbe un crollo mentale, proprio mentre si trovava a Torino, città che il grande pensatore amava più di ogni altra. Successe che trovandosi in Piazza Carignano, nei pressi della sua casa, dove aveva scritto L’Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo, vedendo un cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, Nietzsche intervenne in difesa dell’animale. Dopo averlo abbracciato, avergli sussurrato qualcosa di incomprensibile e baciato, il grande filosofo cadde a terra in preda a violenti spasmi, e fu soccorso. Dopo questo singolare episodio di follia in pubblico Nietzsche verrà condotto lontano da Torino, per essere ricoverato in Svizzera e non si riprenderà fino al termine dei suoi giorni dal devastante accesso di follia che l’aveva colto nella città sabauda, ma la sua lucida dottrina verrà considerata la più influente nel plasmare la mentalità occidentale fra il XIX e il XX secolo.

Fondendosi poi nel 1891 con il Nobili, il Torino Football & Cricket Club assumerà la denominazione di International Football Club e sarà la squadra protagonista delle prime due edizioni del campionato italiano di calcio, che inizierà nel 1898. Il nuovo club adotterà brevemente una casacca di colore granata, ispirata alla divisa maroon dello Sheffield Football Club, il più antico club di calcio al mondo, salvo poi abbandonarla in favore di una maglietta a strisce bianche e nere. Il 16 marzo 1898 a Torino si era costituita intanto la Federazione Italiana Football (Fif), che poi sarebbe diventerà Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc): ancora non lo poteva immaginare nessuno, ma questo nuovo sport stava per entrare prepotentemente in modo decisivo nell’immaginario e nella vita degli italiani, diventando fenomeno sociale e culturale, e non semplicemente sportivo. Sempre a Torino, poco più di due mesi dopo la nascita della federazione, l’8 maggio 1898, al Velodromo Umberto I veniva organizzata la prima edizione del Campionato italiano di calcio, con 4 squadre partecipanti. Sarà il Genoa ad imporsi, unico sodalizio non torinese, inaugurando la prima – benché breve – rivalità del nostro calcio, quella contro l’International, che perderà la finale ai tempi supplementari contro i genovesi, mentre nel successivo campionato il Genoa difenderà il titolo ripetendo la stessa finale, ma questa volta sconfiggendo l’International di stretta misura. Quest’ultima società poi, a causa di una crisi finanziaria, si fonderà nel 1900 con un altro sodalizio cittadino, che aveva mosso i primi passi già nel 1894 come sezione calcistica del Circolo Pattinatori del Valentino, club di pattinaggio e hockey su ghiaccio nato vent’anni prima, e poi diventata autonoma nel 1897 con il nome di Torinese, grazie all’intervento del duca degli Abruzzi, quel Luigi Amedeo di Savoia, che era già stato ispiratore dei Nobili Torino.

La fusione con l’International diede i suoi frutti, tanto che il nuovo Football Club Torinese arrivò a giocare la finale del terzo campionato nazionale, contendendo l’edizione del 1900 al solito Genoa, che tuttavia prevarrà nettamente e sarà per la terza volta consecutiva campione d’Italia, mentre a Enrico Bosio – che dovremmo considerare il padre del football, in Italia – sempre sconfitto in tre finali su tre, rimarrà la soddisfazione di aver segnato il primo gol ufficiale nella storia del calcio italiano. Intanto, nella città sabauda oramai si stava affermando un’altra squadra: la Juventus, nata nell’autunno del 1897 come “società civile per gioco, per divertimento, per voglia di novità”, su iniziativa di alcuni giovani studenti della terza e quarta classe del liceo classico Massimo d’Azeglio. I ragazzi si davano appuntamento in prossimità di una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II, per discutere di sport, e in particolare del football, che dalla Gran Bretagna si stava diffondendo nel resto d’Europa. I ragazzi si ritrovavano poi nella vicina piazza d’armi del quartiere Crocetta per giocare a calcio, e lì scelsero la prima divisa sociale che prevedeva una camicia bianca e pantaloni alla zuava, che sarà presto sostituita da una camicia rosa con cravattino nero, finché nel 1903 arrivarono da Nottingham, sempre Nottingham!, delle divise da gioco più moderne, quelle del Notts County a strisce verticali bianche e nere.

Nel 1906, l’anno in cui il Torino vedrà la luce, proprio la Juventus era la squadra campione d’Italia, avendo vinto nella primavera dell’anno precedente il titolo nazionale, sconfiggendo il Genoa nella partita decisiva. In Europa invece il clima stava cambiando, e iniziava proprio quell’anno una vera e propria “corsa agli armamenti”. Successe quando la Royal Navy britannica varò il 10 febbraio, presso l’arsenale di Portsmouth, la HMS Dreadnought [il cui nome significa: “che non teme nulla”]. Fu una nave così rivoluzionaria per l’epoca che il suo nome di battesimo divenne il termine generico per indicare le navi da battaglia moderne, che avevano pensionato le precedenti. La sua introduzione innescò infatti una vera e propria gara ad armarsi tra la Gran Bretagna e le altre marine militari del mondo, in particolare quella della Germania imperiale, circostanza che gli storici considerano una delle cause della prima guerra mondiale. Il 7 febbraio del 1910 quella la nave fu poi il teatro di una burla che all’epoca fece molto “rumore”, perché organizzata da Horace de Vere Cole, un ricco cittadino anglo-irlandese considerato un gran burlone, i cui scherzi avevano ampia risonanza mediatica. Egli inviò addirittura un falso telegramma alla Royal Navy proponendo di accettare una visita a bordo della temibile nave militare da parte di alcuni membri della casa reale abissina durante il loro viaggio in Inghilterra che lui aveva organizzato.

Questi in realtà erano cinque amici di Cole, tra cui c’era la scrittrice Virginia Woolf, vestiti con abiti tribali e con il volto dipinto di nero. I falsi diplomatici durante l’intera visita mostrarono di non comprendere una sola parola di inglese, e si espressero rivolgendosi ai disorientati ufficiali della Royal Navy solo in un incomprensibile idioma di fantasia ricco di termini greci e latini esclamando ripetutamente “Bunga! Bunga!”, come segno di ammirazione per la potenza della nave da guerra e dei suoi apparati. L’espressione, fece allora il giro del mondo, e quasi cento anni dopo, tornerà agli onori delle cronache in Italia, per altri motivi. Invece, sempre in Italia ma al confine con la Svizzera, il 19 maggio del 1906 venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III e dal presidente elvetico Ludwig Forrer, un’imponente opera di ingegneria: all’epoca della costruzione, e per i successivi 76 anni, la più lunga galleria ferroviaria del mondo. Il traforo del Sempione. Il traffico regolare dei treni iniziò in realtà solo il successivo primo giorno di giugno, quando l’opera – che avrebbe permesso al mitico Orient Express di collegare Parigi a Istanbul, senza attraversare la Germania – fu celebrata nel corso dell’Esposizione Universale che si tenne in quello stesso anno a Milano, in grandiosi padiglioni ed edifici appositamente costruiti nell’area alle spalle del Castello Sforzesco, l’attuale Parco Sempione. Appunto.

La sera del 3 dicembre di quello stesso 1906 poi un gruppo composito di sportsmen si diede finalmente appuntamento a Torino, nei locali della birreria-ristorante “Voigt” di Via Pietro Micca, sotto i portici del Palazzo Fiorina. Si tratta di un edificio splendido, concepito nel 1860 e ancora oggi esistente, la cui costruzione venne finanziata dalla famiglia Fiorina, che lo fece arricchire con magnifiche decorazioni tra il liberty e il tardo-barocco ed eleganti porticati con capitelli neoclassici. Il rossiccio condominio fu sede dell’omonimo Grand Hotel Fiorina, per molti anni il più lussuoso di Torino, e della storica libreria Slavia, poi nel 1872 rinominata Petrini, dove Edmondo De Amicis scrisse il suo capolavoro: il libro Cuore. I commensali quella sera erano di diversa estrazione, ma tutti animati dal desiderio di contendere alla Juventus, quell’anno sconfitta in finale dal Milan per non essere voluta scendere in campo, ma già campione d’Italia la stagione precedente, il primato cittadino. C’erano alcuni soci del Football Club Torinese, perché il sodalizio giallo e nero era oramai prossimo allo scioglimento, e altrettanti soci dissidenti della Juventus, guidati niente meno che dal suo ex presidente. Alfredo Dick, che da poco era stato estromesso dalla maggioranza dei soci bianconeri. Questi ultimi nonostante gli ottimi risultati sportivi e di gestione mal sopportavano un’impronta sempre più autoritaria e il crescente ostracismo espresso da Dick verso gli italiani, criticati per il loro stile di vita, da lui giudicato troppo distante dal rigore svizzero che avrebbe dovuto caratterizzare la “sua” Juventus.

Alfredo Dick era un affermato imprenditore del settore calzaturiero, dove aveva fondato la società anonima Manifattura di Pellami e Calzature – M.P.C., sviluppando diverse partnership commerciali e diventando nel 1909 presidente della neonata Associazione dei Fabbricanti Italiani di Calzature, alla quale aderirono i più grandi calzaturieri di quel periodo: Oreste Vitale (Borri e Vitale di Busto Arsizio), Giovanni Gilardini di Torino, Ermenegildo Trolli (calzaturificio Di Varese) e il cavalier Pietro Giulini di Vigevano. Si trattava di un uomo rigoroso, con un carattere difficile e spigoloso. Ad esempio, nel 1906 fece perdere alla Juventus, campione in carica, la finale contro il Milan a tavolino, per non averla fatta scendere in campo, per principio. Non essendogli stata rinnovata la presidenza Dick, risentito, abbandonò la Juventus e le tolse il terreno di gioco – il Velodromo Umberto I – che lui aveva preso in affitto personalmente, per offrirlo al Torino, che contribuì a fondare, prima di morire. La tragedia accadde nel 1909 quando, come amministratore delegato della Manifattura Pellami e Calzature, Dick aveva compiuto una serie di errori tecnici nelle emissioni degli ordini, a causa dei quali l’azienda perse quasi centomila lire. Dick allora si assunse la responsabilità dei propri errori di fronte al consiglio d’amministrazione e, sconvolto più dalla vergogna che dal danno economico – non irreparabile – il giorno successivo si recò nei suoi uffici, presso il Velodromo Umberto I, e si suicidò sparandosi a una tempia. Aveva solo 44 anni e lasciava la moglie e quattro figli.

Ma adesso torniamo qualche anno indietro, alla sera del 3 dicembre 1906, quando presso la birreria Voigt (oggi bar Norman) in via Pietro Micca, venne costituito il direttivo della nuova società: vicepresidente Alfredo Dick (ex Juve), segretario Walter Streule (ex Juve) e tesoriere Kuster; consiglieri furono scelti Oreste Marzia (ex Juve), Muetzell e Federico Ferrari-Orsi mentre i revisori sarebbero stati Pletscher, Emilio Valvassori e Enrico Debernardi. E così a soli dieci minuti dallo scoccare della mezzanotte, un brindisi festoso consacrava lo svizzero Franz Josef Schönbrod, eletto dagli altri soci all’unanimità, primo presidente del Foot Ball Club Torino, il nuovo sodalizio cittadino cosi fortemente voluto da Dick, il cui statuto, “espressamente esclusa ogni questione politica o religiosa”, fissava i colori sociali nel “granata e bianco”. È giunto quindi il momento di avanzare un’altra ipotesi oltre a quelle già tratteggiate circa la scelta del colore. Il granata, appunto. E quella che segue di ipotesi è senz’altro la più romantica, e a parer mio la più probabile. Infatti, nel 1906 correva il bicentenario dell’assedio di Torino, evento epocale nella storia del Piemonte, avvenuto appunto nel 1706 – durante la Guerra di successione spagnola – quando oltre 44 mila soldati francesi accerchiarono Torino, difesa da circa 10 mila soldati sabaudi che combatterono strenuamente dal 14 maggio fino al 7 settembre, quando l’esercito a difesa della città, comandato dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Amedeo II, costrinse i nemici francesi alla ritirata. Il fallito tentativo di conquistare la città, che gli storici considerano l’inizio del Risorgimento, e la sconfitta dell’esercito del Roi Soleil, il potentissimo Luigi XIV di Francia, fece conquistare ai piemontesi il rispetto di tutta Europa.

E proprio al duca Vittorio Amedeo II, che a seguito di questa vittoria diventerà il primo re della dinastia di casa Savoia, dobbiamo forse l’iconica maglia del Toro. Difatti, mentre infuriava la battaglia decisiva per le sorti dell’assedio, i due Savoia – Eugenio e Vittorio Amedeo II – dopo aver studiato attentamente la loro tattica, dall’alto della collina di Superga, decisero di attaccare il nemico su più fronti, contemporaneamente, per rompere gli equilibri militari e la morsa dei francesi. Quindi dall’alba fino al pomeriggio del 7 settembre francesi e piemontesi si scontrarono presso Lucento, esattamente dove oggi ha sede il centro sportivo della Continassa e si allena la Juventus, e presso la località detta in piemontese Madòna ‘d Campagna. Vinsero i piemontesi, su entrambi i fronti. E tuttavia trovandosi a distanza e non riuscendo a comunicare a vista, fu un cavalleggero della Brigata Savoia, partito al galoppo, a portare le informazioni necessarie da un comando all’altro. Attraversando le linee nemiche in rotta il soldato sabaudo venne però ferito gravemente e arrivò morente al cospetto del Duca, con la divisa intrisa di sangue, per riferire il messaggio che fu solo in grado di sussurrare, prima di spirare fra le braccia del nobile condottiero: “Savoie bonne nouvelle”. Savoia buone notizie: abbiamo vinto, Torino è salva. E fu così che Vittorio Amedeo II, prendendo in mano la stoffa della divisa intrisa dal sangue del giovane, si commosse e stabilì che da quel giorno, a ricordo del sacrificio di quel soldato e della vittoria dei piemontesi, la Brigata Savoia avrebbe indossato un fazzoletto di colore granata, come il sangue versato.

Allora, quale miglior colore per la divisa del Foot Ball Club Torino? La scelta convinse tutti i soci, e se alla sua prima partita, un’amichevole giocata il 16 dicembre 1906 contro la Pro Vercelli, non è certo che il Torino sia sceso in campo con un completo granata, è sicuro che – agli ordini del capitano Johann Friedrich Bollinger – il Toro sfoggiò la sua iconica divisa il giorno della sua prima gara ufficiale, con poco più di un mese di vita alle spalle. Era appena iniziato il 1907 e in Piazza Castello aveva aperto la Buvette Mulassano, che sarebbe stato eletto a elegante ritrovo della nobiltà torinese, ma anche degli artisti del vicino Teatro Regio, fra splendidi specchi, tavoli in marmo e ricche decorazioni, quando il 13 gennaio, sul campo del Velodromo Umberto I, in zona Crocetta, nella cornice invernale offerta da un clima rigido a causa delle precedenti nevicate, il Toro affrontò e sconfisse la Juventus per 2-1, nella prima stracittadina della storia, fra bianconeri e granata: il cosiddetto derby della Mole. La Juventus fu così eliminata dal campionato nazionale proprio dal neorivale Torino che al primo successo abbinò anche quello nella partita di ritorno, ottenuto con un roboante 1-4 siglato da Hans Kämpfer che segnò tutte le 4 reti, stabilendo un record rimasto imbattuto e portando il Toro al girone finale dove per un soffio, un solo punto di differenza, la formazione granata non si laureerà campione d’Italia al primo tentativo, cedendo il prestigioso alloro al Milan.

E allora, una volta ancora: buon compleanno, Toro.

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