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I miracoli a Derby e Nottingham, il dannato Leeds e un’amicizia vera. Indisponente e presuntuoso: semplicemente Brian Clough.

Molti l’hanno conosciuto o ricordato solo dopo aver letto il libro di David Peace o aver visto il film di Tom Hooper, interpretato da un convincente Michael Sheen. “The Damned Utd” è un romanzo uscito nel 2006, tradotto in italia come “Il maledetto United”, dove lo scrittore britannico, mescolando fatti e personaggi reali con la finzione narrativa, dà vita al ritratto di un eccentrico allenatore di calcio e racconta in particolare della sua esperienza come coach del Leeds United. Nel 2009 verrà poi realizzato un film omonimo, in Italia passato praticamente inosservato al grande pubblico perché, a causa delle logiche della distribuzione nostrana, non proiettato nelle sale cinematografiche. Brian Clough è descritto come un uomo insolente e presuntuoso e raccontato come uno dei migliori allenatori di sempre – e fra i più vincenti – ma è stato anche uno dei più forti attaccanti della storia del calcio inglese, nonché un uomo capace di sopravvivere al dolore e di conoscere la sconfitta e l’umiliazione e comunque alla fine di trionfare, realizzando imprese sportive che nessuno è più riuscito a ripetere, senza mai tuttavia essere capace di sconfiggere le proprie frustrazioni.

Se qualcuno mi chiedesse qual è il miglior film che abbia mai visto sul mondo del calcio risponderei senza esitare. Quello. “Il Maledetto United” è un film perfetto, davvero non si poteva fare di più. Brian Clough, per i meno appassionati, o semplicemente per i più giovani, è stato un Mourinho ante litteram, uno dei più grandi allenatori europei di sempre, capace di vincere il titolo inglese con il Derby County e il Nottingham Forest, entrambe squadre prese quando erano negli ultimi posti della seconda divisione inglese (la nostra serie B). Non solo, con il Nottingham vinse poi due Coppe dei Campioni consecutive, impresa davvero incredibile. Quando la sua carriera stava oramai declinando gli chiesero se fosse stato il migliore della sua epoca, e lui rispose: “I wouldn’t say I was the best manager in the business. But I was in the top one.” Insomma forse lo “Special One” dei tempi nostri gli è debitore dell’ispirazione. Il film, comunque, racconta il brevissimo periodo in mezzo a quelle due clamorose imprese, i 44 giorni passati alla guida del Leeds (in quel momento la miglior squadra d’Inghilterra), il club che Clough aveva sempre odiato perché secondo i suoi canoni era un esempio di intimidazione all’avversario e antisportività. La pellicola propone il tema della rivalità di Clough con Revie, il precedente allenatore del Leeds, la nemesi di Clough, capace di portare “i bianchi” a vincere praticamente tutto. E poi è proprio molto ben riuscito il racconto dell’amicizia e della collaborazione tra il nostro e Peter Taylor, che accompagnerà il primo in tutti i suoi successi, un’anima buona e mite, l’opposto di Clough.

Brian Clough era nato nel 1935 a Middlesborough. Una città dell’Inghilterra del Nord, che all’epoca aveva poco più di un secolo di vita: solo nel 1829 infatti venne iniziata la costruzione del centro abitato su un piano molto regolare, con strade rettilinee, ampie piazze e parchi; in seguito tuttavia la città si distinguerà per l’intenso sviluppo industriale nei settori cantieristico, chimico, della raffinazione del petrolio e siderurgico con un panorama caratterizzato da acciaierie, cantieri navali e ferriere, a corona di un porto accessibile a grandi navi. E non a caso i giocatori della squadra locale sono soprannominati “The Smoggies”. Sarà proprio nella squadra della sua città natale che Brian Clough inizierà la sua carriera, emergendo presto: buona tecnica, forza fisica, un tiro formidabile e un colpo di testa perentorio, lo resero uno dei centravanti più temuti della Second Division [il secondo livello del campionato di calcio inglese, come la nostra serie B]. Nel Middlesborough FC il nostro giocherà dal 1955 ininterrottamente per sei stagioni, e le sue statistiche sono impressionanti: 204 reti segnate in 222 gare disputate. Statistiche che non si attenueranno al Sunderland FC, dove si trasferirà nel 1961 mettendo a referto coi “Black Cats” ben 63 reti in 74 presenze, durante le sue quattro stagioni (pur giocandone in realtà solo due, e vedremo il perché).

A causa di un incidente di gioco Brian Clough terminerà drammaticamente la sua carriera da calciatore. Era il 26 dicembre del 1962, quello che gli inglesi chiamano il “Boxing Day”, e durante la partita fra il suo Sunderland FC e il Bury FC al Roker Park, quando sotto una pioggia torrenziale inseguendo il pallone in scivolata sul terreno di gioco Clough si scontrò violentemente con il portiere avversario, procurandosi la rottura del legamento laterale e crociato del ginocchio, un infortunio molto grave che all’epoca poneva fine alla carriera di un calciatore. E il nostro purtroppo non farà eccezione, costretto infatti a una stagione di pausa sarà in grado di collezionare soltanto 3 presenze (ed una rete) nei successivi due anni, vedendosi costretto al ritiro dall’attività, quando ancora non aveva trent’anni. Era stato però un grandissimo attaccante Clough, al punto che ancora oggi detiene il record della più alta media gol per partita nella storia del campionato inglese, con un impressionante 0,916 (praticamente un gol a partita, durante una carriera lunga dieci anni, trascorsa in due squadre non di vertice).

Quel terribile infortunio lo strappò dal campo di gioco come calciatore, ma gli diede modo di tornarci da allenatore, infatti Brian Clough nel 1965 sarà il più giovane tecnico di tutta la Gran Bretagna, quando l’Hartlepool United gli offrirà il suo primo incarico. Lui risponderà “I don’t fancy the place” [Non mi piace il posto] – che poi Hartlepool non era così distante da Middlesbrough e Sunderland – ma non se lo farà ripetere e proprio da lì, in Fourth Division [la quarta serie, come la nostra serie C] inizierà ad allenare, inaugurando il suo sodalizio con Peter Taylor, suo ex compagno di squadra al Boro, che convincerà a diventare suo assistente dando vita ad un legame straordinario. Più che di una mera collaborazione tecnica, la storia di Brian Clough e Peter Taylor è il racconto di una grande amicizia fra un uomo arrogante e sfacciato e un altro pacato e riflessivo, ma non è soltanto complementarietà caratteriale. Clough spesso ha dichiarato “I’m not equipped to manage successfully without Peter Taylor. I am the shop window and he is the goods in the back”, riconoscendo le qualità di sostanza dell’amico. Anche dal punto di vista calcistico infatti uno arrivava laddove l’altro non poteva e viceversa. Come osservatore Taylor aveva un intuito e una competenza impareggiabili riuscendo a cogliere il potenziale dei giocatori, sia nei giovani che in quelli maturi e a fine carriera ma ancora funzionali, che poi Clough valorizzava, con quella capacità unica di tirarne fuori il massimo per la propria squadra, con il suo singolare approccio: duro, fermo sulle sue idee, pretendendo dai giocatori disciplina, obbedienza e sacrificio, ma gratificandoli e condividendo con loro i successi frutto delle sue direttive. Ecco tutto Brian Clough, in poche battute: “Quando un mio calciatore ha qualche dubbio ne parliamo per 20 minuti e poi decidiamo che io avevo ragione”.

Le imprese di Clough, assistito dal fedelissimo vice Peter Taylor, sono letteralmente entrate nella leggenda, non solo nella storia, del gioco del calcio. In particolare perché accomunate da una costante: sono state sempre realizzate con squadre prese in serie minori e in condizioni di difficoltà economiche e scarso entusiasmo, ma con impegno portate da underdog alla gloria, regalando al pubblico emozioni mai provate prima e indimenticabili. Dopo lo splendido lavoro fatto ad Hartlepool, dove organizzava collette in città per premiare i calciatori e guidava pure l’autobus della squadra in trasferta per risparmiare sui costi, accompagnando un sodalizio fra i più deboli del campionato all’ottavo posto e, una volta riorganizzato, permettendogli di centrare l’anno successivo il terzo posto e la promozione nella serie superiore, nel 1967 il duo Clough-Taylor cambia città per approdare in Second Division al Derby County FC. Una squadra senza troppe ambizioni, all’epoca impegnata più che altro a non retrocedere, e che non avendo grandi disponibilità sperava che la giovane coppia di tecnici ripetesse la stessa impresa realizzata più al Nord. Detto e fatto. Brian Clough non era quello che si definisce uomo di campo in senso stretto: la parte tecnica veniva curata da Taylor, mentre il nostro osservava, esponendosi più in consigli generici ed esortazioni che in specifiche istruzioni, risultando tuttavia un irresistibile motivatore. Ho letto che per iniziare Clough si presentò al Baseball Ground, lo stadio di casa, facendo rimuovere dalla sede sociale le fotografie dell’unico storico successo fino ad allora ottenuto dalla squadra, la vittoria nella Coppa d’Inghilterra conseguita nel lontano 1946, per concentrarsi su quelli che sarebbero arrivati, potrebbe essere una leggenda metropolitana ma sarebbe tuttavia in linea col personaggio.

Clough passò per matto forse, ma all’irascibile Sam Longson, ricco imprenditore e tifoso dei “Rams”, di cui non solo era presidente ma vero e proprio padre-padrone, avendo comprato il Derby dopo aver liquidato le sue aziende, in principio piaceva molto questo giovane allenatore così naïf, che arrivò perfino a cambiare le divise da gioco della squadra. Le maglie bianche rimasero naturalmente, ma i pantaloncini sarebbero stati blu scuro e non più neri. La spiegazione? “Visto che ora assomigliate alla nazionale inglese come aspetto, cercate di farlo anche nel gioco” disse Clough ai suoi ragazzi, plasmandoli a propria immagine e somiglianza. Il suo Derby era una squadra aggressiva, resistente e veloce. Il primo anno Clough conseguirà la salvezza dalla retrocessione senza impressionare, quello successivo i sui ragazzi centrarono addirittura la vittoria della Second Division, e la relativa promozione in First Division [il massimo livello del campionato di calcio inglese, la nostra serie A], per l’anno seguente. Peter Taylor con un colpo magistrale aveva individuato il rinforzo decisivo: l’anziano libero scozzese Dave Mackay, che sarà valorizzato all’interno di un gruppo capace di fare il salto di qualità e inserirsi subito nella lotta tra le grandi, superando il Liverpool e il Manchester City e contrastando lo strapotere del Leeds United di Don Revie, arrivando prima terzo e poi ottavo e finalmente, all’ultima giornata di campionato e con un solo punto di vantaggio, vincendo la First Division nel 1971/72, laureandosi campione d’Inghilterra. Tutto questo in solo cinque anni. No, non era pazzo Brian Clough. E di certo Sam Longson l’aveva ben compreso.

La stagione successiva arriva finalmente l’esordio in Coppa dei Campioni, e anche in Europa il Derby County si fa rispettare. Eccome. Dopo aver eliminato in maniera perentoria i campioni jugoslavi dello Željezničar, i portoghesi del Benfica e i cecoslovacchi dello Spartak Trnava, incontra in semifinale la fortissima Juventus. Saranno due partite memorabili per agonismo e intensità, ma anche per le feroci polemiche al loro termine. “Dentro lo spogliatoio dell’arbitro c’erano gli italiani, prima della gara e durante l’intervallo. La Juventus ha comprato la partita!” è l’affermazione di Clough a seguito della sconfitta nella prima gara a a Torino, a fronte di un arbitraggio obiettivamente favorevole ai campioni d’Italia che ha innervosito gli inglesi, spesso ammoniti. La partita era in equilibrio ma con il Derby ridotto in dieci per un cartellino rosso, i bianconeri, tecnicamente nettamente superiori ai “Rams”, presero il sopravvento. Inoltre, prima della grande sfida, Clough aveva commesso un’ingenuità, forse un errore. Il Derby aveva giocato pochi giorni prima un match di campionato massacrante, contro il Leeds. La posta in palio non era decisiva per la classifica, ma Clough, spinto dalla rivalità col tecnico avversario Revie, non aveva risparmiato i suoi migliori giocatori, che si infortunarono, dimostrandosi in quella circostanza poco lucido, facendo innervosire il presidente Longson. E parecchio. Tornando comunque a Torino, rimasero nella memoria collettiva le parole di Clough quando fu chiamato ad interloquire con i giornalisti: “I will not talk to any cheating bastards! [Non voglio parlare con nessun bastardo imbroglione], riferendosi ai cronisti italiani.

Nella partita di ritorno gli animi erano ancora più caldi ma i “Rams” non riuscirono a ribaltare il risultato. Il Derby infatti, privo dei suoi migliori giocatori, infortunati o squalificati, non sarà capace di prevalere sui bianconeri – in quella circostanza al Baseball Ground con l’iconica maglia azzurra da trasferta – nonostante l’occasione offerta da un calcio di rigore sprecato dal County e una sciocca espulsione. Clough prenderà atto dell’arbitraggio equilibrato in questa circostanza e della superiorità della Juventus, che poi in finale saprà mettere in seria difficoltà i campioni in carica dell’Ajax di Amsterdam, la squadra guidata da Johan Cruijff, al tempo ritenuta la più forte al mondo. Nel frattempo il clima a Derby si era fatto incandescente, a causa della tensione fra Clough e Sam Longson. Il rapporto con Clough si era guastato da tempo ma la gestione della doppia sfida con la Juventus aveva scontentato Longson. Il presidente non era più disposto a tollerare l’arroganza del suo allenatore, che oramai ne sfidava pubblicamente l’autorità, e per questo dichiarò: “Il Derby l’ho costruito io! Non l’ha costruito Brian Clough!” provocando inevitabilmente la brutale replica di quest’ultimo: “Non vedo perché io professionista della panchina, debba accettare le direttive di un dilettante che ha solo il pregio di avere quattrini.” Con quale risultato? Brian Clough e Peter Taylor si ritrovarono senza panchina e disoccupati. A quel punto Taylor in virtù degli ottimi rapporti personali ottenne panchina del Brighton & Hove Albion, un club ambizioso e florido, anche se iscritto solo alla Third Division, dove ricominciare insieme a Clough, che tuttavia invece di essere riconoscente all’amico mostrò insoddisfazione, abbandonando il sodalizio dopo solo otto mesi. Peter Taylor invece decide di rimanere a Brighton in qualità di manager infastidito dagli atteggiamenti di Clough, spesso lontano dal campo per guadagnare sponsorizzazioni extra attraverso i media mentre Taylor era costretto a gestire il lavoro con i giocatori.

Durante l’estate del 1974 mentre si trovava in vacanza in Spagna accadde l’impensabile: a Clough venne offerta la panchina del Leeds United. Era la squadra campione d’Inghilterra in carica, con giocatori di immenso talento: Billy Bremner, Johnny Giles, Joe Jordan, Peter Lorimer e Norman Hunter, il meglio del calcio britannico. Agli ordini del carismatico coach Don Revie, quel gruppo di giocatori aveva vinto due volte il campionato inglese, una Coppa d’Inghilterra, una Football League Cup e due volte la Coppa delle Fiere [progenitrice della Europa League], giungendo anche in finale di Coppa delle Coppe dove il Leeds era stato fermato solo da un Milan eccezionale, imponendosi tuttavia come una delle migliori squadre europee dell’epoca. Era successo però che Don Revie aveva accettato la proposta della Federazione di guidare la nazionale inglese, lasciando così la dirigenza del Leeds nella condizione di scegliere rapidamente un nuovo coach, che tuttavia non poteva essere un nome di secondo piano. In quel momento il profilo più adatto apparve quello dell’ambizioso Brian Clough, che accettò senza esitare, ma non poté farlo insieme al suo vice, che non volle lasciare Brighton. Ecco, senza Peter Taylor a moderarlo, sin dal primo giorno Clough si dimostrò sopra le righe, certo era un uomo brillante, carismatico e sicuro di sé e tutti lo riconoscevano, ma era arrogante, troppo arrogante e al Leeds non glielo avrebbero permesso. Lui comunque scelse la sfida, sia nei confronti della società che della squadra campione d’Inghilterra.

“Signori, parliamoci subito chiaro! Allora, tutti voi avete una fama internazionale e avete vinto tutti i trofei nazionali che potevate vincere con Don Revie, ma per quanto mi riguarda la prima cosa che potete fare per me è prendere tutte le vostre medaglie, tutte le vostre coppe, le vostre targhe e andare a buttarle nel più grosso fottuto cestino che riuscite a trovare, perché non ne avete vinta nemmeno una onestamente e lo avete fatto sempre giocando sporco! Ora, le cose saranno un po’ diverse da queste parti, senza Don. Vi sembrerà un po’ strano all’inizio, vi darà fastidio come un paio di scarpe nuove. Ma se volete che i vostri nipoti si ricordino di voi come qualcosa di più di quegli sporchi bastardi che siete stati e volete essere amati come dei veri campioni, degni di essere campioni, dovrete lavorare, dovrete migliorare, voi dovrete cambiare”. Evidentemente non fu proprio il migliore dei modi per esordire, e fu subito chiaro: lo spogliatoio decise di essergli ostile da subito, anche perché ancora troppo affezionato a Don Revie. Clough non fece nulla per comporre, per mediare, anzi la prese come una questione personale: volle dimostrare al mondo di essere capace di imporsi. Sempre, e comunque. Morale della favola: i giocatori non lo seguirono, boicottarono ogni suo approccio e qualsiasi iniziativa del coach in ogni modo possibile, e il Leeds si ritrovò dopo ben otto turni di campionato ultimo in classifica. Elland Road era avvolto in un clima di tensione insopportabile che non lasciava presagire nulla di buono. Fu così che il directing board della società, dopo l’ammutinamento della squadra, raccolta intorno al capitano Billy Bremner, decise di licenziare l’allenatore dopo soli quarantaquattro giorni dal suo insediamento.

Fu il massimo dell’imbarazzo per uno dei tecnici più coraggiosi e sicuri di sé mai visti nella storia di questo sport, ma non fu l’unica umiliazione. Clough infatti accettò di apparire in TV per parlare del suo esonero, ma di fianco a lui trovò seduto Don Revie. Una vera e propria imboscata. La trasmissione fu avvincente, i due grandi rivali si confrontarono verbalmente a modo loro, intrattenendo un pubblico di milioni di persone e mostrando nei limiti del reciproco rispetto tutto il loro antagonismo e la loro genuina antipatia. Clough ne uscì male, anche presso l’opinione pubblica, apparve infatti come un uomo pieno di luci e ombre, cinico, megalomane e presuntuoso, dotato certo di intuizioni che però non era riuscito davvero a trasmettere a nessuno. Insomma, venne giudicato “finito”. Intanto il Leeds, con l’arrivo del nuovo allenatore, Jimmy Armfield, ex capitano della nazionale, che interpreta al meglio il gioco del gruppo, comincia a giocare sul serio, soprattutto in Coppa dei Campioni dove arriva sino alla finale del Parco dei Principi a Parigi, contro il formidabile Bayern Monaco, che riuscirà a imporsi sugli inglesi fra molte polemiche, solo grazie a un arbitraggio non imparziale, in grado di indirizzare la partita a favore della formazione tedesca, capitanata da Franz Beckenbauer. Una mazzata, di quelle che lasciano il segno. Forse. Clough impara una lezione: gli sono mancate le capacità tecniche di Taylor, ma non solo. Piuttosto la capacità di mediazione del suo vice, che recitava la parte del “poliziotto buono” e la complicità del compagno di viaggio. E l’amicizia. Intanto, mentre i critici e gli osservatori definiscono Clough “fuori dal giro”, lui accetta la proposta di un altro club senza pretese, in Second Division.

È il Nottingham Forest a volerlo, appena iniziato l’anno nuovo, nel 1975, dopo la netta sconfitta della squadra nella sentitissima stracittadina contro gli acerrimi rivali del Notts County FC. Certo, Clough sembra dare ragione ai suoi detrattori, oramai la sua dimensione è la serie cadetta, ma è proprio dalla città di Robin Hood, che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”, che ricomincia la storia, e che storia! Prima di tutto però Clough si presenta a Brighton dal suo amico Taylor col capo chino e si scusa con lui, chiedendogli di tornare ad essere il suo vice. Il nostro è pronto a combattere e non accetterà un rifiuto, Taylor lo sa e gli vuole bene, e così gli promette che lo raggiungerà a Nottingham, che peraltro è la sua città natale, per iniziare insieme la loro nuova avventura. Il Forest attraversa un periodo poco felice, è una squadra povera di talento e non c’è più nessun entusiasmo in città verso questo club così antico, anzi sulle tribune del City Ground il clima è di rassegnazione all’ennesima retrocessione. Insomma, l’ambiente ideale per Clough che non perde tempo e rifonda la squadra ingaggiando subito i suoi più devoti calciatori ai tempi del Derby County e su John Mc Govern e John O’Hare inizia a porre le basi del “suo” Forest. Peter Taylor, col suo proverbiale intuito, aggiunge calciatori di qualità, intuendo che Martin O’Neill, Peter Withe e Larry Lloyd, che le grandi squadre hanno scartato hanno ancora molto da offrire. Il Forest inizia così ad acquisire una nuova identità e a Nottingham cresce l’entusiasmo per i “Garibaldis”, le cui magliette rosse sono un omaggio all’Eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, rivoluzionario amatissimo in Gran Bretagna. Il Forest era un cantiere, Clough diede fiducia ad alcuni giovani comeViv Anderson e Tony Woodcock e decise di trattenere John Robertson che era in lista di partenza, “È un giovane poco attraente, mi siederei di fianco a lui per sentirmi Errol Flynn al paragone. Ma dategli un metro di terreno e diventa un artista. Un Picasso del calcio. E Picasso non si vende” disse Clough al presidente del Forest, e Robertson divenne forse la migliore ala dell’epoca e ancora oggi è considerato il migliore tra i giocatori che abbiano mai vestito la maglia del club.

Il Forest targato Clough-Taylor in effetti è già una perfetta amalgama e impressiona da subito: al primo tentativo raggiunge la terza posizione in classifica nella sua categoria, e conquista la promozione in First Division. Il Forest utilizza molto le fasce laterali, pratica un football aggressivo in ogni zona del campo ed ha, in ogni ruolo, calciatori capaci di aggredire gli avversari secondo le indicazioni di Clough, che dopo la promozione vuole vincere subito il titolo. Allo scopo, su indicazione di Taylor, Clough chiede ed ottiene il trasferimento a Nottingham dallo Stoke City del portiere Peter Shilton, convinto delle doti straordinarie del giovane che i grandi club non avevano colto. E non sbaglierà nemmeno questa volta. La difesa con Shilton a guidarla diventa inespugnabile: alla fine della stagione il portiere avrà subito solo 24 reti, addirittura 20 in meno della stagione precedente in Second Division, mantenendo inviolata la porta per 23 gare sulle 42 disputate, contribuendo al successo dei “Forester” che diventeranno campioni d’Inghilterra, davanti al Liverpool e all’Everton. Quel torneo fu un vero trionfo, ottenuto con largo margine sugli avversari e subendo solo tre sconfitte: il Forest era la squadra del momento, da neopromossa a campione d’Inghilterra nella stagione 1977/78, arrivando ad offuscare la gloria del Liverpool due volte Campione d’Europa, contro il quale i “Garibaldis” trionfarono anche in Coppa di Lega inglese, mentre Peter Shilton sarà premiato come il migliore giocatore dell’anno del campionato inglese. Clough è tornato, e adesso ha l’ambizione di imporsi a livello europeo. Stavolta è deciso a tutto pur di trionfare. Per questo Clough chiede un sacrificio al suo presidente, un grande sacrificio. Niente meno che l’acquisto ad una cifra record per il calcio inglese dell’epoca di Trevor Francis, il miglior prospetto in circolazione.

La fiducia del club in Clough è totale e la città di Nottingham è travolta dall’entusiasmo, e così il venticinquenne talento del Birmingham City viene strappato alla concorrenza con una transazione che al lordo delle tasse supera, per la prima volta nel calcio britannico, un milione di sterline. Una follia. E contro la logica della formazione di giocatori provenienti dal vivaio o del recupero di calciatori in crisi, tipica del sodalizio con Taylor. Clough tuttavia è consapevole del momento e sa che il Forest per restare competitivo ed affrontare la sfida europea, ha bisogno di talento. E quello di Trevor Francis di talento non si discute. Il prezzo del cartellino tuttavia sarà fissato a 999.999 sterline, Clough lo pretenderà per evitare che “il ragazzo si monti la testa”. Pronti via. E il Forest ottiene il primo successo di una stagione che sarà memorabile: a Wembley ha travolge 5-0 l’Ipswich Town nel Charity Shield [la Supercoppa inglese]. Intanto, il sorteggio del tabellone della Coppa dei Campioni è da far tremare i polsi: al primo turno il Forest dovrà sfidare i campioni d’Europa in carica: il Liverpool di Bob Paisley, la squadra che stava dominando in patria e sul continente in quegli anni. Uno scontro senza precedenti. La prima gara si disputa al City Ground e quella sera del settembre 1978 nasce la leggenda europea degli “arcieri” di Nottingham. Non potendo disporre di Francis, Clough ridisegna la squadra. Il Liverpool appare intimidito dall’aggressività del Forest e non riesce a reagire come vorrebbe al vantaggio dei “Garibaldis” e a pochi secondi dalla fine della partita la squadra di casa si porta sul 2-0, ipotecando la clamorosa qualificazione contro i “Reds”. Qualificazione che arriverà puntualmente due settimane dopo. Anfield è una bolgia e i “Reds” sono indemoniati, ma la difesa dei “Forester” è un muro.

Il Liverpool è fuori al primo turno e il Forest, per la sicurezza mostrata, diventa per tutti la favorita alla conquista della coppa, superando negli ottavi l’Aek Atene, che aveva eliminato il Porto, e nei quarti il Grasshoppers giustiziere del Real Madrid. In semifinale l’ostacolo più duro: il Colonia, una squadra tedesca molto ricca di talento. In pratica una finale anticipata, non si può sbagliare. La partita di andata è destinata ad essere ricordata come una delle più avvincenti della storia del prestigioso trofeo. Il City Ground, flagellato da giorni di pioggia, è al limite della praticabilità per lo svolgimento della gara, ma le due squadre si affrontano a viso aperto, senza tatticismi. I tedeschi sono i padroni del gioco e dopo appena 20 minuti sono già in vantaggio per 0-2, sugli spalti si teme il tracollo. Nel momento più difficile però il Forest trova le energie necessari e si scatena, ribaltando la partita e portandola sul 3-2 fra l’euforia generale. I tedeschi però non mollano e riusciranno a pareggiare proprio a pochi minuti dalla fine, ottenendo un 3-3 che gela il City Ground e sembra l’anticamera dell’eliminazione per gli inglesi. Solo Clough si dimostra ottimista. E sul campo il Forest gli darà ragione, disputando in Germania una gara tatticamente perfetta, un capolavoro di concentrazione e disciplina. Il Nottingham sarà ermetico e non rischierà nulla, passando in vantaggio in contropiede a poco meno di mezz’ora dalla fine del match, difendendo poi il risultato senza incertezze e guadagnandosi l’accesso alla finale della massima competizione europea. Clough non sta nella pelle, la canzone We’ve got the whole world in our hands diventa la “Forest March”.

Forest in finale, quindi. A Monaco di Baviera, incontrerà coi favori del pronostico il Malmö FF, una squadra svedese non particolarmente brillante ma ordinata, che si prepara a giocare una gara tattica sperando di bloccare gli “arcieri”. Clough non ha paura e gioca per vincere, in fretta. Allo scopo schiera il Nottingham a trazione anteriore, con l’esordio europeo di Trevor Francis, schiacciando gli svedesi, che crolleranno già nel primo tempo, quando Robertson punta la difesa lanciandosi sulla fascia sinistra, arriva sul fondo e butta nel mezzo un cross morbido. I centrali svedesi sono scavalcati, sulla palla si avventa Trevor Francis che la mette nel sacco. Proprio a Trevor Francis tocca segnare il gol del meritato trionfo. Il Nottingham chiuderà così imbattuto la sua campagna europea, conquistando nel finale di stagione anche la Coppa di Lega inglese, battendo nel tempio di Wembley il Southampton, in una partita nella quale Clough compie un gesto di rara generosità: lascia che a guidare la squadra sia Peter Taylor, per dimostrargli riconoscenza e quanto sia importante il suo contributo ai successi del Forest. I “Garibaldis” diventano un argomento di infinite discussioni per l’intero calcio europeo che si interroga come una squadra che quattro anni prima era sedicesima in Second Division, sia riuscita a centrare, in tre sole stagioni, la promozione in First Division, la vittoria del campionato nazionale, la conquista di due Coppe di Lega ed infine il trionfo europeo in Coppa dei Campioni. La risposta è semplice: Brian Clough (e Peter Taylor). E non è ancora finita. Infatti, la stagione successiva il Nottingham Forest dovrà difendere la Coppa appena conquistata. Non sarà una passeggiata.

Inizia infatti a emergere qualche problema, e Clough l’ha già capito: gli “arcieri” sono meno brillanti e più affaticati, e non saranno in condizione di lottare su più fronti. Per questo Clough decide di concentrare le sue ambizioni e le energie dei suoi ragazzi nella difesa della Coppa dei Campioni. Vuole provare a vincerla ancora.In effetti i primi due turni dell’edizione 1978/79 della Coppa dei Campioni non rappresentano un problema per il Forest che si sbarazza autorevolmente dei campioni svedesi e di quelli romeni. Alla ripresa primaverile tuttavia il Nottingham subisce al City Ground la sua prima inaspettata sconfitta europea, in casa e contro una sorprendente Dynamo Berlino. I tedeschi dell’Est per nulla intimiditi sembrano a quel punto un ostacolo insormontabile, ma nello studio del match di ritorno Clough sale in cattedra preparandolo in maniera perfetta, psicologicamente e tatticamente. Il Forest infatti entra in campo a Berlino letteralmente trasformato, Trevor Francis in particolare disputa forse la miglior partita della sua carriera, e segna una doppietta che Robertson suggella trasformando un rigore. La Dynamo è alle corde e già alla fine del primo tempo la qualificazione degli inglesi è al sicuro. Il percorso europeo mitiga la delusione in patria, il Liverpool infatti come previsto è saldamente in testa al campionato, che alla fine dominerà. Tuttavia a Nottingham sono persuasi: la difesa della Coppa è possibile, ma Clough, come al solito, non si accontenta del cauto ottimismo, incendia invece l’ambiente, dichiarandosi certo del trionfo, già prima di disputare la semifinale con l’Ajax Amsterdam. Intanto il Forest rifiuta di giocare la finale di Coppa Intercontinentale, cosa che le squadre europee in quegli anni facevano sovente, troppo lungo il viaggio e troppo violenti gli scontri coi sudamericani.

Certo dispiaceva, ma risparmiarsi il viaggio in Paraguay per affrontare i campioni sudamericani del Club Olimpia di Asunción, fu una buona idea, per non prosciugare le energie psicofisiche della squadra. In ogni caso un altro alloro il Forest lo mise in bacheca, vincendo la Supercoppa europea, liquidando un avversario di rango, niente meno che il FC Barcellona. Anche l’Ajax verrà superato di slancio dal Forest, che in finale se la dovrà vedere con l’Amburgo. La squadra anseatica guidata da un implacabile Kevin Keegan, da due anni consecutivi vincitore del “Pallone d’Oro”, che in patria ha interrotto l’egemonia del Bayern Monaco e in semifinale europea ha eliminato il Real Madrid con sorprendente facilità, parte nettamente favorita. Il tranquillo Clough, in panchina con indosso una tuta Adidas da antologia, non si cura dei pronostici, anche se alla vigilia della finalissima di Madrid il fuoriclasse Trevor Francis, che era un momento di forma eccezionale, si infortuna gravemente al tendine d’Achille. Le due squadre si rispettano, si temono. Il Nottingham sorprenderà gli avversari impostando la partita ricorrendo al “catenaccio”, e dopo essere riuscita ad andare in vantaggio, grazie alle prodezze del suo portiere Shilton alla guida di una difesa completamente impermeabile, ci resterà fino alla fine. E così la Coppa dei Campioni resterà nelle Midlands, nella città circondata dalla foresta di Sherwood, che si confermerà regina d’Europa anche nella stagione 1978/79. Ancora oggi, il Nottingham Forest è l’unica formazione ad aver fatto sue più coppe dei Campioni che titoli nazionali, e trovare un corrispettivo su scala mondiale di quell’impresa non è soltanto difficile, è proprio impossibile.

La seconda Coppa dei Campioni consecutiva vinta, completa la favola del suo lieto fine. Lieto, ma pur sempre un finale. Perché da quella sera in poi, nulla fu più come prima. Inizierà la parabola discendente sia del Forest che del rapporto professionale e umano di Brian Clough e Peter Taylor. La loro relazione iniziò a peggiorare pubblicamente nell’autunno del 1980, quando il vice pubblicò “With Clough, by Taylor”, un’autobiografia basata in gran parte sul lavoro di Taylor con Clough, dove il secondo volle sostenere d’avere gli stessi meriti, se non maggiori, del suo capo. Clough se la prese moltissimo perché Taylor non gli aveva detto che stava scrivendo il libro e non gli aveva proposto di partecipare, oltre a non avergli concesso una parte dei proventi che Clough riteneva di sua pertinenza. Fatalmente, dopo un’altra stagione i due arrivarono alla resa dei conti: Clough era sempre più esuberante, “padrone” del Nottingham e popolare, anche in ragione delle sue posizioni politiche contro le politiche sociali del governo conservatore di Margareth Thatcher, mentre lo schivo Peter Taylor non ne voleva più sapere di prevaricazioni e sovraesposizione, stanco di un istrione geniale ma insopportabile. Taylor annuncia quindi il suo ritiro dal calcio per gravi (e reali) motivi di salute, salvo cambiare idea e poi firmare per il Derby County portando con sé il fuoriclasse scozzese John Robertson, dopo una cruenta battaglia legale. Clough, se la lega al dito arrivando a dire con la solita diplomazia a riguardo all’ex-amico: “We pass each other on the A52 going to work on most days of the week. But if his car broke down and I saw him thumbing a lift, I wouldn’t pick him up, I’d run him over” [in sintesi: “Se lo vedessi fare l’autostop sul ciglio della strada tornerei indietro per investirlo”] e non tarda la risposta di Taylor, che parla di Clough come “the sort of thing I have come to expect from a person I now regard with great distaste” [in poche parole: “un uomo che sono arrivato a guardare con disprezzo”]. Ecco, da quel momento Brian Clough e Peter Taylor non si parleranno più. Mai più.

La fine del rapporto fra i due non sarà indolore, soprattutto per Clough che non riuscirà più a nascondere i suoi problemi con l’alcool, che peggioreranno, e le sue frustrazioni. I due ex amici tuttavia non si riconcilieranno, anzi Clough in più di una circostanza definirà sulla stampa il suo ex assistente “a rattle-snake” [un serpente a sonagli] nascosto nell’erba. Taylor non risponderà, ed eviterà di incontrare Clough durante la sfida di campionato che oppose il suo “County” al Nottingham, peraltro vinta 2-0, e comunque si ritirerà definitivamente dalla scena nel 1984, lasciando il Derby County dopo solo un anno. Clough resterà invece sulla panchina del Forest allenandolo sino al maggio del 1993, quando il Nottingham retrocederà dalla nuova Premier League nella serie cadetta, dopo ben 16 stagioni, riuscendo però a vincere ancora quattro trofei ufficiali: due volte la Coppa di Lega inglese e due volte la Full Members Cup, una competizione disputatasi fra il 1985 e il 1992, in seguito all’esclusione dalle competizione europee delle squadre inglesi a causa della strage dell’Heysel. Peter Taylor morirà improvvisamente nel 1990, mentre si trovava in vacanza a Maiorca, all’età di 62 anni. Quando Clough sarà informato dal suo assistente Ronald Fenton della morte di Peter Taylor rimarrà in silenzio e non dirà una parola, dopodiché riattaccherà il telefono e piangerà a lungo e disperatamente. Dopo chiamerà la famiglia di Peter per partecipare al loro dolore. Il dolore che anche lui provava, per la morte di quello che era stato il suo unico amico. Clough parteciperà al funerale insieme a una delegazione di giocatori del “loro” Forest, ma benché invitato non oserà sedersi accanto ai parenti, nelle prime file della St Peter’s Church nel villaggio di Widmerpool. Era il suo modo di chiedere perdono a Peter, alla Clough.

Negli anni immediatamente successivi alla morte di Taylor il deterioramento della salute di Clough fu evidente. Spesso il nostro passeggiava solitario sulle rive del fiume Trent, che costeggia il City Ground, assorto fra i suoi pensieri, forse assillato dal rimorso e dal suo tempo che si stava consumando. In effetti non perse più nemmeno un’occasione per rendere onore al ricorso di Peter Taylor: “Era sempre 24 ore avanti a me quando si trattava di comprendere le cose. Frank Sinatra una volta mi ha detto che i contratti e gli ingaggi venivano prima di tutto negli affari, la musica ne era solo la conseguenza, concludendo che “In football, the man who picks the players comes first. All the bullshit comes later” [Nel nel calcio prima di tutto conta chi sceglie i giocatori. Tutte le altre stronzate vengono dopo], riferendosi all’importanza del lavoro di Taylor nel loro sodalizio. Clough in seguito rivalutò pubblicamente anche l’amicizia, non solo la stima professionale, dedicando la sua autobiografia del 1994 al suo ex assistente. “To Peter,” diceva. “Still miss you badly. You once said: ‘When you get shot of me there won’t be as much laughter in your life.’ You were right.” [Ancora mi manchi molto, Peter. Una volta hai detto: “Quando ti sarai liberato di me non ci saranno più tante risate nella tua vita”. Avevi ragione].

Comunque nel 2003 all’età di 67 anni venne diagnosticato a Clough il cancro al fegato, un organo devastato, dopo tanti anni di alcolismo: due mesi di vita al massimo, se non si fosse sottoposto subito a un trapianto. Clough scelse di lottare, anche quella volta. Affrontò l’operazione e il trapianto ebbe successo, ma sopravvisse solo altri 21 mesi fino a quando il male incurabile lo raggiunse allo stomaco. Clough si spense il 20 settembre 2004 all’ospedale di Derby, dove era stato curiosamente ricoverato pochi giorni prima. Il suo funerale, programmato nella cattedrale di Derby, verrà poi celebrato nel nuovo impianto cittadino del Pride Park Stadium, per ospitare tutte le le persone accorse allo scopo di rendergli omaggio, salutandolo per l’ultima volta. Oggi all’ingresso dello stadio di Derby una statua lo ritrae abbracciato a Peter Taylor mentre reggono insieme il loro primo trofeo, la coppa consegnata ai vincitori della First Division nel 1971/72, mentre a Nottingham, le due grandi tribune del City Ground, dove il Forest gioca ancora oggi, e dove i due amici vinsero tutto, si chiamano Brian Clough Stand, la principale, e Peter Taylor Stand, quella di fronte. Insieme, per sempre.

E non sarebbe potuto essere altrimenti. Infatti, con voce commossa, in occasione di una delle tante celebrazioni in suo onore a Nottingham, Brian Clough invece di gioire ebbe modo di ricordare unicamente il suo stato d’animo: “My only regret is my mate is not with me” [Ho solo un rimpianto oggi ed è che il mio amico non sia qui con me].

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La giovane Roma al Testaccio non perdeva (quasi) mai, la Serie A fascista che nasce a Viareggio e il primo film italiano sul calcio: 5 a 0!

Se la città di Roma e la squadra della Roma non sono la stessa cosa intanto hanno lo stesso nome e gli stessi colori: l’identificazione quindi è fortemente legittima, quasi scientifica. Lo scrittore Sandro Bonvissuto questo concetto lo sviluppa in un libro che ogni tifoso, di qualsiasi squadra, dovrebbe leggere: La gioia fa parecchio rumore, scritto per Einaudi. Questo bel romanzo de noantri canta di un amore assoluto per la squadra del cuore e mi ha ricordato di quando avevo scoperto quello che rimane(va) del glorioso Campo Testaccio, anzi cosa non ne rimane(va): il leggendario stadio della Roma, infatti, quello “dove nessuna squadra ce passerà”, era ridotto a un cratere, come se non fosse mai esistito. Il quartiere del Testaccio, invece, seppure in continua evoluzione, è riuscito a conservare intatto il suo spirito genuino e popolare che lo rende il quadrilatero della romanità per eccellenza, oggi all’avanguardia nella produzione culturale capitolina, ma al tempo stesso capace di evocare romantiche memorie sportive: quelle della giovane Roma testaccina, squadra amatissima e gagliarda, tutta “petti d’acciaio, astuzia e core”.

La formazione della Roma per il primo incontro con la Juventus, disputato il 13 novembre 1927 nella capitale e terminato in pareggio; da sinistra, in piedi: il presidente Foschi, l’allenatore Garbutt, Ziroli, Fasanelli, Bussich, Cappa, Chini Luduena, il massaggiatore Cerretti e il suo secondo Moggiani; al centro: Ferraris IV, Degni, Rovida, Bianchi; a terra: Mattei, Rapetti e Corbyons.

A poca distanza dall’imponente Porta di San Paolo, uno dei varchi meridionali della cinta muraria aureliana, si scorge il Sepulcrum Cestii un monumento funerario singolare quanto incongruo, si tratta di una tomba a forma di piramide egizia, costruita tra il 18 e il 12 a.C. e dedicata a Caio Cestio Epulone, un ricco magistrato romano. La piramide, completamente rivestita di lastre di marmo di Carrara, dà il nome alla fermata della metropolitana che si trova al lato di piazzale Ostiense, ed oramai è inglobata nel perimetro delle mura, accanto al suggestivo Cimitero Acattolico. Il camposanto, nascosto da maestosi alberi secolari, è il luogo dove riposano per sempre i non cattolici, soprattutto britannici, come Keats e Shelley, e tedeschi, come il figlio di Goethe, e pure tanti illustri italiani: tra gli altri Gadda, Lussu, Gramsci e Camilleri, il creatore di Montalbano, che qui trascorreva molto tempo a meditare passeggiando in solitudine fra le tombe, in prossimità della piastrella che ricorda il luogo di sepoltura del gatto Romeo, già ospite della vicina colonia, un felino molto amichevole e benvoluto dai visitatori, che in vita era diventato una vera e propria mascotte.

Al confine fra il rione Testaccio e l’Ostiense si trovano la porta di San Paolo e la Piramide Cestia, proprio accanto a quest’ultima, dietro alle mura aureliane ha sede il Cimitero acattolico, fra questo e le pendici del Monte dei Cocci un tempo stava il leggendario Campo Testaccio.

Verso il fiume Tevere, lasciata la quiete del camposanto, si attraversa dapprima piazza Testaccio, il cuore commerciale del rione, e quindi piazza Santa Maria Liberatrice, al centro della sua verace socialità, che ospita l’unica parrocchia del quartiere, Santa Maria Liberatrice appunto, il Teatro Vittoria e un vasto giardino, dove una significativa porzione è stata ri-battezzata, a furor di popolo, piazza Francesco Totti, con tanto di segnaletica. Proseguendo la passeggiata, si raggiunge l’Emporium, dove si trovava niente meno che il grande porto fluviale dell’antica Roma: ne restano alcuni tratti molto ben conservati, incassati nel muraglione del Lungotevere Testaccio, una banchina lunga addirittura mezzo chilometro con gradinate e varchi da cui si accede(va) a due file di magazzini che si affaccia(va)no su un corridoio criptoportico. Le dimensioni dell’infrastruttura non devono sorprendere, perché qui arrivavano le merci provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo destinate a Roma, che una volta sbarcate al porto di Ostia proseguivano il loro viaggio a bordo di zattere trainate lungo la terra ferma da grandi buoi che risalivano il Tevere fino all’Urbe, che nel II secolo d.C. con oltre un milione e mezzo di abitanti era la più grande città della storia dell’umanità.

È l’iniziativa di alcuni romanisti che hanno ribattezzato piazza Santa Maria Liberatrice, uno dei luoghi simbolo del rione Testaccio, cuore del tifo giallorosso. Nei giardinetti, sulla targa originaria è stato apposto un adesivo con la la scritta “Piazza Francesco Totti, VIII re di Roma”, che si trova pure su Google Maps.

Poco distante dall’attuale indirizzo del Roma Club Testaccio, il primo circolo dei tifosi giallorossi, fondato nel quartiere addirittura nel 1969, dopo una sosta al nuovo mercato rionale, polo gastronomico dal design minimale e contemporaneo, ci si tuffa nella storia della Roma, intesa come squadra, non solo in quella di Roma. E allora, se il tema della passeggiata diventa la squadra giallorossa, c’è un posto imperdibile da visitare, un’atmosfera da respirare: bisogna salire al Monte Testaccio, approfittando delle visite guidate i cui partecipanti si raccolgono ai piedi di quello che viene chiamato familiarmente il Monte dei Cocci. Naturalmente non è un monte, ché a Roma ci sono solo colli, bensì una vecchia discarica a cielo aperto. Già, proprio così: un enorme accumulo di materiale di scarto. Questa collina artificiale, alta poco più di 50 metri con una circonferenza di circa un chilometro, è difatti una grande area archeologica di immenso valore, formata interamente da cocci, che in latino si chiamano testae, da cui evidentemente il toponimo Testaccio. Ma da dove arrivano tutti questi cocci? Questi cocci sono nient’altro che i frammenti di oltre cinquanta milioni di anfore. Tante sono quelle utilizzate nell’arco di qualche secolo per trasportare l’olio d’oliva dalle provincie africane e iberiche fino a Roma.

Per secoli il Monte Testaccio fu ignorato dall’iconografia urbana probabilmente poiché il suo scopo originario di discarica non lo rendeva meritevole di particolare menzione, oggi è l’ottavo colle (seppur artificiale) di Roma, ed è intimamente legato alla storia della squadra giallorossa.

Queste grandi anfore a causa della rapida alterazione dei residui d’olio un tempo contenuto all’interno, non erano più riutilizzabili e quindi andavano smaltite, come si direbbe oggi. Una volta svuotate venivano quindi frantumate a poca distanza dall’Emporium e i resti, dopo essere stati trattati con calce al fine di impedire lo sviluppo dei batteri portati dalla decomposizione del contenuto, erano accumulati gli uni sugli altri, favorendone la coesione e così raggiungendo, a partire dal X secolo, l’attuale conformazione: una collina, diventata la sede ideale dei festeggiamenti carnascialeschi, ispirati alle antiche festività romane dei Saturnali, che prevedevano addirittura la celebrazione di cruente corride concluse con la mattanza di maiali e tori, fra l’ebbrezza generale. In seguito emerse una funzione religiosa del Monte dei Cocci, che consisteva nella rappresentazione della Via Crucis fino sulla sommità del colle, come testimonia la croce in ferro che dal 1914 si trova lì. Tutta l’area che chiamiamo Testaccio ancora nel medioevo era una vasta zona soggetta alle alluvioni del Tevere, comunque malsana a causa della malaria e, pur dentro le mura, popolata da contadini, emarginati dalla città e poveri.

Uno dei tanti locali costruiti in aderenza al Monte Testaccio, in questa sala in particolare si possono osservare i cocci, dietro le lastre di vetro, che una volta consolidati hanno formato l’intera – enorme – massa della collina artificiale.

Nonostante il degrado che caratterizzava l’area, il territorio pianeggiante e la presenza di collegamenti fluviali e terrestri furono alla base della decisione, assunta nelle pieghe del primo piano regolatore di Roma, di prevedere le operazioni di bonifica necessarie a destinare il territorio all’insediamento di una serie di attività industriali, quali ad esempio il grande mattatoio cittadino, i mercati generali agroalimentare e ittico e il parco ferroviario. Il rione nacque quindi come propaggine residenziale destinata agli operai addetti alle attività che si andavano via via insediando lungo l’asse dell’Ostiense: in un contesto di urbanizzazione programmata, che a Roma non aveva precedenti. Lo spazio tra il Monte dei Cocci e le mura aureliane venne lasciato ad uso pubblico, consacrandolo a destinazione tradizionale delle gite domenicali e delle “ottobrate” dei romani dove il vino scorreva a volontà, e proprio la particolare conformazione della collina che permette la circolazione dell’aria al proprio interno, favoriva la conservazione dei vini, offrendo un incentivo ai residenti più intraprendenti che avviarono l’attività di numerose fraschette, le tipiche aree di ristoro e svago dei romani, e che forse sono le remote antenate dei tanti locali che ancora oggi si trovano ai piedi dell’ottavo colle e che richiamano i festeggiamenti di un tempo.

È il 3 novembre del 1929 quando il Campo Testaccio viene inaugurato alla presenza delle autorità civili, religiose e militari, prima della partita Roma-Brescia, che terminerà col successo della squadra giallorossa.

Peraltro, la crescita tumultuosa del quartiere determinò un abusivismo edilizio caotico che deturpò gran parte di quella zona un tempo destinata a prati, al punto che alla fine degli anni Venti dello scorso secolo si rese necessario un intervento di recupero. Così, all’interno di quel perimetro ai piedi del Monte dei Cocci grazie alle risorse di Renato Sacerdoti, un facoltoso imprenditore che decise di investirvi, fu realizzato il Campo Testaccio, progettato sul modello degli stadi all’inglese, in particolare quello dei campioni d’Inghilterra dell’epoca, l’Everton Football Club, il mitico Goodison Park. Una volta realizzato, ben sette ingressi si affacciavano su via Nicola Zabaglia alla base della tribuna principale lunga 112 metri e coperta nella parte centrale da una tettoia di 64 metri sorretta da 6 pilastri. Era il luogo destinato alle autorità, ai soci vitalizi e alla stampa, potendo contenere in tutto 5000 persone disposte su 21 gradoni, mentre al di sotto di essa si trovavano vari locali di servizio e gli spogliatoi da cui i giocatori accedevano al campo attraverso un passaggio sotterraneo. La tribuna opposta, denominata dei “distinti”, era lunga 120 metri, aveva 31 gradoni e poteva contenere fino a 8000 spettatori ed era dotata ai fini della sicurezza del pubblico di un impianto che, sotto il peso della folla, indicava il raggiungimento della massima capienza. Dietro le porte del campo si alzavano le gradinate definite “popolari” che erano sopraelevate di 4 metri dal suolo e lunghe 60 metri per 10 di altezza e 15 gradoni che potevano contenere circa 2000 persone ciascuna.

Le tribune in legno – con balaustre liberty dipinte in giallo e rosso – erano uno dei tratti distintivi del Campo Testaccio. La tribuna era coperta nella tratta centrale destinata ad ospitare le autorità, dove un paio di volte si fece vedere a scopo propagandistico anche Benito Mussolini.

Fra le tribune e la rete che delimitava l’area di gioco si ricavarono poi due “parterre” leggermente inclinati lunghi ciascuno 120 metri e larghi 7 ove potevano trovare sistemazione in piedi, e quindi a un prezzo più contenuto, altri 6000 spettatori. L’impianto comprendeva anche l’abitazione del custode e dell’allenatore della squadra, un edificio sul cui muro esterno era dipinto un grande stemma della Roma, verniciato di giallo oro e rosso pompeiano. Il terreno di gioco era ricoperto da un soffice tappeto erboso dotato per l’epoca di un innovativo sistema di drenaggio, costituito da un reticolo di canaletti sotterranei che permettevano l’irrigazione e il deflusso dell’acqua piovana, mentre sotto il prato era stato collocato uno strato di carbonella, che insieme alla struttura a schiena d’asino, consentiva che non si formassero delle pozzanghere. L’ingente investimento per la costruzione della casa della Roma era stato sopportato da un personaggio centrale nella storia del sodalizio capitolino, il cosiddetto banchiere di Testaccio, Renato Sacerdoti, che ne diventerà il secondo presidente, dopo il fondatore. I prezzi erano abbastanza elevati per l’epoca, e tuttavia lo stadio che poteva contenere fino a 23 000 spettatori era spesso esaurito, mentre chi era senza biglietto saliva al Monte dei Cocci da dove si vedeva meno della metà del campo a causa della tettoia della tribuna, ma spesso si riunivano sino a 5000 persone. Tanto per dare un’idea della passione che suscitava la giovane Roma basti pensare che se il mezzo più usato all’epoca per raggiungere lo stadio era il tram, su 26 linee in funzione allora nella Capitale d’Italia ben 11 consentivano di arrivare al Campo Testaccio.

I tifosi della Roma rimasti senza biglietto salivano sul Monte Testaccio per assistere alla partita, anche se più che vederla la potevano sentire e a loro volta non facevano mancare il loro rumoroso appoggio alla squadra giallorossa.

L’entusiasmo popolare e la passione travolgente per la neonata squadra capitolina hanno una spiegazione, che ci porta a ricordare e spiegare la nascita della Serie A. Infatti, erano più o meno trent’anni che in Italia si organizzavano tornei di calcio: quello che è considerato il primo vero campionato risale al 1898, venne disputato in un’unica giornata tra quattro squadre e vinto dal Genoa. Negli anni successivi i campionati inclusero più squadre, si articolarono meglio, nacquero categorie diverse, gironi regionali e successive finali sino all’ultima partita della stagione che assegnava il titolo di campione d’Italia. Il tutto sotto la lente della Federazione Italia Giuoco Calcio, la FIGC, che tuttavia non riusciva a trovare l’accordo delle società iscritte a realizzare un assetto più razionale. Il problema era inoltre che le squadre del Nord Ovest erano nettamente più forti di quelle del Nord Est, del Centro e del Sud, ed ogni edizione era in qualche modo diversa nella sua formula dalle precedenti, dal momento che allo scopo di assegnare il titolo nazionale la FIGC cercava di coinvolgere tutto il paese, organizzando degli spareggi tra le squadre vincitrici dei diversi campionati, che peraltro vedevano prevalere sempre le grandi squadre lombarde, piemontesi o liguri, che avrebbero desiderato limitare il torneo a un girone che coinvolgesse esclusivamente il Nord Italia, scatenando l’opposizione di quelle squadre più piccole che si opposero e nel 1921 si arrivò addirittura a una scissione e si disputarono due campionati diversi, uno vinto dalla Novese (quello ufficiale, con le squadre minori) e uno dalla Pro Vercelli. I due campionati furono ricomposti l’anno successivo e si adottò una soluzione di compromesso che prevedeva una Lega Nord e una Lega Sud, con una finale tra le vincitrici, ma il divario tecnico tra le due leghe era incolmabile, e a vincere era puntualmente la squadra del Nord: Internazionale, Milan, Juventus, Pro Vercelli e Genoa non avevano rivali, tanto che la prima squadra di un’altra regione a vincere il campionato sarebbe stata il Bologna solo nel 1925, mentre il primo sodalizio non del Nord sarà la Roma, addirittura nel 1942.

Un telegramma di felicitazioni spedito da un tesserato giallorosso che festeggia il successo del primo campionato vinto dalla Roma, mai lo scudetto se lo era aggiudicato una squadra del Centro Sud e la questione nordista emerge con chiarezza dal testo del messaggio.

Nel frattempo il fascismo aveva preso il potere, tratteggiando l’idea di un campionato unico, più adatto ai sentimenti autarchici e nazionalisti propagandati dal regime. I progetti per l’unificazione delle diverse competizioni regionali erano però complicati dal fatto che, oltre alla prima divisione, l’impianto del campionato di calcio doveva prevedere strutture simili anche per le divisioni minori, a cui partecipavano squadre piccole per cui era logisticamente difficile, o impossibile, prendere parte a campionati di maggiori dimensioni e ambizioni. Tuttavia una scintilla venne in soccorso del regime e fornì il pretesto necessario a legittimare un intervento radicale. Infatti una grave crisi di sistema aveva colpito il mondo del calcio e quasi travolto la FIGC nel 1926, quando giunse al termine un campionato (per la cronaca, vinto dal Torino e poi revocato per una presunta frode che avrebbe determinato un dirigente granata a comprare un derby poi vinto dal Toro 2 a 1 contro la Juventus) rovinato dalle cosiddette “liste di ricusazione”, ovvero sia elenchi stilati dai club che ponevano all’indice arbitri a loro non graditi. Proprio lo sciopero arbitrale che ne seguì portò di fatto il regime, tramite il presidente del CONI dell’epoca Lando Ferretti, ad organizzare una speciale commissione cui venne dato l’incarico di riorganizzare il calcio italiano, nel frattempo ammorbato da sospetti e violenze, che culminarono nella finalissima fra Genoa e Bologna dell’anno precedente, detta “delle pistole”, e vinta alla quarta ripetizione della sfida dai felsinei, in un clima inaudito. Riunitisi in Versilia, in una sala del municipio di Viareggio, e alla presenza dell’on. Leandro
Ferretti presidente del CONI, la speciale commissione composta da Paolo Graziani, Italo Foschi e Giovanni Mauro, presidente dell’Associazione Italiana Arbitri, redasse un documento che venne pubblicato ed approvato dal CONI il 2 agosto del 1926: la cosiddetta “Carta di Viareggio”, che rivoluzionò in maniera sostanziale il calcio italiano, fino ad allora formalmente sport dilettantesco. Con quel documento, per iniziare, si riorganizzò la classe arbitrale, si approvò il professionismo e si cercò di disciplinare il calciomercato.

In una sala del municipio di Viareggio nell’estate del 1926 i tre esperti nominati dalla presidenza del Coni per riorganizzare la FIGC, dopo una stagione di scandali e veleni senza precedenti: Foschi, Graziani e Mauro cambiarono per sempre il volto del calcio italiano, rivoluzionandolo.

Venne inoltre ristrutturata la FIGC il cui presidente era Leandro Arpinati, vicesegretario del Partito Nazionale Fascista, e si stabilì di procedere all’organizzazione di un vero e proprio campionato nazionale. Attraverso la “Carta di Viareggio” si dispose fu la chiusura delle frontiere, ispirata dalle idee nazionalistiche propugnate dal fascismo questa decisione colpì duramente i club, che all’epoca contavano più di ottanta calciatori provenienti dall’estero, per lo più da quella Scuola Danubiana che vedeva in austriaci ed ungheresi gli esponenti più illustri, e non piacque ai proprietari più facoltosi di quelle squadre già allora disposte ad effettuare investimenti importanti pur di sopravanzare i propri rivali. Ecco quindi che proprio in risposta all’autarchizzazione del calcio italiano vennero “inventati” gli oriundi. A convincere  Benito Mussolini a riconoscere la possibilità di tesserare calciatori figli della “grande Italia al di là degli Oceani” fu Edoardo Agnelli, che di fatto chiese la “grazia” per i figli dei tanti emigrati all’estero nel corso dei decenni precedenti. Così subito dopo che si era arrivati ad annullare il contingente straniero in terra d’Italia, come previsto dalla “Carta di Viareggio”, ecco riaprirsi uno spiraglio nelle frontiere del calcio italiano: nel 1929 furono subito undici gli “stranieri” – ma d’origine nostrana – cui fu permesso di venire a giocare nel Belpaese. Fatta la legge trovato l’inganno, nella migliore tradizione italica.

La Nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo era fortissima e con gli “oriundi” praticamente imbattibile: Campione del Mondo nel 1934 in casa e nel 1938 in Francia, vincitrice dell’Olimpiade nel 1936 in Germania e della Coppa Internazionale (il primo trofeo continentale per nazionali) nel 1930 e nel 1935, dominando letteralmente gli anni Trenta.

La ristrutturazione su scala nazionale dei campionati non poteva avvenire in molte realtà locali sulla base delle società esistenti, e non sarà priva di conseguenze, specialmente nelle città del Sud dove vi era una pletora di società di modeste dimensioni e seppure molto amate insignificanti dal punto di vista tecnico. In particolare i maggiori nuclei urbani del Centro-Sud, non esprimevano una singola società che potesse neanche lontanamente competere con i grandi club del Nord. In Toscana ad esempio il calcio si era sviluppato soprattutto lungo la costa a Livorno e Pisa, mentre il capoluogo era sportivamente in ombra, e così pure grandi città come Napoli, Taranto e Bari. Anche nella Roma tanto cara al regime dall’inizio del secolo si era formata una gran quantità di squadre, ma le uniche in grado di imporsi erano la Lazio, l’Alba e la Fortitudo, capaci di vincere in varie occasioni il campionato meridionale ma troppo lontanate dalle squadre del Nord per poterle anche solo impensierire. Quindi per favorire la nascita del campionato nazionale organizzato sulla base di un girone unico, appunto detto all’italiana, dove ogni squadra avrebbe incontrato tutte le altre in casa propria e al loro domicilio allo scopo di determinare la più forte di tutte, si diede avvio a una consistente serie di fusioni fra società della stessa città e nacquero in quegli anni la Fiorentina, il Napoli, la Dominante, che poi si chiamerà Liguria a Genova, il Bari e il Taranto in Puglia, la Fiumana nella città di Fiume, l’Ambrosiana dalla fusione fra l’Internazionale e l’Unione Sportiva a Milano e la Roma.

Italo Foschi fu il principale artefice della fondazione della Roma nel 1927, sodalizio del quale sarà il primo presidente, nato il 7 marzo 1884 a Corropoli, in provincia di Teramo, fu federale fascista dell’Urbe dal 1923, e si occupò poi di riorganizzare le attività sportive in Italia, essendo uno degli estensori della Carta di Viareggio.

Il neonato sodalizio capitolino era il risultato della fusione concordata dai dirigenti delle tre società calcistiche che raggiunsero l’intesa: il comm. Italo Foschi, presidente della Fortitudo Pro Roma e promotore della fusione, l’on. Ulisse Igliori, protagonista dell’impresa di Fiume e della Marcia su Roma, squadrista, poi imprenditore e costruttore, presidente dell’Alba Audace, e l’avv. Vittorio Scialoja, raffinato giurista, già ministro della Giustizia e degli Esteri, presidente dell’ Accademia dei Lincei, del Consiglio Nazionale Forense e del Foot Ball Club Roman, che a loro volta avevano aggregato una dozzina di società sportive sorte dal 1900 in avanti e quindi portatrici di un pubblico appassionato e sincero. I colori scelti per caratterizzare la nuova Associazione Sportiva, che nasceva nell’estate del 1927 col nome di Roma, furono il giallo oro e il rosso pompeiano del gonfalone cittadino e il simbolo adottato non poteva che essere la lupa capitolina mentre allatta Romolo, il fondatore di Roma, e suo fratello Remo. Il primo presidente del nuovo sodalizio sarà proprio Foschi che dopo aver pilotato politicamente l’intera operazione, destinato dal regime ad altri incarichi civili lontano da Roma, lascerà lo scranno presidenziale a Renato Sacerdoti, industriale del settore alimentare, un contrabbandiere per i suoi detrattori, certamente un uomo ambizioso e, come il suo predecessore, visceralmente innamorato della Roma, e impegnato nell’impresa di allestire una squadra in grado di competere con gli squadroni del Nord del paese, per questo affidata all’allenatore inglese William Garbutt, il mister per antonomasia, uno dei più prestigiosi e competenti tecnici dell’epoca, che aveva vinto tutto, battendo ogni record, alla guida dell’invincibile Genoa della prima metà degli anni Venti, e che condurrà la neonata Roma alla vittoria della prestigiosa Coppa CONI nel 1928.

La squadra giallorossa festeggia la vittoria della Coppa CONI presentandola durante la partita di campionato Roma-Triestina, riconoscibili Giovanni Degni con la fascia in testa, Attilio Ferraris al fianco del federale Turati, “Sciabbolone” Volk, il neo presidente Renato Sacerdoti e, mano sulla coppa, lo storico massaggiatore Angelino Cerretti, in forza alla Roma per oltre quarant’anni.

acquistando Rodolfo Volk, ottimo centravanti istriano dalla Fiumana, Guido Masetti, eccellente portiere fra i migliori d’Italia dal Verona, e uno dei giocatori più forti dell’epoca, forse il migliore centrocampista del momento, Fulvio Bernardini dall’Inter, che insieme ad Attilio Ferraris IV, primo nazionale e capitano giallorosso, costituirà una coppia affiatata quanto carismatica, il presidente Sacerdoti permetterà alla Roma di contendere la vittoria finale nel campionato 1930/31 alla fortissima Juventus di Edoardo Agnelli, che avrebbe dominato la Serie A per le successive cinque stagioni: il quinquennio d’oro bianconero appunto. Tuttavia il presidente giallorosso non si era perso d’animo e incoraggiando i suoi collaboratori il 1º maggio del 1933 disse loro “Ora possiamo puntare al titolo!”, infatti dopo essere sbarcati al porto di Genova provenienti dal Sudamerica, quella stessa sera arrivarono alla stazione Termini, accolti dai tifosi romanisti in delirio Enrique Guaita e Alejandro Scopelli dall’Estudiantes de la Plata e Andrés Stagnaro dal Racing Club de Avellaneda, acclamati come fra i migliori oriundi in circolazione. Dopo qualche amichevole per integrarsi in un organico già rodato soprattutto Enrique Guaita esploderà letteralmente, conquistando tutti: il 24 settembre 1933 la Roma all’esordio in campionato vincerà a Firenze per 3-1 e l’argentino, oltre a realizzare una doppietta, manderà in visibilio il pubblico con giocate da fuoriclasse.

Il 1º novembre del 1933 al Campo Testaccio una Roma incontenibile – con il Dottore Fulvio Bernardini sugli scudi – travolge la Lazio 5-0 e ribadisce la supremazia cittadina sull’odiata rivale biancoceleste, quel giorno letteralmente cancellata dal campo.

Guaita inizia a segnare a raffica e diventa lo “spavento delle difese” mentre la Roma terminerà quel campionato solo al quinto posto, dopo il secondo e il terzo degli anni precedenti. Intanto il commissario tecnico della Nazionale, Vittorio Pozzo, arruola proprio l’oriundo Guaita fra gli azzurri, nonostante le 14 presenze già collezionate con la selezione argentina, e la scelta si rivelerà quanto mai azzeccata: il contributo di Guaita, ribattezzato Enrico, risulterà infatti determinante al successo azzurro nei Mondiali di casa del 1934, realizzando il gol decisivo in semifinale contro l’Austria – il fortissimo Wunderteam che aveva superato l’Italia vincendo nel 1932 la Coppa Internazionale – nonché il decisivo assist per Angelo Schiavio, che confezionerà poi la rete della vittoria nella finale con la Cecoslovacchia. L’argentino è ormai un idolo indiscusso del popolo romanista, terminale offensivo implacabile di una squadra che voleva diventare protagonista del calcio italiano. Nel campionato successivo al Mondiale che porterà la Roma al quarto posto, Guaita sarà capocannoniere del torneo con 28 reti in 29 partite (un record ancora imbattuto nei tornei a 16 squadre), e protagonista di imprese memorabili come i tre gol al Torino con cui la Roma espugnerà il Filadelfia o quello a Milano che stenderà l’Inter in casa, o ancora quelli rifilati al Livorno che verrà polverizzato e che gli varranno il soprannome di “Corsaro Nero”, a motivo della maglia utilizzata dalla Roma in diverse occasioni, completamente nera e agitata dalle movenze grintose e veloci dell’argentino.

Ai Mondiali l’Italia si ritrova in semifinale l’avversario più temibile, l’Austria di Hugo Meizl e Mathias Sindelar, il Wunderteam. Ecco il gol che vale la finale: il portiere austriaco Platzer ha respinto corto un tiro di Schiavio, Meazza è finito in fondo alla rete, ma Guaita anticipando Platzer si avventa sulla palla e segna.

I tifosi giallorossi erano estasiati dai colpi dell’attaccante ed eccitati dalla possibilità di competere con le rivali per la vittoria dello scudetto, e il presidente Sacerdoti ci credeva davvero al punto di rafforzare ulteriormente la squadra. All’esito della campagna acquisti estiva arriveranno in giallorosso Eraldo Monzeglio dal Bologna e Luigi Allemandi dall’Ambrosiana-Inter, i due terzini della Nazionale. La Roma è ormai pronta, e in molti la candidano come grande favorita del campionato che sta per incominciare, ma a due giorni dall’esordio nel torneo succede l’imprevedibile: i tre argentini della Roma fuggono dall’Italia. Era successo che all’esito della visita di leva – obbligatoria avendo acquisito anche la cittadinanza italiana – i tre erano stati dichiarati abili e arruolati nel corpo dei Bersaglieri. Si trattava di una prassi in realtà ma da quel momento Guaita, che aveva appena ricevuto un considerevole aumento di ingaggio, Scopelli e Stagnaro iniziarono a temere seriamente di dover partire per l’Africa nel contingente italiano diretto in Etiopia ed Eritrea e non credettero alle rassicurazioni della Roma, preferendo la fuga anche a costo di risultare come disertori e non potendo così più tornare non Italia. I calciatori romanisti, si presentarono all’ambasciata dell’Argentina e partirono in automobile per la Liguria e in treno arrivarono in Francia a Marsiglia, imbarcandosi da lì per il Sudamerica su un bastimento merci.

I giocatori della Roma durante l’allenamento, Guaita è l’unico in perfetta tenuta da gioco, con indosso la divisa sociale, forse per festeggiare il nuovo contratto appena stipulato, quando bastavano “mille lire al mese” lui dal sodalizio giallorosso ne riceveva diecimila, al mese.

Con la fuga degli argentini, la Roma venne a trovarsi in una situazione di gravissima difficoltà, stante la mancanza della prima punta e del centrocampista offensivo più forte forse del calcio italiano. Ad aggravare la situazione anche la pratica impossibilità di intervenire con qualche acquisto mirato, visto che la campagna acquisti era ormai conclusa: la soluzione andava trovata all’interno dell’organico. Luigi Barbesino non si lasciò travolgere né scoraggiare: in un primo momento l’allenatore giallorosso cercò di ovviare alla bisogna, inserendo un terzino al centro dell’attacco, per poi provare altre soluzioni anche se con scarsi risultati. Per tutto il girone di andata e nella fase iniziale del girone di ritorno la Roma fu condizionata dalla scarsa vena offensiva della squadra che tuttavia si concentrò sulla solidità della difesa dove giganteggiarono Masetti, Monzeglio e Allemandi e De Micheli. A quel punto, l’allenatore giallorosso decise di buttare nella mischia il giovanissimo Dante Di Benedetti, un attaccante del tutto privo di esperienza che tuttavia ripagò la fiducia del mister nel migliore dei modi, mettendo a segno 7 reti nelle 13 partite disputate e conferendo al reparto offensivo l’efficacia necessaria. Col suo innesto la Roma risolse d’incanto i propri problemi offensivi, e spinta dal suo pubblico, nel fortino di Campo Testaccio, inanellò una serie di risultati che la portarono a scalare imperiosamente la classifica, tanto da insidiare il primo posto del Bologna che, infine, riuscì ad avere la meglio per un solo punto vincendo lo scudetto che anche in questo caso la Roma aveva sfiorando, perdendolo beffardamente.

La Roma superstite alla fuga degli argentini riuscirà a completare una stagione iniziata nel peggiore dei modi sfiorando lo scudetto, vinto con un solo punto di vantaggio sui giallorossi dal fortissimo Bologna, “lo squadrone che tremare il mondo fa”.

Il Campo Testaccio era il tempio del tifo romanista, dove la passione vivace del popolo giallorosso esplodeva insieme al carattere vigoroso della squadra, tanto che quella leggendaria Roma testaccina è legata in modo indissolubile allo stadio dove si esibiva e imponeva alle avversarie “la legge del Testaccio”, se è vero che dalla partita inaugurale del 3 novembre 1929, vinta 2-1 contro il Brescia, all’ultima gara disputata nel quartiere il 2 giugno 1940, vinta 3-1 contro il Novara, la Roma lì disputerà in poco più di dieci anni 214 partite, fra campionato e coppa nazionale, concludendone la metà senza subire gol dagli avversari, perdendone 30, pareggiandone 34 e vincendo in ben 150 occasioni. In effetti, quando la squadra capitolina usciva dalla botola del sottopassaggio per entrare in campo, le tribune di legno vibravano di un entusiasmo talmente intenso che si diffondeva ai giocatori portandoli ad uno stato di ebrezza agonistica che rimase proverbiale, perché i calciatori sentivano una responsabilità in più: quella dell’appartenenza. Negli spogliatoi Attilio Ferraris IV, il mitico capitano, nonché primo giocatore della Roma a vestire la maglia azzurra della Nazionale italiana, lo ricordava a tutti, quando, mani sul pallone e sguardo fisso negli occhi dei compagni, recitava la formula consolidata del giuramento con la squadra, prima di guidarla in campo: «Chi s’estranea dalla lotta è un gran fijo de ‘na mignotta».

Quando i giocatori della Roma entravano in campo emergendo dalla botola l’entusiasmo esplodeva letteralmente e Campo Testaccio fremeva.

E ci sono gesta di quel tempo che assurgono a leggenda. La sfida Roma contro Juventus del 15 marzo del 1931 è uno di questi casi. Il 15 marzo è un giorno speciale per la storia di Roma antica: sono infatti le Idi di marzo, quando nel 44 a.C., Caio Giulio Cesare viene pugnalato a morte da un manipolo di senatori congiurati scatenando la guerra civile. Invece, tornando al calcio, a solo quattro anni dalla fusione che aveva portato alla nascita del sodalizio giallorosso, per la prima volta, la Roma poteva covare ambizioni tricolori, in quel 1931 le squadre più forti erano i campioni in carica dell’Ambrosiana-Inter dove giocava Giuseppe Meazza, il più forte giocatore italiano dell’epoca, capocannoniere implacabile e Balilla per antonomasia, il Bologna che aveva già conquistato due campionati negli anni precedenti e stava consolidando quel gruppo che sarebbe diventato lo squadrone che tremare il mondo fa, il Genoa e il Torino che stavano esaurendo il loro ciclo di successi degli anni venti – due campionati i rossoblu e uno i granata del trio delle meraviglie – ma erano ancora molto competitive e naturalmente la Juventus che sotto l’egida di Edoardo Agnelli aveva allestito una compagine straordinaria che saprà vincere i successivi cinque campionati inaugurando proprio quell’anno un lungo periodo di supremazia assoluta della squadra bianconera, ossatura della Nazionale italiana vincitrice due volte della Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 e dell’Olimpiade nel 1936, sotto la guida di Vittorio Pozzo.

È il 15 marzo 1931 al Campo Testaccio juventini e romanisti fraternizzano prima dell’inizio della gara, che la Roma per la prima volta riuscirà a vincere contro la Juventus, travolgendo letteralmente la squadra bianconera.

C’è grande attesa nella Capitale per un evento mai vissuto prima, lo si attende “cor core acceso”. Non solo è una sfida d’alta classifica, la Juventus infatti si presenta nella Capitale all’incontro valevole per la ventiduesima giornata con 5 punti di vantaggio sulle inseguitrici Roma e Bologna, è qualcosa di più: la Roma infatti non era mai riuscita a vincere contro la Juventus, è una possibilità di riscatto contro la supremazia del Nord nei confronti del resto del paese, è la sfida fra l’energia popolana della giovane squadra romanista composta quasi esclusivamente da romani e l’aristocratica rivale per eccellenza, la squadra più facoltosa e ambiziosa, espressione dell’antica capitale sabauda, contro la nuova capitale d’Italia. Per l’occasione l’allenatore dei giallorossi, l’inglese Burgess, cultore di un calcio dinamico e pragmatico, studiò una mossa per arginare l’ala sinistra bianconera Mumo Orsi, il più temibile degli avversari, spostando nella posizione di mediano laterale destro il capitano giallorosso Tilio Ferraris IV che in linea con il suo carattere spavaldo si impegnò solennemente coi tifosi: “Domani Orsi nun deve beccà palla.” E i tifosi puntuali accorsero riempiendo come sempre al Campo Testaccio, 25 000 presenza si dice, e un paio di migliaia di appassionati sul Monte dei Cocci crearono una cornice di pubblico mai vista prima, in un’atmosfera d’attesa quasi morbosa: sventolavano fazzoletti, spiccavano ovunque macchie sgargianti di giallorosso, e scintille di elettricità si sprigionavano da ogni parte, mentre la folla continuava ad affluire compatta al Testaccio. La Juventus schierava Combi, Rosetta, Caligaris, Barale, Varglien, Vollono, Munerati, Cesarini, Vecchina, Ferrari, Orsi e la Roma rispondeva con Masetti, De Micheli, Bodini, Ferraris, Bernardini, D’Aquino, Costantino, Fasanelli, Volk, Lombardo e Chini.

Gianpiero Combi in uscita acrobatica anticipa il romanista Rodolfo Volk, lo Sciabbolone che tuttavia riuscirà a a scardinare quella che è ritenuta tuttora dalla stampa specializzata la miglior linea difensiva di tutti i tempi espressa nel calcio italiano nonché una delle migliori nella storia della disciplina, formata oltre al portiere bianconero, da Virginio Rosetta e Umberto Caligaris.

Ed ecco che la partita è da poco iniziata, ma sospinta da un tifo immenso la Roma passa subito in vantaggio, già al 6’ infatti quando Ferraris IV allunga al fiumano Volk, segue il passaggio di quest’ultimo a Lombardo che lascia partire una sassata e palla in rete! La Juventus tenta una reazione ma il punteggio rimane invariato sull’1-0 sino alla fine del primo tempo. Alla ripresa delle ostilità è ancora la Roma ad andare in rete al 50’: Costantino salta Caligaris e centra rapidissimo a Volk, il primo grande attaccante della storia della Roma, ribattezzato Sciabbolone per i suoi tiri potentissimi, che nella circostanza infila l’angolo alto con un colpo “de testa da fa ‘ncantà”, e così il risultato diventa 2-0, mentre Testaccio esplode in una gioia mai vista prima, del resto con la Juventus i giallorossi non avevano vinto mai, bensì perso in quattro occasioni e pareggiato una volta. I bianconeri non ci stanno e la partita, giocata senza risparmio di colpi duri, s’incattivisce ulteriormente. Cesarini si scontra con Fasanelli e il capitano Ferraris IV si butta nella mischia per difendere il compagno ma viene sgambettato e finisce a terra, cercando poi un contatto non proprio amichevole con Cesarini e così l’arbitro per non sbagliare li espelle entrambi. Al 62’ Caligaris intercetta con le mani un pallone destinato in rete, è rigore e si incarica della battuta Fulvio Bernardini che senza esitazioni tira e fa 3-0. A questo punto il capitano Ferraris IV, che non era rientrato negli spogliatoi ma era rimasto semi-nascosto accomodandosi sulle scale dentro la “buca” dell’ingresso al campo, perché voleva incoraggiare i compagni, facendo capolino, si liberò di coloro che cercavano di trattenerlo per entrare in campo a baciare “Furvio nostro” Bernardini, due icone del calcio giallorosso. La Roma è in trance agonistica mentre la Juventus è alle corde, con un guizzo al 79’ Fasanelli sfrutta un errato retropassaggio della difesa bianconera e insacca agevolmente per il 4-0 mentre all’87’ arriva il definitivo 5-0, in seguito ad un’azione travolgente del duo De Micheli e Costantino, con cross a Bernardini che insacca perentorio: “Cari professori appatentati sete belli e liquidati perché Roma ce sa fa”.

Gli spogliatoi sotterranei in origine erano rivestiti in legno e dotati di ogni comfort: docce, gabinetti e riscaldamento. Da quei locali partiva un tunnel, sorta di sottopassaggio coperto, che faceva sbucare i calciatori direttamente sul bordo del campo di gioco attraverso una scalinata e una botola protetta da un coperchio di assi di legno.

Quel successo avvicinò i giallorossi a soli tre punti dalla Juventus capolista, che quel campionato lo vincerà comunque, in ragione di qualche passaggio a vuoto degli inseguitori dovuto anche ai provvedimenti disciplinari che indebolirono la Roma, squalificandone diversi giocatori, dopo un infuocato derby di maggio pareggiato 2-2 contro la Lazio e terminato in rissa a causa degli schiaffi che volarono fra il difensore romanista De Micheli e niente meno che il presidente della società biancoceleste, il generale Vaccaro. Tuttavia quella goleada inflitta alla Juventus a corredo della prima vittoria contro i bianconeri, ispirò il regista romano Mario Bonnard, tanto è vero che l’anno successivo nel 1932 uscirà nelle sale cinematografiche “Cinque a zero” la prima pellicola cinematografica italiana a parlare di calcio. Il cinema e il calcio intrattengono rapporti a far data da un film inglese del 1911, “Harry the Footballer”, un cortometraggio muto diretto da Lewin Fitzhamon. Quella fu la prima opera di finzione che si conosca mai realizzata sul calcio e fu di fatto la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Tutt’altro che memorabile, verosimilmente. Una stella del calcio è rapita dalla squadra avversaria, finché viene liberato dalla sua ragazza, appena in tempo per giocare una partita e segnare il gol della vittoria. Distribuito dalla Hepworth, il film uscì nelle sale britanniche nell’aprile del 1911, e sappiamo che venne distrutto nel 1924 dallo stesso produttore, Cecil M. Hepworth, che trovandosi in gravi difficoltà finanziarie giunse a tanto per poter recuperare il nitrato d’argento della pellicola. “Cinque a zero” invece è una commedia di circa 70 minuti che racconta del presidente di una squadra di calcio, interpretato da Angelo Musco, all’epoca attore di gran successo, preoccupato perché il capitano della sua squadra è distratto, nella pellicola l’attore Osvaldo Valenti, uno dei protagonisti della cinematografia italiana del ventennio fascista, perché innamorato di una cantante del varietà, interpretata da Milly, pseudonimo di Carolina Mignone, all’epoca conosciuta soubrette d’avanspettacolo. Naturalmente tutto si riconcilierà in un classico lieto fine, addirittura con la conversione della moglie del presidente che si appassionerà al calcio, mentre la squadra del marito trionferà con un largo 5-0, per l’appunto.

Un articolo dell’epoca con la locandina del film.

Il film fu girato negli stabilimenti della Caesar Film di Roma ed memorabile anche perché alle riprese parteciparono Attilio Ferraris IV, Fulvio Bernardini, Arturo Chini, Bruno Dugoni, Fernando Eusebio, Casare Augusto Fasanelli, Guido Masetti, Attilio Mattei e Rodolfo Volk, impersonando se stessi. Purtroppo questo documento è introvabile dal momento che sono andate distrutte le poche copie conservate, ed è quindi praticamente invisibile. Bonnard, però, non fu l’unico a essere folgorato da quella squadra, capace di tante imprese. Infatti il paroliere Antonio Castellucci le dedicò una canzone, anzi, la “Canzona”, con la “a”, riadattando il tango “Guitarrita” prendendone le note e plasmandole con i nomi dei calciatori romanisti scesi in campo quel 15 marzo. Nasce così all’epoca “La Canzona di Testaccio” che non è frutto di quella creatività collettiva che risiede nelle curve e che tanti capolavori ha regalato alla cultura sportiva italiana, ma che grazie ad una felice intuizione ed alla determinazione di Sandro Ciotti. che consente alle giovani generazioni di conoscere i miti di una Roma bellissima, spesso presa a modello di tenacia e gagliardia, inno arrivato sino a noi.

“La Roma racconta”, pubblicato fra la fine del 1979 e l’inizio del 1980 dalla De Sisti Editore, raccoglie 520 fotografie e 2 Lp – 33 giri, contenenti 109 testimonianze sonore, assemblate con interviste espressamente realizzate da Sandro Ciotti o con fonti d’archivio.

Infatti l’attuale traccia musicale facilmente rintracciabile su internet non è quella originale ma una versione registrata da Vittorio Lombardi per il popolare radiocronista e giornalista sportivo che l’aveva sentita canticchiare da Aldo Donati, centrocampista di quella Roma testaccina, mentre raccoglieva la sua testimonianza per il documentario sonoro e fotografico del 1980 intitolato “La Roma racconta”. All’interno Sandro Ciotti voleva inserire una rivisitazione della “Canzona di Testaccio” ma si rese conto che non ne esisteva nessuna registrazione. Si rivolse quindi al romano Vittorio Lombardi, un musicista che si era affermato negli anni Sessanta, e che diede la sua disponibilità. La fretta era tanta che Ciotti non volle prenotare uno studio di registrazione, ma raggiunse Lombardi al “Capriccio” una traversa di Via Veneto la sera stessa per incidere il brano direttamente al registratore, ed è proprio il caratteristico fruscio a dare al brano quell’effetto che lo fa sembrare originale. Grazie alla felice intuizione di Ciotti, quel riadattamento di Castellucci è diventato una delle più esaltanti colonne sonore della curva romanista.

Nel 1981, prima di un Roma-Juventus, viene esposto dalla Sud uno striscione a tutta curva: “Roma, Testaccio ti guarda”. E non dovrebbero occorrere altre motivazioni, per gettare il cuore oltre l’ostacolo.

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La paura fa Settanta. Il piombo dilania l’Italia, fra stragi e terrore, mentre la Serie A è più contesa che mai e arriva la moviola.

Gli anni Ottanta sono stati un’epoca considerata superficiale a motivo di uno stile di vita frivolo, teso al raggiungimento della felicità individuale e dell’affermazione personale. L’esatto opposto del decennio precedente – gli anni Settanta – ricordato come un periodo di grande impegno politico e, sebbene attraversato dalla degenerazione dell’ideologia e dal terrorismo, prolifico di pensieri desiderosi di cambiare il destino di un’intera generazione. In particolare, il passaggio dai Settanta agli Ottanta comportò in Italia una cesura brutale, a cui ci si riferisce definendola riflusso, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro, ai Sessanta. Quelli furono gli anni del miracolo economico, quando si propose per la prima volta, dal punto di vista politico, il superamento del centrismo, attraverso l’allora inedita alleanza tra il partito della Democrazia cristiana (Dc) e il Partito socialista (Psi). La novità, a quel tempo rivoluzionaria e dalla portata storica, fu permessa dalla somma di una serie di fattori esterni. Intanto era mutato il quadro internazionale, e in quel momento se non una distensione nei rapporti tra l’Occidente e il blocco sovietico c’era un dialogo. Infatti dopo le lunghe lotte per il potere seguite alla morte di Iosif Stalin, Nikita Chruščëv divenne il capo dell’Unione Sovietica e fu il primo segretario del Partito comunista dell’URSS a denunciare pubblicamente i crimini staliniani, dando avvio alla cosiddetta destalinizzazione, e il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti, con cui intese stabilire dal 1958 un rapporto di pacifica, sebbene competitiva, coesistenza. In quello stesso anno al soglio pontificio era salito Giovanni XXIII, il papa buono, che aveva ammorbidito la posizione della Chiesa e quindi dei cattolici impegnati nella politica nostrana, nei confronti dei socialisti, i quali a loro volta erano andati acquisendo sempre più autonomia allontanandosi dal Partito comunista italiano (Pci), condannandolo quindi irrimediabilmente all’opposizione parlamentare. Intanto anche negli Stati Uniti gli americani avevano scelto di voltare pagina: nel 1961 era stato eletto presidente John Fitzgerald Kennedy, brillante e cattolico, il giovane leader chiese alle nazioni del mondo di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie e la guerra.

Il premier democristiano Aldo Moro presenta al parlamento italiano il primo governo di centro-sinistra della storia repubblicana.1

Fu quindi con il primo governo del democristiano Aldo Moro che si realizzò nel 1963 in Italia un esecutivo di centro-sinistra generando nell’opinione pubblica, a torto o a ragione, l’auspicio di una stagione nuova di grandi riforme in grado di accompagnare i progressi realizzati in campo economico negli anni del boom. Non sarà così, purtroppo. Infatti, mentre l’Inter, la Grande Inter presieduta dal petroliere milanese Angelo Moratti, guidata in panchina dall’allenatore argentino Helenio Herrera, detto il Mago, si affermava in Italia e in Europa come una delle migliori squadre di sempre, laureandosi fra il 1963 e il 1966 per tre volte campione d’Italia e per due consecutive campione d’Europa, vincendo la Coppa dei Campioni, contro gli spagnoli del Real Madrid e i portoghesi del Benfica, e campione del Mondo, vincendo la Coppa Intercontinentale, per due volte contro gli argentini dell’Independiente de Avellaneda, il governo del Belpaese stentava, offrendo risultati modesti o almeno percepiti come tali. Furono create grandi aziende pubbliche, ma queste risultarono poco produttive, molte delle riforme annunciate non furono realizzate o furono realizzate ma delusero le aspettative di quella parte dell’opinione pubblica che le reclamava a gran voce. Così fu ad esempio per la tanto attesa riforma della scuola, e proprio lì ebbe inizio e si radicò negli anni successivi il cosìddetto Sessantotto: la protesta dei giovani contro una società percepita come classista, profondamente ingiusta e reazionaria, sia nella mentalità che nel costume. Gli studenti sommarono le loro mobilitazioni a quelle operaie, che peraltro ottennero migliori condizioni salariali e lavorative, quale anticipazione di quanto sarebbe avvenuto nel 1970 con l’introduzione dello Statuto dei lavoratori che riconosceva il diritto di assemblea, di organizzazione sindacale e di difesa in caso di ingiusto licenziamento, mentre le contestazioni sessantottine ottenevano la liberalizzazione dell’accesso all’università per tutti i diplomati, eliminando nel 1969 la così detta riforma Gentile che subordinava quale condizione imprescindibile per iscriversi agli studi superiori il possesso della maturità classica.

La leggendaria Grande Inter, indiscutibilmente la squadra più forte del mondo a metà degli anni Sessanta.2

L’espressione anni di piombo richiama efficacemente l’atmosfera plumbea che avvolgeva le città italiane nella seconda metà degli anni Settanta. Diventerà familiare, purtroppo, e tuttavia non è autoctona, derivando invece dalla traduzione dell’omonimo film, premiato a Venezia nel 1981 con il prestigioso Leone d’oro: Die bleierne Zeit (letteralmente, appunto, “Gli anni di piombo”), pellicola della regista e sceneggiatrice tedesca Margharete Von Trotta, ispirata alla vicenda storica delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin. Gudrun, in particolare, fu una terrorista tedesca, cofondatrice insieme ad Andreas Baader, Horst Mahler e Ulrike Meinhof del gruppo armato di estrema sinistra Rote Armee Fraktion (RAF), responsabile di numerose operazioni terroristiche condotte nella Germania occidentale. In particolare, nel 1977 si arrivò ad una vera e propria crisi nazionale conosciuta con il nome Deutscher Herbst (“Autunno tedesco”, appunto), espressione mutuata anche in questo caso da una pellicola cinematografica: Deutschland im Herbst (“Germania in autunno”). Un film collettivo prodotto nel 1978 per iniziativa di una cooperativa di autori tedeschi, che intendevano così esprimere la loro preoccupazione per le restrizioni degli spazi di libertà e di confronto culturale, conseguenti all’emergenza terrorismo, con la pretesa di definire l’atmosfera politica di allora. La RAF, conosciuta dal pubblico semplicemente come la banda Baader-Meinhof, uccise comunque 33 persone, principalmente tra figure di spicco in campo politico ed economico. Un’azione in particolare fece scalpore: il sequestro, dopo un sanguinoso agguato terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta, di Hanns-Martin Schleyer, un alto ufficiale delle Schutzstaffel (SS) ai tempi nazismo, riciclatosi nel dopoguerra come autorevole esponente del Christlich Demokratische Union Deutschlands (CDU), il partito politico di orientamento democratico-cristiano e conservatore che attualmente esprime la leadership di Angela Merkel. Schleyer all’epoca del sequestro era l’onnipotente presidente della Bundesverband der Deutschen Industrie (BDI), la confederazione che raggruppa tutte le federazioni di settore dell’industria tedesca, omologa della Confindustria italiana. Trascorsi quarantatré giorni di prigionia fu ucciso e fatto trovare cadavere il 18 ottobre 1977 in Francia, nel bagagliaio di un’auto, poco oltre il confine tedesco, fu il tragico epilogo di un’azione che ha molto in comune con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, che sarebbe avvenuta solo pochi mesi più tardi in Italia. Anche se più conosciuta, e quasi leggendaria nell’immaginario collettivo per le sue azioni di guerriglia urbana, la RAF condusse meno attacchi terroristici rispetto alle Revolutionäre Zellen (RZ), una formazione ben più attiva e spietata, responsabile di 296 attentati fra il 1973 e il 1995.

Una scena ritratta nel manifesto promozionale del film tedesco Die bleierne Zeit di Margharete Von Trotta.3

In quegli anni Settanta, per somma di risultati, continuità di rendimento e spettacolarità, il Borussia Mönchengladbach è stato forse la squadra di calcio più ammirata nell’arco del decennio, anche più del Bayern di Monaco di Baviera, per tre stagioni vincitore della Coppa dei Campioni. All’epoca queste due formidabili squadre tedesche imperversavano in patria e in Europa, e solo dopo di loro arriveranno il Liverpool di Bob Paisley e il Nottingham Forest di Brian Clough, che vinceranno nei successivi cinque anni la Coppa dei Campioni, tre volte i primi, due volte i secondi. Bisogna fare una premessa peraltro, per spiegare l’ammirazione manifestata verso il sodalizio renano. Infatti anche se anche il Bayern all’epoca sorprese era pur sempre il club espressione di una grande realtà economica e sociale prima che sportiva: niente meno che Monaco di Baviera. Diversamente prima che i Fohlen-Elf (“I puledri”) arrivassero al successo, la gente non sapeva neppure dove fosse la città di Mönchengladbach, tanto che molti all’estero pensavano che il luogo fosse Borussia! Eppure quella squadra di giovani fuoriclasse che annoverava tra gli altri campioni del calibro di Jupp Heynckes, Horst Köppel, Günter Netzer, Uli Stielike, Berti Vogts e Herbert Wimmer, allestita e guidata dal carismatico tecnico Hennes Weisweiler, tra il 1970 e l’autunno caldo del 1977 vincerà ben cinque volte la Bundesliga, il massimo livello del campionato tedesco, una Coppa di Germania e due volte la Coppa UEFA, perdendo invece solo in finale la Coppa dei Campioni, proprio contro gli inglesi del Liverpool, e la Coppa Intercontinentale, contro gli argentini del Boca Juniors, giocata al posto dei Reds inglesi, mentre, sempre nel 1977, uno dei suoi giocatori più rappresentativi, Allan Simonsen, vincerà l’ambito Pallone d’oro creato dalla prestigiosa rivista sportiva France Football nel 1956 e attribuito – dopo che l’anno prima era toccato a Franz Beckenbauer, uno dei più grandi giocatori della storia del calcio, capitano del Bayern Monaco e della Nazionale tedesca, campione del mondo nel 1974 – all’attaccante danese, l’unico calciatore ad aver segnato nelle finali delle tre maggiori competizioni europee, che all’epoca erano la Coppa dei Campioni, la Coppa UEFA e la Coppa delle Coppe.

I giocatori del Borussia festeggiano negli spogliatoi con la Deutsche Meisterschale, il trofeo che viene assegnato alla squadra vincitrice della Bundesliga.4

Sul finire degli anni Sessanta il miglioramento del tenore di vita rese per molti più difficile percepire il peggioramento della situazione economica, che faceva da sfondo alle proteste giovanili del Sessantotto. Intanto gli italiani impararono cosa fosse la moviola che avrebbe cambiato per sempre la loro domenica sera e in conseguenza di ciò il loro lunedì mattina. Moviola era in verità il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati cinematografici allora scopo ad esempio di consentire ai montatori di studiare le singole inquadrature, permettendogli di scegliere i punti di taglio più adatti. Il pomeriggio del 22 ottobre 1967 a San Siro si giocava la stracittadina tra i nerazzurri dell’Inter e i rossoneri del Milan, colloquialmente detta derby della Madonnina, dalla caratteristica statua della Madonna Assunta posta in cima al Duomo di Milano. L’Inter era in vantaggio per 1-0 fino a quando Gianni Rivera con un tiro dei suoi colpiva la traversa nerazzurra e la palla rimbalzava in campo vicino alla linea bianca, in prossimità della quale l’interista Tarcisio Burgnich in rovesciata la allontanava. L’arbitro, immediatamente assediato dai giocatori rossoneri, si consulta a a lungo col guardalinee, dopodiché concedeva il gol del pareggio al Milan. Quella stessa sera alla Domenica Sportiva il conduttore, l’indimenticabile Enzo Tortora, annunciava la straordinaria novità: il giornalista della Rai, Carlo Sassi, era in grado di mostrare un’immagine inequivocabile da cui risultava che la palla in realtà non aveva mai superato la linea di porta. Il primo errore arbitrale era appena stato inconfutabilmente dimostrato. L’episodio sportivo può essere considerato di secondaria importanza, perché a fine stagione quel Milan vincerà il suo nono scudetto e non in virtù di quell’ingiusto vantaggio. Il Diavolo infatti era una squadra fortissima e quel campionato nella stagione 1967/68 lo stravincerà con un ampio margine sulla Fiorentina, che tuttavia si imporrà l’anno successivo, quando lo scudetto andrà in riva all’Arno, mentre i rossoneri allenati da Nereo Rocco e guidati in campo da Gianni Rivera trionferanno nell’edizione 1968/69 della Coppa dei Campioni, disintegrando per 4-1 gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam, e pure nella Coppa Intercontinentale, dopo aver fatto a botte, contro gli argentini dell’Estudiantes, campioni del Sudamerica. La violenza era nell’aria, si respirava odio ovunque: nel 1968 erano stati assassinati Martin Luter King e Bob Kennedy ed era stata soffocata la cosiddetta Primavera di Praga quando Alexander Dubček diventato segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia aveva intrapreso una coraggiosa stagione di riforme, terminata quando un corpo di spedizione militare dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia invase il paese.

Il capitano degli azzurri Giacinto Facchetti con il trofeo appena conquistato a Roma, l’Italia è campione d’Europa nel 1968.5

Una soddisfazione e un po’ di gioia per gli sportivi italiani arrivò proprio nel 1968 quando la Nazionale, dopo la delusione patita ai Mondiali inglesi nel 1966, la disfatta e l’umiliazione per mano della famigerata Corea bruciava ancora, riuscirà a vincere per la prima volta gli Europei di calcio. Lo farà proprio in casa, in finale allo stadio Olimpico, battendo la Jugoslavia per 2-0, davanti a 70mila tifosi emozionati, e mentre la contestazione giovanile faceva cadere in disuso parole come patria e nazione, con quella vittoria il calcio contribuì a far sì che gli italiani riscoprissero l’orgoglio di sventolare il tricolore. Si trattò solo di una parentesi di festa in un difficile periodo di recessione economica, mentre all’orizzonte si profilavano anni bui, ma con il trionfo azzurro nacque l’uso dei caroselli per le strade italiane: un entusiasmo condiviso che univa migliaia di tifosi, trascinati dall’impresa dei ragazzi azzurri di Valcareggi. Nel novembre dello stesso anno nasceva a Milano il primo gruppo ultras italiano, la Fossa dei Leoni, con canti e slogan direttamente ispirati a quelli dei cortei politici. Calcio e politica extraparlamentare intrecciavano così parte delle loro esperienze, e dopo qualche anno compariranno gli striscioni delle Brigate Rossonere e delle Boys-San, ovvero Boys-Squadre d’Azione Nerazzurre (l’acronimo SAN si riferisce verosimilmente alle Squadre d’azione di Benito Mussolini), del Commando Ultrà Curva Sud (CUCS) a Roma e del Nucleo Armato Bianconero (NAB), forse l’unico gruppo juventino, un pubblico tradizionalmente noto per l’anticampanilismo, paragonabile agli hooligan. La moviola intanto diventava un vero e proprio fenomeno di costume, accrescendo la popolarità dei giornalisti Carlo Sassi e Bruno Pizzul, i quali si alternavano nella conduzione dell’apposita rubrica che dalla stagione di campionato 1969/70 prese un posto fisso all’interno della Domenica Sportiva, diventando uno dei momenti più attesi della televisione italiana, seguito anche da venti milioni di telespettatori. Molti sono gli episodi che ne hanno segnato la storia, memorabile quando la sera del 20 febbraio 1972, l’arbitro Concetto Lo Bello, sempre inflessibile, duro e giusto, messo di fronte alle immagini del calcio di rigore da lui negato al Milan nei confronti della Juventus, sarà costretto ad ammettere il clamoroso errore. Il clima generale in quel fatidico 1969 al quale conviene tornare è denso di contestazioni e contrasti: è il cosiddetto autunno caldo per antonomasia e l’inverno che seguirà purtroppo non sarà da meno. Infatti, il 12 dicembre del 1969 sarà una giornata terrificante: in poco meno di un’ora in Italia si verificheranno ben 5 attentati: tre a Roma e due a Milano. Il più grave sarà la strage di Piazza Fontana, dove una bomba, esplosa nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocherà 17 morti e 88 feriti.

Gianni Rivera premiato con il Pallone d’oro: il fuoriclasse rossonero guidava un Milan capace di un ciclo straordinario di vittorie e la Nazionale italiana, fresca Campione d’Europa.6

La strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura è considerata il primo e più dirompente atto terroristico dal dopoguerra nonché da alcuni ritenuto l’inizio del periodo passato alla storia in Italia come degli anni di piombo nonché della strategia della tensione, che nel corso degli anni strazierà il Paese: a Brescia il 28 maggio 1974 (8 morti), sul treno Italicus del 4 agosto dello stesso anno (12 morti) e a Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti), alzando il livello dello scontro. In un primo momento di questi attentati verranno accusati i nascenti gruppi del terrorismo rosso che si riveleranno invece estranei, mentre emergeranno indizi di collusioni occulte di settori deviati dello Stato, successivamente confermati: si comincerà a parlare allora di stragismo di Stato. All’inizio del decennio dei Settanta, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, Junio Valerio Borghese, soprannominato il principe nero, tentava un colpo di stato – il cosiddetto Golpe dell’Immacolata – salvo annullarlo in fase di esecuzione e riparare in Spagna per evitare l’arresto. In quei tristi mesi invernali del 1970 terminava anche la intanto era terminata la splendida parabola del Cagliari scudettato che, se dopo aver schiantato l’Inter a Milano e aver preso la testa del campionato, candidandosi alla vittoria finale manifestando una superiorità indiscussa su tutti i rivali, durante la partita tra Italia e Austria giocata a Vienna il 31 ottobre, a causa di un grave infortunio che ne comprometterà la carriera, perderà il suo impareggiabile fuoriclasse. Gigi Riva era stato il principale artefice dei successi del Cagliari, che senza di lui non riuscirà a difendere il titolo conquistato l’anno prima quando il 12 aprile 1969 chiuse la miglior stagione della sua storia festeggiando il primo e fin qui unico scudetto vinto. Si trattò di una sorpresa, a soli 6 anni dall’approdo in massima serie i rossoblù guidati ai vertici del calcio italiano da Manlio Scopigno, detto il filosofo, con il secondo posto nel 1968/69 e soprattutto con lo storico scudetto del 1969/70, il capolavoro della sua carriera, portavano per la prima volta il titolo di campione d’Italia nel Mezzogiorno, lontano dalle grandi città del Nord e del Centro, conquistando una vittoria ricca di significati per l’intera Sardegna, isola distante – ritenuta patria di pastori e banditi, come ricordava Gigi Riva – praticamente sconosciuta fino a quel momento al resto degli italiani.

Il lombardo Gigi Riva, soprannominato rombo di tuono, con la maglia del Cagliari scudettato, considerato a tutt’oggi il più forte attaccante italiano di sempre.7

Nel quadro della strategia della tensione la società italiana era sempre più divisa e polarizzata in gruppi che facevano politica extraparlamentare e non rifiutavano la violenza, passando dalla clandestinità alla lotta armata. A sinistra erano nate organizzazioni come i Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), i Nuclei Armati Proletari  (NAP), Prima Linea (PL) e le Brigate Rosse (BR), mentre a destra militavano Avanguardia Nazionale, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), Ordine Nero, Terza Posizione e Ordine Nuovo. Si diffuse un clima di insicurezza e pericolo, perché non furono compiuti soltanto attentati clamorosi o stragi dai loro esecutori, ma uno stillicidio continuo di attacchi contro obiettivi minimi, singoli cittadini e forze dell’ordine, in esecuzione quotidiana di disegni talvolta ignoti e misteriosi. In piazza i manifestanti si presentavano ovunque a volto coperto e spesso armati di spranghe, chiavi inglesi e bottiglie molotov e la violenza poteva scoppiare in qualsiasi istante e ovunque. In quel contesto, iniziarono ad agire le BR compiendo atti di guerriglia urbana e terrorismo contro persone ritenute rappresentanti del potere politico, economico e sociale, operando tra il 1970 e il 1974 prevalentemente attraverso piccoli gruppi all’interno delle fabbriche in modo spesso clandestino, con il compito di fare propaganda in particolare nelle aziende soggette a piani di ristrutturazione o nelle quali il rapporto dei lavoratori con la dirigenza e la proprietà fosse particolarmente conflittuale. I militanti delle BR, oltre a diffondere le proprie idee, presero di mira quadri e dirigenti aziendali, incendiandone le auto o realizzando brevi sequestri, della durata di qualche ora o di pochi giorni, allo scopo di intimidire il rapito e la dirigenza dell’azienda e dimostrare la forza e la spregiudicatezza dell’organizzazione: il primo si realizzò il 3 marzo 1972 a Milano, Idalgo Macchiarini, un dirigente industriale, prelevato di fronte allo stabilimento, fotografato e rilasciato dopo qualche giorno con un cartello appeso al collo dove c’era scritto: “Colpiscine uno per educarne cento!” Sempre in quell’anno, il 5 settembre 1972 a Monaco di Baviera, un commando dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irruppe negli alloggi destinati alle squadre israeliane del villaggio olimpico uccidendo subito due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica di Israele, un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti sequestrati, brutale epilogo del Massacro di Monaco di Baviera che aveva insanguinato le Olimpiadi, evento tipico della cultura umana che storicamente addirittura sospendeva ovunque le guerre e la violenza.

L’immagine diventata simbolo del massacro di Monaco di Baviera: uno degli atleti in ostaggio con un passamontagna in testa s’affaccia dal balcone dell’appartamento dove i suoi connazionali sono prigionieri.8

In Italia il 12 febbraio 1973 la colonna brigatista torinese compì il sequestro di Bruno Labate, sindacalista legato al Movimento Sociale Italiano dello stabilimento FIAT di Mirafiori, interrogandolo e poi lasciandolo incatenato alla gogna operaia davanti alla fabbrica, guadagnando adesioni e simpatizzanti in tutti gli stabilimenti nelle grandi fabbriche del Piemonte, come già era accaduto in Lombardia. In quei primi anni le BR volevano tramettere segnali di lotta concreti con azioni dimostrative e atti di forza, per conquistare consensi all’interno della classe operaia: era la cosiddetta propaganda armata. Dopo Milano e Torino le BR si allargarono, in particolare a Porto Marghera fu costituita la terza colonna, quella veneta, mentre in Liguria fu creata la colonna genovese. E uscendo dalla logica dello scontro all’interno delle fabbriche i dirigenti brigatisti desideravano incidere direttamente sul processo politico del Paese, e proprio da Genova partì la prima azione condotta contro un esponente dello Stato: il rapimento, avvenuto il 18 aprile del 1974, di Mario Sossi, un magistrato che era stato pubblico ministero in un processo a un gruppo armato genovese. Condannato a morte dalle BR con lo slogan «Sossi fascista, sei il primo della lista!» il magistrato venne poi rilasciato senza ottenere una contropartita: liberato a Milano, tornò a Genova in treno e si consegnò alla Guardia di Finanza. Invece Francesco Coco, il procuratore generale della Repubblica che non aveva voluto trattare con i brigatisti, rifiutandosi di firmare la scarcerazione dei detenuti che i terroristi chiedevano in cambio della liberazione dell’ostaggio, verrà ucciso da un commando guidato da Mario Moretti, esponente dell’ala dura del movimento, che l’arresto di Renato Curcio e Alberto Franceschini avevano catapultato ai vertici dell’organizzazione, in un agguato a Genova, l’8 giugno 1976 insieme a due uomini della scorta: il primo magistrato trucidato durante gli anni di piombo.

La più sanguinosa tra le stragi che colpirono l’Italia: quella della Stazione Centrale di Bologna.9

Intanto negli stadi la passione degli italiani per il campionato di calcio non conosceva incertezze né si attenuava. Dopo quella memorabile del Cagliari, un’altra impresa infiammò gli animi dei tifosi e catturò l’attenzione degli appassionati: quella Lazio, l’undici capitolino di Giorgio Chinaglia, soprannominato Long John, bomber inarrestabile e simbolo della squadra biancoceleste, guidata in panchina dal tecnico Tommaso Maestrelli, che al termine del campionato del 1973/74 conquisterà lo scudetto. In quello stesso mese di maggio l’Italia votava il referendum voluto promosso dalla Democrazia Cristiana e sostenuto in Parlamento dal Movimento Sociale Italiano e fuori da Comunione e Liberazione, allo scopo di abrogare la legge che permetteva il divorzio. L’esito della consultazione popolare del 12 maggio 1974 fu clamoroso segnando contro le attese la prima grande sconfitta della Democrazia Cristiana e testimoniando come la modernizzazione del Paese introdotta dal boom economico e la contestazione sessantottina dell’etica dominante avesse profondamente inciso anche in Italia sull’evoluzione di costumi e mentalità. L’Italia tuttavia verrà scossa da due tremendi appuntamenti con la devastazione e la morte, il 28 maggio la strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione, provocando la morte di 8 persone e il ferimento di altre 102, mentre il 4 agosto la strage a bordo del treno Italicus, quando morirono 12 persone e rimasero ferite altre 48 in un attentato dinamitardo presso San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, che avrebbe avuto conseguenze più gravi se l’ordigno fosse esploso nel cuore della Grande Galleria dell’Appennino che si sarebbe trasformata in una fornace, per i circa quattrocento passeggeri dell’espresso. Non successe solo a causa del recupero di tre minuti sul ritardo precedentemente accumulato alla partenza da Roma. Fu comunque un attentato orribile, la quinta carrozza del treno esplose e si incendiò a cinquanta metri dall’uscita della lunga galleria e le persone bruciarono vive, eppure questo tremendo episodio è il meno ricordato, commemorato e considerato dalla storiografia. Mentre nella tragedia, brilla l’eroismo di un giovane ferroviere di 24 anni, il forlivese Silver Sirotti, che munito di estintore, si slanciò tra le fiamme per soccorrere i viaggiatori intrappolati, non pochi si salvarono proprio grazie al suo spirito di servizio: morì eroicamente guadagnando una Medaglia d’Oro al Valor Civile.

Una testimonianza dell’epoca: la strage dell’espresso Italicus avrebbe potuto essere addirittura più drammatica, in un’Italia davvero sull’orlo baratro.10

Sempre nel 1974 si logora la formula governativa del centrismo e del centro-sinistra, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista quindi iniziarono a parlarsi: era l’alba del dialogo che Enrico Berlinguer aveva suggerito in una serie di pubbliche dichiarazioni alla fine del 1973 rivolgendosi alle forze che rappresentavano la grande maggioranza del popolo italiano. Il terrorismo nero decise di reagire all’ipotesi del compromesso storico fra democristiani e comunisti con le bombe, allo scopo di accresce disordine e panico, con l’auspicio di spingere una parte della società a chiedere un argine alla confusione, favorendo i più intraprendenti – fra questi Edgardo Sogno, con il suo progetto di golpe bianco – che si spinsero a credere di riuscire a instaurare un regime autoritario nel Paese. Quella Lazio, che nella stagione precedente aveva sfiorato il titolo da neopromossa, era figlia dei tempi che correvano, la squadra campione d’Italia era un gruppo turbolento: l’equilibrio del mister Maestrelli infatti si imponeva solo alla domenica, quando c’era da scendere in campo. In settimana invece il quartier generale di Tor di Quinto, il centro sportivo dove i biancocelesti si allenavano, era una vera e propria polveriera. Giorgio Chinaglia era indubbiamente il trascinatore della squadra, ma litigava con tutti, i giocatori si detestavano fra loro, addirittura mangiavano in mense separate e si cambiavano in spogliatoi diversi, caso unico nella storia di questo sport: da una parte la vecchia guardia guidata da Chinaglia e Pino Wilson, dall’altra i ribelli, entrati nel gruppo più recentemente, come Luciano Re Cecconi e Mario Frustalupi. Anche le partite settimanali di allenamento erano conflittuali e finivano in rissa, ogni volta si regolavano i conti in sospeso, e talvolta i calciatori laziali non riuscivano a scendere in campo alla domenica a causa degli infortuni che si procuravano in allenamento. Molti biancocelesti avevano il porto d’armi e si esercitavano al poligono, ma non si facevano scrupoli a portare le pistole in ritiro e sparare anche durante gli allenamenti o a farsi vedere armati in giro per Roma. Comunque, la dirompente ascesa sarà il preludio della fragorosa caduta di quella Lazio, che nella stagione 1974/75 non partecipò nemmeno alla Coppa dei Campioni a causa di una rissa scoppiata negli spogliatoi dell’Olimpico dopo il ritorno dei sedicesimi di finale della Coppa UEFA dell’anno precedente contro l’Ipswich Town che comportò per il club biancoceleste la squalifica dalle competizioni europee. Anche in campionato i biancocelesti non saranno all’altezza delle aspettative e non solo non riusciranno a difendere il tricolore, ma dovranno affrontare circostanze drammatiche che segneranno il declino nelle stagioni a venire: l’omicidio di Re Cecconi durante una rapina, quando il centrocampista, uno dei leader della squadra, fu ucciso da un colpo di pistola in una gioielleria di Roma e ancora oggi non si sa bene perché, la scomparsa dopo lunga malattia del mister Maestrelli oltre all’improvviso trasferimento di Chinaglia negli Stati Uniti. 

Una formazione della Lazio campione d’Italia, per la prima volta nella storia del club romano, i giocatori biancocelesti possono esibire lo scudetto sul petto.11

A partire dai primi anni Settanta una nobile decaduta era tornata competitiva: il Torino. Il presidente della società granata, Orfeo Pianelli, grazie a mirate operazioni di mercato, stava via via costruendo una squadra all’altezza dei rivali cittadini della Juventus, inavvicinabili fino a pochi anni prima, da quando la tragedia di Superga aveva cancellato il Grande Torino consegnandolo al mito. Proprio per invertire quella tendenza alla frustrazione il presidente Pianelli decise di ingaggiare il paròn Nereo Rocco che pur non vincendo nessun trofeo con il Toro nei suoi tre anni di permanenza sulla panchina della squadra piemontese, lasciò un’impronta di forza e la voglia di tornare a competere ai massimi livelli. Nell’estate del 1971 arriverà al Torino Gustavo Giagnoni, sardo di nascita e mantovano d’adozione: sarà immediatamente contagiato dall’amore per il Toro, in quei freddi inverni torinesi il mister prenderà l’abitudine di indossare una sciarpa granata e un colbacco al quale verrà dato un significato politico, che non aveva. Con lui in panchina il Toro ha una marcia in più, e in quella stagione 1971/72 tornerà addirittura a competere per lo scudetto, per la prima volta dal “dopo Superga”. A metà aprile i ragazzi granata erano in testa, davanti alla Juventus, ma la classifica finale premierà i bianconeri che saranno campioni d’Italia, con il Toro staccato di un solo punto e il rammarico di un paio di clamorosi errori arbitrali che avrebbero cambiato le sorti della sfida per il titolo in favore del sodalizio granata. A fine campionato un nuovo termine entrò nell’enciclopedia del calcio italiano: il tremendismo granata. A parere di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista: “L’espressione è perfetta per un club che magari non vince, ma è un osso durissimo per chiunque. Una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai doma, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango”. Ecco, tutto questo significa tremendismo. Giagnoni infatti aveva con la sua aria un po’ truce, la grinta e la sua personalità, aveva trasmesso alla squadra un gioco incisivo e una mentalità aggressiva, il Toro non mollava mai, e l’allenatore col colbacco entrava definitivamente nella mitologia granata in un derby del dicembre 1973: a un certo punto del match, Giagnoni non riesce più a resistere alle continue provocazioni di Franco Causio, così una volta raggiunto il giocatore juventino a bordocampo, spostando il guardalinee, lo colpisce con un cazzotto sullo zigomo e lo stende. A fine partita, l’allenatore sardo, pentito del suo gesto, teme le reazioni della stampa e una pesante squalifica, ma intanto i tifosi granata lo attendono impazienti, per portarlo in trionfo e gridare: “Questo è il Toro!”

L’inimitabile Gustavo Giagnoni sulla panchina del Toro, con il mister sardo nasce il tremendismo granata.12

Intanto alle elezioni amministrative del giugno 1975 la straordinaria avanzata in termini di preferenze del Partito Comunista fece ritenere vicinissimo il sorpasso sulla Democrazia Cristiana e provocò un terremoto nelle amministrazioni locali, dove si andavano radicando maggioranze di governo sempre più apprezzate fra socialisti e comunisti. In un anno segnato dalla fine della guerra in Vietnam, con la caduta di Saigon e relativa ritirata americana, e in cui i sindacati e gli operai parlavano di scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, sulla panchina granata arriva un innovatore: il giovane Gigi Radice. Il prussiano, così lo chiamano per gli occhi chiari, vuole uno stile di gioco votato al pressing a tutto campo, a imitazione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff e compagni, e sarà l’uomo giusto al momento giusto, nel posto giusto. Nei rituali da seguire prima delle partite c’è il consueto cinque che Radice scambia con tutti i giocatori, al momento dell’ingresso in campo, tutti tranne uno, perché il mister quando si trova davanti Pulici non gli dà la mano, ma vuole un testa contro testa col suo bomber che quando entra in campo fa esplodere la Curva Maratona in un boato impressionante. Poco dopo l’inizio di quel campionato, nella notte tra il 1º e il 2 novembre del 1975, fu ucciso in maniera brutale, percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, vicino a Roma, Pier Paolo Pasolini. Era considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo, attento osservatore dei cambiamenti della società italiana e figura a tratti controversa, per la radicalità dei suoi giudizi assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi come nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il suo rapporto con la propria omosessualità – all’epoca nemmeno tollerata in Italia – fu al centro del suo personaggio pubblico, mentre lui, innamorato della sua squadra del cuore, il Bologna, considerava i pomeriggi trascorsi a giocare a pallone i più belli della sua vita. In quella stagione del 1975/76 il Torino sarà Campione d’Italia: una redenzione attesa per ventisette anni dopo Superga, raccogliendo grazie alla leadership di Gigi Radice i frutti maturati nel corso delle stagioni precedenti, facendo convivere e valorizzando al meglio sia generosi gregari che raffinati esteti come Sala – il poeta – e Pecci, un centrocampista d’assalto come il gentleman Zaccarelli e implacabili cannonieri, come i gemelli del gol Pulici e Graziani, insieme al giaguaro Castellini, un estremo difensore di grandi qualità, secondo solo a Zoff in Nazionale. Quattordici vittorie su quindici in casa, con un solo pareggio proprio nell’ultima e decisiva giornata, ma soprattutto una cifra di gioco eccezionale ed una velocità mai viste prima. Il sogno del presidente Pianelli era finalmente realtà: aveva restituito la gioia al popolo granata. Nel Paese, arrivati a giugno, trascorsa un’infuocata campagna elettorale in un clima di contrapposizione frontale, sembrò prossimo il sorpasso del Partito Comunista sui democristiani e nell’attesa da un lato della vittoria finale dei progressisti sui moderati e dall’altro di una rinnovata paura per il pericolo rosso, la mobilitazione in favore della Democrazia Cristiana fu senza quartiere e coinvolse anche Indro Montanelli, che dalle colonne del suo il Giornale ammonì i lettori con uno slogan poi rimasto celebre: turatevi il naso ma votate DC!

I primi gemelli del gol del campionato italiano. Per i tifosi granata rimane la coppia per eccellenza, che ha trovato il suo apice nello splendido scudetto del 1976, Paolino Pulici e Ciccio Graziani.13

Ed effettivamente andò proprio così: la Democrazia Cristiana dimostrò grandi capacità di recupero, conservando la maggioranza ma indebolendo i tradizionali alleati, mentre a sinistra il Partito Comunista non sfondò ma ottenne il miglior risultato elettorale della sua storia, anche in quel caso a scapito degli alleati socialisti e dell’estrema sinistra. A settembre intanto l’Italia del tennis tornava da Santiago del Cile dove aveva vinto per la prima volta la Coppa Davis, la massima competizione mondiale di questo sport, avendo rischiato fino a pochi giorni prima di non giocarla nemmeno. La gara, infatti, la finalissima, era prevista contro la nazionale cilena proprio in Cile, paese retto dalla brutale dittatura di Pinochet e per giunta, il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime, usato, negli anni precedenti, come campo di concentramento per i prigionieri politici. E in Italia, dove la polarizzazione delle posizioni sembra insanabile, cortei e manifestazioni si susseguivano al grido Non si gioca con il boia Pinochet, mentre Adriano Panatta, il nostro tennista più forte e rappresentativo, veniva accusato di essere miliardario e fascista mentre era diventato benestante col talento e mai si era identificato con i progetti della destra liberale, figurarsi con quella estrema. I parlamentari socialisti sono contrari a partecipare e Domenico Modugno canta in favore del boicottaggio, mentre il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, aspetta. L’estrema sinistra spinge per il rifiuto, non vuole giocare. Ma il capitano della Nazionale, Nicola Pietrangeli, e i tennisti vogliono giocare, Andreotti allora fa decidere al CONI, che a sua volta si affida al parere della FIT, la Federazione italiana del tennis. La Federazione, che ha da poco nominato Paolo Galgani nuovo presidente, aspetta di vedere da che parte tira il vento e alla fine si fa convincere da Enrico Berlinguer, l’ideatore dell’euro-comunismo, che si muove in direzione contraria rispetto all’Unione Sovietica, che ha boicottato la Coppa Davis e si aspetta lo stesso dall’Italia.

I tennisti azzurri tornano da Santiago del Cile con la Coppa Davis vinta in quel 1976, sono appena atterrati all’aeroporto di Roma, dopo un lungo viaggio con il trofeo più prestigioso al mondo fra le loro mani.14

Il carismatico segretario del Partito comunista matura la decisione dopo essersi in qualche modo consultato con il leader comunista cileno, Luis Corvalán infatti gli suggerisce di non procedere con un boicottaggio che si sarebbe potuto rivelare vantaggioso per Pinochet, verso il quale il consenso nazionalistico all’epoca cresceva. A quel punto il Rubicone è oltrepassato: si va in Cile per vincere. Nel corso del doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie politiche di sinistra, decise di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare lo stesso: la prima Davis italiana diventa realtà. Dopo la pausa, alla fine del terzo set, Panatta e Bertolucci si erano cambiati, abbandonando la maglietta rossa. Il trionfo imminente andava celebrato in azzurro. Intanto si ragionava nei palazzi della politica circa la necessità di un governo di “solidarietà nazionale”, invece in California nasceva nell’estate del 1976 Apple Computer, Inc. quando Steve Jobs e Steve Wozniak, a Cupertino nella Silicon Valley, si organizzarono, coi pochi soldi di cui disponevano, allo scopo di sviluppare e vendere il personal computer Apple I: nel giro di pochi anni Jobs e Wozniak avevano assunto uno staff di progettisti di computer e avevano una linea di produzione, che dopo molti anni sarebbe arrivata a cambiare lo stile di vita della maggior parte dell’umanità, niente meno. Era iniziato puntualmente il campionato del 1976/77 che appassionerà come sempre tutto il Belpaese e si rivelerà fin da subito un furibondo testa a testa fra il Toro e la Juventus, fino all’ultima giornata, fra sorpassi e controsorpassi. Alla fine, la squadra granata raggiungerà la stratosferica cifra – in un campionato a 16 squadra – di cinquanta punti, cinque più della stagione precedente, ma la Juventus per loro sfortuna ne farà uno in più. Delusione difficilissima da smaltire, da aggiungere alla cocente quanto rocambolesca eliminazione in Coppa dei Campioni, agli ottavi terminando in otto con Ciccio Graziani in porta la partita di ritorno, per mano dei fortissimi tedeschi del Borussia Mönchengladbach. Il Toro si avvierà da allora verso un nuovo lento declino, mentre i rivali della formidabile Juventus guidata da Giovanni Trapattoni, inizieranno uno straordinario ciclo di vittorie in Italia e, più tardi, in Europa.

Il Toro finalmente campione d’Italia: un’emozione incontenibile per uno scudetto conquistato ben 27 anni dopo la tragedia di Superga, dove perì il Grande Torino.15

Oramai nel Paese divampava il conflitto politico e culturale in tutti i luoghi del sociale. Gli effetti della politica d’austerità varata dal primo governo di “solidarietà nazionale” portarono allo scoperto una composita area di dissenso, indicata col nome generico di movimento del 77 che tracciava un perimetro all’interno del quale convivevano posizioni anarcoidi, rifiuto del lavoro e operaismo, istanze pacifiste e teorizzazione dell’illegalità di massa, che costituirono il diffuso retroterra ideologico ispiratore dello scontro frontale con le istituzioni. In particolare, ci fu un’avvisaglia: il 17 febbraio la violenta contestazione rivolta contro il segretario della CGIL Luciano Lama si trasformò in scontro aperto con il servizio d’ordine del sindacato. Gli scontri per violenza e intensità causarono lo scioglimento anticipato del comizio e l’abbandono della città universitaria da parte del segretario e della delegazione della CGIL, l’evento diverrà famoso e ricordato come la cacciata di Lama dall’Università La Sapienza di Roma, oramai occupata e ingovernabile e, in conseguenza di quell’episodio, consegnata dal rettore alla polizia, mentre una fitta serie di episodi di violenza si susseguiranno nelle principali città d’Italia, senza soluzione di continuità. L’11 marzo 1977 a Bologna studenti della sinistra extraparlamentare affrontarono le forze dell’ordine intervenute a difesa di un’assemblea di CL, durante gli scontri fu ucciso Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua e studente universitario.

Il centro di Bologna devastato e presidiato come quello di una città occupata e in guerra, questo il clima di molti centri urbani italiani nella violente primavera del 1977.16

La notizia della morte del giovane si diffuse rapidamente e ne seguì l’affluire di migliaia di studenti verso la zona universitaria che venne barricata in un clima di incredulità, dolore e rabbia. In risposta alle proteste ed ai gravi disordini scoppiati in città, il Ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, dispose l’invio di mezzi blindati nelle strade del centro di Bologna, finendo così per accentuare lo scontro politico, vista la profonda impressione suscitata nell’opinione pubblica nel vedere – nel cuore della capitale dell’Emilia, cingolati per il trasporto truppe che furono generalmente percepiti come carri armati. Tutte le iniziative di protesta lanciate nei giorni successivi furono duramente represse, anche attraverso l’esecuzione di numerosi arresti e fermi di polizia. Il 12 marzo dello stesso anno si svolse a Roma una grande manifestazione nazionale di protesta contro la repressione, che per la tensione e la rabbia accumulate nelle ore precedenti, sfociò in violentissimi scontri di piazza e gravi episodi di guerriglia urbana, caratterizzati da assalti e dal lancio di bottiglie molotov contro banche, esercizi commerciali, ambasciate, comandi delle Forze dell’ordine e sedi della DC, considerata politicamente responsabile della situazione. In quel particolare momento va riconosciuto un argine alla violenza: la dura presa di posizione manifestata dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra storica, frattura che si rese particolarmente evidente a seguito del forte appoggio fornito dal Partito comunista alle manifestazioni contro la violenza organizzate dai sindacati confederali, dove per fortuna iniziava a guadagnare terreno una più realistica percezione delle esigenze economiche, e tra i lavoratori si diffondevano il disagio e l’insofferenza per il carattere esclusivamente politico delle manifestazioni di protesta.

La stretta di mano tra il segretario generale del PCI, Enrico Berlinguer, e il presidente della DC, Aldo Moro, i principali fautori del cosiddetto compromesso storico tra le due opposte forze politiche.17

A seguito della carcerazione di Renato Curcio, fondatore insieme ad altri e ideologo, le BR si riorganizzarono decidendo di accentuare la caratterizzazione “militare” in vista di una nuova fare operativa incentrata su azioni terroristiche violente e di forte impatto, e fu così che durante l’anno ci sarà una vera e propria escalation di ferimenti e omicidi. A Venezia intanto la notte più drammatica fu quella del 31 marzo 1977: i problemi cominciarono nel pomeriggio, ai violenti scontri con la polizia e al lancio delle bottiglie molotov seguirono le devastazioni e i saccheggi di negozi di lusso, e un attacco incendiario al Comando della Guardia di Finanza oltre ad un attentato dinamitardo rivolto alla sede della giunta regionale del Veneto, mentre Marghera, Mestre, Padova, Rovigo e Vicenza venivano messe a soqquadro per quasi due anni quando, durante le così dette notti dei fuochi, una serie di attentati volevano sfruttare il malcontento della classe operaia inducendola a simpatizzare coi terroristi, secondo i programmi degli agitatori. Nel frattempo iniziava a Torino il processo ai “capi storici” delle BR – tra cui Renato Curcio e Alberto Franceschini – ed era accaduto un fatto mai verificatosi in precedenza in Italia: tutti gli imputati detenuti si proclamarono militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e combattenti comunisti assumendo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura disconoscendo qualunque presupposto legale per quel processo, revocando il mandato ove già conferito e minacciando di morte i legali che avessero accettato la nomina come difensori di ufficio, rendendo di fatto il processo “impossibile” in mancanza della difesa tecnica, quale garanzia costituzionale, e inducendo il presidente della Corte d’Assise, constatate le difficoltà di pervenire alla nomina di difensori, a incaricare della difesa d’ufficio il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, l’avvocato Fulvio Croce, il quale pur essendo un avvocato civilista e consapevole dei gravissimi rischi a cui si esponeva, onde non rallentare il corso di un processo così importante, accettò l’incarico dimostrando grande coraggio e assoluta fiducia nella forza della legge.

Quando nel 1983 il presidente degli USA Ronald Reagan propose la Strategic Defense Initiative per utilizzare sistemi d’arma al suolo e nello spazio per proteggere gli Stati Uniti da attacchi di missili nucleari, il piano fu soprannominato Star Wars.18

Nel primo pomeriggio del 28 aprile del 1977, pochi giorni prima della data fissata per l’udienza del processo, un gruppo di fuoco delle BR uccise l’avvocato Croce nei pressi del suo studio legale in via Perrone a Torino, colpendolo mortalmente con cinque colpi di pistola che lo raggiunsero alla testa e al torace. Intanto in quel 1977 dagli Stati Uniti verso il resto inizia una saga cinematografica che non avrà uguali con l’omonimo film Guerre stellari, sottotitolato retroattivamente  Episodio IV – Una nuova speranza. Il film, ambientato diciannove anni dopo la fondazione dell’Impero Galattico, narra le avventure dello Jedi Luke Skywalker e del suo maestro Obi-Wan Kenobi, impegnati nella lotta contro il Lato Oscuro della Forza, a fianco dell’Alleanza Ribelle, guidata dalla Principessa Leila, in modo da porre fine al potere dell’Imperatore sulla Galassia. Dopo un inizio in sordina, distribuito in pochi cinema americani, Guerre stellari si rivelò un successo senza precedenti sia al botteghino sia nel modo in cui si radicò nel cuore della coscienza pubblica. La maggior parte della critica spese parole d’elogio giudicandolo capace di immergere gli spettatori nel suo mondo fantastico e di coinvolgere con una narrazione semplice, ma solida ed entusiasmante, coadiuvata da effetti speciali spettacolari come raramente si erano visti prima, la saga poi sarebbe diventata un fenomeno culturale di massa, oramai è un dato storico, fin dall’uscita del primo film, e ha avuto un forte impatto sulla moderna cultura pop e le sue citazioni si sono radicate nell’uso quotidiano: frasi come la Forza sia con te o Io sono tuo padre sono diventate parte integrante del lessico della popolazione, mentre la Forza e Lato Oscuro sono state incluse nell’Oxford English Dictionary.

Renato Curi è ricordato per via della morte avvenuta durante la gara Perugia-Juventus disputata il 30 ottobre 1977 allo stadio Pian di Massiano, che oggi porta il suo nome.19

Il 30 ottobre 1977 anche il mondo dello sport vive una giornata straziante, quando alla stadio Comunale Pian di Massiano il Perugia di Ilario Castagner ospita la Juventus di Trapattoni. All’epoca la squadra dei grifoni faceva sognare tutta l’Umbria, e il giovane Renato Curi in particolare era entrato nel cuore dei tifosi quando il 16 maggio dell’anno precedente un suo destro al volo all’ultima giornata aveva superato Zoff, togliendo lo scudetto ai bianconeri e consegnandolo al Toro di Radice. Il 30 ottobre invece era una giornata da lupi: il cielo sopra Perugia era nero e gonfio di pioggia, che poi inizierò a cadere flagellando senza tregua i giocatori, ma al quinto minuto della ripresa, sullo zero a zero, dopo una rimessa laterale per gli umbri e uno scatto nel tentativo di raggiungere la palla, dal cerchio di centrocampo, Renato Curi si accascia improvvisamente al suolo, come fulminato, allarmando i compagni e gli avversari che gli si avvicinano, gli juventini Roberto Bettega e Gaetano Scirea spaventati gesticolano freneticamente per chiamare soccorso, entrano immediatamente in campo i sanitari e si intuisce che si sta compiendo un dramma sportivo e umano. Non servono il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca, il centrocampista esce in barella privo di sensi sotto una pioggia sempre più forte: morirà poco dopo stroncato da un arresto cardiaco, all’età di ventiquattro anni, nella commozione generale. Tutta Italia peraltro stava per vivere un altro momento epocale: il 16 marzo 1978 avvenne l’agguato di via Fani a Roma, quando lo sterminio della scorta, fu il preludio al sequestro e al successivo assassinio dell’allora presidente della DC Aldo Moro, consumato il 9 maggio 1978, e definito dalle BR “l’attacco al cuore dello Stato”. Si chiudeva così il sequestro più drammatico della storia dell’Italia repubblicana, durato ben 55 giorni, che gettò il Paese nel panico e stroncò definitivamente la maturazione del progetto politico che Aldo Moro aveva abbozzato: cioè inserire nell’area democratica prima e nelle responsabilità di governo poi il PCI. Questi tempi sembravo non finire mai, dal giugno 1978 al dicembre 1981 aumentarono gli agguati, le uccisioni e i ferimenti terroristici. Le statistiche segnalarono una continuità di attentati mai conosciuta in Europa: il numero delle organizzazioni armate attive in Italia era passato da 2 nel 1969 a 91 nel 1977 fino a 269 nel 1979, mentre in quello stesso anno si registrò la cifra record di 659 attentati. Tuttavia l’anno con più vittime sarà il 1980, quando moriranno 125 persone, di cui 85 solo nella strage della Stazione Centrale di Bologna.

Dopo il sequestro e l’uccisione ad opera delle Brigate Rosse, il triste ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro.20

L’Italia era allo stremo, ma a quel punto a Genova successe qualcosa di imprevedibile e imprevisto, tanto da cambiare il corso degli eventi. Lo scopriremo nel seguito del racconto…

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Il blog? Ho peccato di esibizionismo, però mi andava di ribadirlo: nessuno può cambiare passione, quando si tratta di calcio.

El secreto de sus ojos è un grande film. Una pellicola argentina da vedere (e rivedere) fino a suggerirla a tutte le persone a cui volete bene o delle quali semplicemente apprezzate intelligenza e sensibilità; in Italia è distribuita come Il segreto dei suoi occhi. Il titolo è la traduzione letterale di quello originale, nella nostra lingua. Fortunatamente. In Italia infatti quando si ritiene opportuno tradurre il titolo di un film straniero spesso di sconfina nel ridicolo, a volte nel raccapriccio: per questioni di marketing – ad esempio – Vertigo di Hitchcock diventò La donna che visse due volte; a causa invece di scelte stilistiche difficilmente comprensibili, invece, Domicile conjugal di Truffaut fu trasformato in Non drammatizziamo… è solo una questione di corna.

Questo capolavoro, diretto dal regista Juan José Campanella, che ha vinto l’Oscar nel 2010 premiato come “Miglior film straniero”, propone interpreti magnifici: e fra loro l’elegante Soledad Vilamil, attrice e cantante deliziosa, impegnata nei temi del tango e del folk argentino, che dà vita al personaggio di Irene Menéndez Hastings. In quel periodo mi trovavo proprio a Buenos Aires e così oltre all’opportunità di vedere la pellicola in lingua e nel contesto originale, potevo acquistare Morir de Amor, semplicemente il disco più bello della Vilamil. Anche il film è un contenitore di emozioni: inquietudini nascoste tra le mura di stanze buie e palazzi austeri che intrecciano una storia irrisolta, raccontata per mezzo di sequenze profonde che svelano l’anima dei protagonisti e ci interrogano sulla nostra coscienza. Ad un certo punto della narrazione quando Guillermo Francella, che dà vita al personaggio di Pablo Sandoval, “siempre borracho” (ubriaco) ma “siempre lúcido”, glielo dice chiaro a Benjamín Espósito – il protagonista – interpretato da Ricardo Darín, mentre si trovano in uno di quei bar dove gli amici si incontrano, nella realtà il café Only VI, al 700 del Paseo Colón, declamando: “Te das cuenta, Benjamín? El tipo puede cambiar de todo: de cara, de casa, de familia, de novia, de religión, de Dios. Pero hay una cosa que no puede cambiar, Benjamín: no puede cambiar de pasión”.

La pasión – nel caso di questo film – è quella dell’assassino per la sua squadra del cuore: il Racing Club, el Primer Grande del calcio argentino. Puoi cambiare tutto, afferma Sandoval: la faccia, la famiglia, la fidanzata, la religione, puoi scegliere un altro dio, però una cosa non la puoi cambiare. Non puoi cambiare passione. Eduardo Sacheri lo aveva scritto con cognizione di causa nel romanzo La pregunta de sus ojos – da cui è tratta la sceneggiatura del pluripremiato film – perché appartiene a quella schiatta di scrittori, molti sono argentini, capaci di coniugare la letteratura e lo sport, come Roberto Fontanarrosa, Dante Panzeri, Juan Sasturain e Osvaldo Soriano, e di raggiungere vette altissime, utilizzando il fútbol come una scusa per parlare della vita: dei grandi temi come di quelli, non meno essenziali, della quotidianità. Nadie puede cambiar de pasión. Questa affermazione di Sacheri si associa nei miei ricordi al pensiero di Javier Marías, probabilmente il più importante scrittore spagnolo contemporaneo, grande accademico di Spagna, ammirato dalla critica e dal pubblico per romanzi come Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, Tutte le anime, Così inizia il male, Un cuore così bianco, e molti altri capolavori, tutti tradotti e pubblicati in Italia a cura dell’editore Einaudi.

Questo gigante della letteratura mondiale – autentico merengue, per i non addetti ai lavori: si tratta del soprannome degli irriducibili tifosi del Real Madrid – nel suo magistrale Selvaggi e sentimentali, opera imperdibile per leggere di calcio ad un livello più alto, osserva: “la sola cosa che non sembra negoziabile, mentre tutto è soggetto a cambiamento, anche più di uno, dalle abitudini ai gusti letterari, dalla moglie o dal marito al partito politico, è la squadra per cui si tifa”, definendo la Liga – il massimo livello del campionato spagnolo, omologo della nostra Serie A – in un articolo apparso su El País nel 1992, con quello che dovrebbe essere il motto di ogni competizione sportiva: “il recupero settimanale dell’infanzia”. Considerato da molti intellettuali di sinistra alla stregua di un oppiaceo o nella migliore delle ipotesi una distrazione un po’ volgare, personalmente ho sempre trovato poco convincenti le critiche formulate per ragioni ideologiche di chi vuole negare il valore del gioco e il suo fascino nei confronti delle masse, insomma (anche) a me il calcio sembra una magnifica pasión, oltre ad essere, non lo trascurerei perché si tratta di un dato di fatto, l’argomento di discussione più diffuso al mondo.

Certo, nessuno deve dimenticare la partita più seria, quella della vita, al confronto della quale il calcio può essere considerato, al limite, la prima cosa fra tutte le cose meno importanti, come ripeteva Arrigo Sacchi, ma già Enrico Berlinguer, segretario del PCI, in un intervista del 1975 apparsa su Tuttosport, a Gianpaolo Ormezzano che gli chiedeva se è vero che lo sport è responsabile di “ottundere le coscienze, di favorire l’alienazione delle masse”, dando prova di equilibrio e intelligenza rispondeva così: “Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, al lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali. Non voglio dire con questo che la domenica allo stadio giovi alla politicizzazione dell’operaio, ma non spartisco la paura per le conseguenze di questa sua vacanza festiva”. Pier Paolo Pasolini invece non era così distaccato, anzi si era innamorato perdutamente del calcio a Bologna. È qui, durante il liceo, che giocava per ore e ore a pallone con gli amici, con la fortuna poi di assistere dalle tribune dello stadio felsineo alla vittoria di ben quattro scudetti da parte del Bologna FC, “lo squadrone che tremare il mondo fa”, in quegli anni all’apice della propria gloriosa storia.

Grazie alla ricerca appassionata e documentata di Valerio Curcio, che scritto un libro magnifico per Compagnia Editoriale Aliberti: Il calcio secondo Pasolini, è possibile apprezzare le riflessioni di uno dei massimi pensatori contemporanei che nel suo tempo riesce a vivere la contraddizione di intellettuale impegnato che ama uno sport da molti considerato “oppio dei popoli”. Pasolini osservava il calcio dai campetti di periferia fino alla Serie A, sempre con attenzione, considerando la partita allo stadio come l’ultimo rito sacro dell’età contemporanea: “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”. Albert Camus, un vero e proprio outsider nell’élite intellettuale parigina del primo Novecento, che lo disprezzava, quando vincerà il premio Nobel per la letteratura nel 1957, affermerà che: “le peu de morale que je sais, je l’ai appris sur les terrains de football”; provocazione non solo rivolta a spiazzare critici e interlocutori del gran mondo accademico francese, con cui Camus non andava proprio d’accordo, a lui parlare di calcio piaceva davvero, e piaceva troppo.

Non poteva essere altrimenti. Il ragazzo, cresciuto in Algeria in seno a una poverissima famiglia di Pieds-Noirs, era un eccellente portiere che – fino a quando la tubercolosi non distruggerà in lui ogni ambizione sportiva – aveva trovato la sua “vera università” all’interno dell’area piccola, quella di pertinenza dell’estremo difensore, ed era sincero – Camus – quando diceva a tutti che: “non c’è luogo al mondo in cui l’uomo sia più felice che in uno stadio di calcio”. E se ci fosse bisogno di una conferma, ce la offre l’uomo politico tra i più influenti e popolari dirigenti comunisti mondiali, che guidò il Partito Comunista d’Italia dagli anni ‘20 agli anni ‘60 del secolo scorso, quello che i suoi compagni chiamavano “il Migliore”, a cui i sovietici, che gli concessero la cittadinanza, dedicarono addirittura una città in Unione Sovietica: Togliattigrad. Allora, narrano i bene informati che Palmiro Togliatti ogni lunedì mattina chiedesse a Pietro Secchia, che cosa avesse fatto la Juve il giorno prima; se il malcapitato non aveva la risposta pronta, l’iconico segretario del Partito, usava rimbrottare, rimproverando il più ambizioso e massimalista fra i dirigenti comunisti italiani: “E tu, pretendi di fare la rivoluzione senza sapere i risultati della Juventus?”

Dopo aver evocato tanti intellettuali irraggiungibili, la pretesa di scrivere qualcosa di interessante per il prossimo assume forse i connotati della vanità. Tuttavia, il cantautore (e avvocato) astigiano Paolo Conte, uno che preferisce l’eleganza della scuola magiara, che ha nominato migliore giocatore di sempre non Maradona o Pelé, non Messi o Ronaldo, ma l’ungherese Ferenc Puskás, recita nella splendida canzone “Bartali”, dedicata al grande ciclista toscano: “È tutto un insieme di cose”, riferendosi a una certa situazione emotiva. Ecco la risposta più sincera. Un insieme di cose: esibizionismo, sentimentalismo, e il piacere sottile di divagare saltando di palo in frasca, come si fa con gli amici di sempre, magari in uno dei tanti Bar Sport delle nostre città o dei nostri paesi, luoghi dove si poteva stare insieme per divertirsi e difendere la squadra del cuore, quella che io scelsi per una questione di colori: invece del brillio (entusiasta) rossonero o del signorile (e assai vincente) abbinamento bianconero da bambino mi innamorai dell’ombroso accostamento nerazzurro, protagonista (allora come in seguito) di clamorose disfatte e qualche volta di esaltanti impennate.

Sono troppe le storie di sport da raccontare, meglio se con l’attenzione dello storico e la sensibilità del narratore, e ci sono tante storie di uomini al loro interno, e quindi di altre donne e altri uomini che nell’incrocio con la Storia più grande passano del tempo a discutere, emozionarsi e incitare la loro squadra del cuore o il loro atleta preferito, in una spirale di metanarrazione che i francesi chiamano à colimaçon, come il vortice di una scala a chiocciola, appunto. È così, scoprendone i connotati epici e collettivi, quindi davvero sportivi, che ogni storia diventa una pasión, e si trasforma nell’occasione per guardare a se stessi e al mondo, alla natura umana e al suo sistema, perché, in sintonia con le parole di Javier Marías, e per tornare al calcio: “se perdere o vincere una partita non viene vissuto come un evento cruciale, e con una trama e una storia, con una svolta o una catastrofe, che riguarda il passato, il presente e il futuro, la dignità e il decoro e, naturalmente, la faccia con cui uno si alza l’indomani, allora lasciamo perdere…”

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