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Il Toro sudamericano e la storia di quella #EternaAmicizia che dopo Superga unisce il River Plate al Grande Torino.

Eterna Amistad. Una eterna amicizia, un racconto di quelli che, forse più di altri, attribuiscono un senso alla memorabile affermazione di Gianni Brera: “Il calcio è straordinario proprio perché non è mai fatto di sole pedate. Chi ne delira va compreso, non compatito; e va magari invidiato”. Il legame fra la squadra argentina del River Plate e quella italiana del Torino, non ha eguali nel mondo del calcio e, più in generale, dello sport. Il racconto di questo episodio, che appartiene alla Storia, quella con la S maiuscola, è dedicato ad Antonio V. Liberti – uomo poliedrico, argentino e genovese, il presidente che per primo ha reso grande il River – e a Ferruccio Novo, ingegnere ed industriale piemontese, presidente ed architetto del Grande Torino. Il rapporto di amicizia fra il sodalizio albirrojo [biancorosso] e quello granata, maturato dopo la tragedia di Superga, è cosi intenso e attuale da giustificare la celebrazione dedicata dallo sponsor tecnico del River Plate, che ha deciso di valorizzare il cosiddetto “rito granata”, attraverso una splendida camiseta con historia realizzata per accompagnare il River durante le trasferte nel campionato argentino e in Coppa Libertadores, nel nome di un hashtag rivolto al pubblico di tutto il mondo: #EternaAmicizia!

Ho scoperto questa magnifica storia mentre mi trovavo a Mendoza, il capoluogo di una vasta regione dell’Argentina, addirittura la quinta fra le aree vinicole più importanti al mondo. Avevo scelto quella città come base ideale per il mio progetto di esplorare le bodegas [cantine] che si trovano nel suo circondario e a quello scopo ero partito da Buenos Aires con un volo interno della compagnia di bandiera. Luoghi incantevoli, ai piedi delle Ande, dove cresce la materia prima che poi l’uomo trasforma nei migliori interpreti della personalità argentina: il Malbec, un vino rosso intenso dalla struttura possente e quasi impenetrabile, e il Torrentés, un vino bianco aromatico e morbido, ma esplosivo, autentici campioni dell’enologia nazionale. Tuttavia, passeggiando per il centro cittadino di Mendoza, fui attratto dalla vetrina di un negozio di articoli sportivi dove accanto alla maglietta della squadra di calcio locale – il Godoy Cruz – e alle immancabili divise del Boca Juniors e del River Plate di Buenos Aires, avevo riconosciuto un gagliardetto sociale e la maglia del Torino. Non dell’Inter, della Juventus o del Milan, ma del Toro. Non seppi resistere alla curiosità, e decisi di entrare per domandare il motivo di quella preferenza. Mi fu svelato quindi il legame del Toro con il Sudamerica: che nacque in ragione di ben tre storiche tournée estive, avvenute nel 1914, 1929 e 1948, e venne poi esaltato dal River Plate quando decise di onorare i caduti a Superga del Grande Torino, giocando nel 1949 allo stadio Comunale del capoluogo piemontese contro il cosiddetto Torino Simbolo, e ancora a Buenos Aires nel 1951 e quindi di nuovo a Torino nel 1952: quello fu il principio di questa storia di #EternaAmistad [Eterna Amicizia].

Ma andiamo con ordine, e quindi dal principio. Vittorio Pozzo non ha bisogno di presentazioni, tuttavia non tutti sanno che, prima di diventare il più vincente tecnico di sempre, campione del mondo con la nazionale italiana nel 1934 e nel 1938 e campione olimpionico nel 1936, fu uno dei primi allenatori del Torino, squadra che aveva contribuito a fondare, si dice. Comunque, fra le tante intuizioni non scontate Pozzo ne ebbe una, che oggi può persino sembrare ovvia: se il Torino voleva crescere e migliorare doveva giocare tanto e non solo in Italia, misurandosi con avversari di caratura e tradizioni differenti, allo scopo di imparare da ognuno di loro. Fu così che, convinta la dirigenza, Pozzo ottenne per la prima volta nella storia del Toro, il permesso di disputare in quella estate del 1914 una tournée oltreoceano: la squadra si imbarcò da Genova, attraversando l’Atlantico sul piroscafo Duca degli Abruzzi e arrivò dopo quasi un mese di navigazione, e tanti palloni finiti in mare, al porto della città di Santos in Brasile, dove le squadre locali erano desiderose di confrontarsi con un’avversaria italiana di primo piano, capace di contendere in quella stagione al leggendario Genoa il titolo di campione d’Italia; i brasiliani li avrebbero quindi ospitati volentieri per circa un mese ai granata e diviso con loro gli incassi delle partite. La comitiva del Toro in quella estate lasciò il segno: São Paulo era una grande città, una metropoli, e gli italiani furono sommersi da inviti e occasioni mondane, come accadde alla Pro Vercelli, altra squadra piemontese che stava visitando il Sudamerica, che invece si distinse in negativo, sia per la condotta in campo e fuori; invece quanto ai granata l’inflessibile Pozzo ridusse al minimo ogni distrazione e tutte le tentazioni, imponendo come suo costume regole di condotta ferree, improntate alla disciplina e alla massima sobrietà, e i risultati furono evidenti anche in campo. Il Torino, con un vigore insospettabile, liquidò all’esordio, il 9 agosto 1914, lo Sport Club International (0-6), per ben due volte la rappresentativa del São Paulo (1-5; 1-7) e lo Sport Club Luzitano (0-3), vincendo due volte anche contro i campioni nazionali dello Sport Club Corinthians (0-3; 1-2) destando così grande ammirazione anche nella vicina Argentina, dove il calcio era già una malattia, e ricevendo un invito fuori programma: quello di raggiungere Buenos Aires. Nella capitale argentina il Torino – tanto era stimato – affrontò la Nazionale bianco-celeste, che lo sconfisse di misura (2-1), perse poi contro il Racing Club de Avellaneda (1-0), che era l’imbattuto campione d’Argentina, congedandosi però con una vittoria netta contro una selezione dei migliori giocatori della Liga argentina (0-2): era il 6 settembre 1914. Poco dopo il rientro in patria della comitiva granata, anche l’Italia sarebbe stata travolta dalla prima guerra mondiale.

Il Torino di Pozzo sfiorò in diverse occasioni il successo nel campionato italiano, ma non lo vinse; mentre la formazione granata del cosiddetto “Trio delle Meraviglie”, composto dai campionissimi Libonatti, Baloncieri e Rossetti, viaggiò in Sudamerica nella tournée del 1929 avendo vinto l’anno prima lo scudetto della stagione 1927/28, bissando il titolo (ingiustamente) revocato nel 1926/27; a dispetto del palmares tuttavia quel Torino non brillò, anche se fu apprezzato dai tantissimi immigrati italiani (e piemontesi) che andarono ad applaudirlo. I granata iniziarono a Buenos Aires il 28 luglio 1929 e giocarono in quella prima settimana ben tre partite contro la Nazionale argentina, perdendone due (1-0; 4-1) e infine riuscendo a pareggiare (1-1), in seguito furono sconfitti severamente dall’Estudiantes de la Plata (5-0) ma espugnarono il fortino dell’Independiente de Avellaneda (1-2); quindi si trasferirono nella città di Rosario dove sconfissero il Central (2-4) e persero nettamente di fronte all’altra squadra di casa, il Newell’s Old Boys (2-0). A quel punto la comitiva granata raggiungerà Montevideo, dove subirà una sconfitta netta contro la Nazionale uruguagia (5-1) ma riuscirà a pareggiare coi campioni d’Uruguay, i giallo-neri del Club Atlético Peñarol (1-1), prima di mettersi in viaggio per il Brasile. Questa volta il Torino – sicuramente affaticato dalle centinaia di chilometri macinati in treno – sarà duramente sconfitto al São Januário (6-0; 2-1), all’epoca lo stadio più grande del paese, dalla “combinata” carioca di Rio de Janeiro (composta dai giocatori di América, Botafogo, Fluminense e, sopratutto, Vasco de Gama), e dopo aver pareggiato (0-0) con il Paléstra Italia, che poi diventerà il Palmeiras, il Toro sarà travolto (6-1) da una “combinata” paulista, composta essenzialmente dai giocatori dello Sport Club Corinthians di São Paulo, chiudendo così quel lungo ed estenuante viaggio il 14 settembre 1929.

Anche il Grande Torino visiterà il Sudamerica. Nell’estate del 1948, anticipato dall’etichetta di squadra più forte del mondo e quindi generando aspettative e curiosità. La società granata, costruita dal presidente Ferruccio Novo, stava in effetti dominando il calcio italiano dal 1943 (e da allora non perdeva una partita in casa, al mitico campo del Filadelfia) e il 4 luglio aveva trionfato nel campionato italiano ancora una volta, annichilendo ogni avversario: in quel torneo il Grande Torino aveva schierato appena 15 giocatori, nell’arco di una lunga stagione a 21 squadre, confermandosi la migliore difesa (33 gol subiti) e il migliore attacco (125 gol realizzati), con il capitano Valentino Mazzola, oramai leggendario condottiero del cosiddetto “quarto d’ora granata” – quando si arrotolava le maniche e il Toro travolgeva chiunque – capace di segnare 25 gol. I granata, che si erano fatti apprezzare anche in Europa vincendo diverse amichevoli di prestigio, dal Belgio alla Spagna, conquistarono quello scudetto con diverse giornate di anticipo e con ben 16 punti di vantaggio sulle seconde classificate: il Milan, la Juventus e la Triestina. Quindi, dopo essersi imbarcati su un volo di linea della compagnia aerea brasiliana, i giocatori granata raggiunsero São Paulo dove rimasero dal 18 al 28 luglio, giocando in quei pochi giorni, ben quattro amichevoli: persero contro lo Sport Club Corinthians (2-1), pareggiarono con il Palmeiras (1-1) e il São Paulo (2-2), e vinsero poi contro la Portoguesa (4-1), entusiasmando il pubblico brasiliano e approfittando per prendere confidenza con l’ambiente del paese che avrebbe ospitato i campionati mondiali di calcio nel 1950, dove la Nazionale italiana avrebbe difeso il titolo conquistato nel 1934 e bissato nel 1938; Nazionale azzurra che – è bene ricordarlo – solo l’anno prima aveva sconfitto l’Ungheria, schierando dieci giocatori del Grande Torino su undici, in campo.

Nello stesso decennio però anche un squadra argentina era accreditata da molti critici e osservatori come la più forte al mondo: il River Plate, la grande squadra di Buenos Aires, che in quella decade segnò una vera e propria epoca. Negli anni Quaranta del secolo scorso infatti la Primera División era contesa principalmente da tre squadre, tutte molto forti: il Boca Juniors, campione nel 1943 e nel 1944 e il San Lorenzo de Almagro, campione nel 1946; ma nessuna si affermerà come il River che sarà campione nel 1941, 1942, 1945 e 1947 mancando per un soffio la vittoria, arrivando secondo, nel 1943, 1944, 1948 e 1949. Quella squadra impressionò, grazie a uno stile di gioco mai visto a quelle latitudini in precedenza: l’occupazione tattica degli spazi si sommava alla velocità di esecuzione e alla precisione delle giocate dei suoi cinque formidabili attaccanti: Juan Carlos Muñoz, José Manuel Moreno, Ángel Amedeo Labruna e Félix Loustau e Adolfo Pedernera, soprannominato El Maestro è il giocatore che ha inventato in Sudamerica il ruolo di trequartista, e che favorì l’inserimento – nell’ingranaggio, è proprio il caso di usare questo termine – di un altro mostro sacro Alfredo Di Stéfano. Infatti, ci si riferisce abitualmente a quel River Plate definendolo “La Máquina”, che potrebbe apparire un soprannome poco evocativo e quindi va contestualizzato: fu Ricardo Rodríguez, uno dei più grandi giornalisti sportivi sudamericani a coniarlo, quando nel 1942 dopo una partita contro il Chacarita Juniors, annientato per 6-2 al Monumental, scrisse a proposito del River su “El Gráfico” un articolo titolato “Jugó como una máquina”, dove esaltava il collettivo biancorosso: “El tiempo, el buen entrenamiento, la moral que posee el equipo y el valor individual de sus componentes, todo ha contribuido para que River en los actuales momentos dé la sensación de ser una máquina”. Dopo di lui, Eduardo Galeano, una delle personalità più autorevoli della letteratura latinoamericana e grande appassionato nonché fine conoscitore di calcio, proiettò quel River nella giusta dimensione paragonando quel gioco al totaalvoetbal di Rinus Michels, che alla guida dell’Olanda e dell’Ajax di Amsterdam rivelò al mondo il “calcio totale”, che La Máquina in realtà giocava trenta anni prima.

Un uomo in particolare segnò la storia del River Plate, assemblando “La Máquina”, esattamente come Furruccio Novo, che in quegli anni costruiva il Grande Torino: il presidente don Antonio Vespucio Liberti; fin da ragazzo trascorreva tutto il suo tempo aiutando i magazzinieri al campo di allenamento del River, dove lo chiamavano El Gordo, a causa della costituzione pingue, già in tenera età, ma tutti gli volevano un gran bene, considerandolo una sorta di mascotte. Una volta cresciuto, raggiunto il successo negli affari e addirittura la ricchezza, don Antonio venne eletto a furor di popolo – di soci, pardon – alla presidenza del club, governandolo a più riprese in un arco temporale di oltre due decadi, riuscendo a realizzare il suo sogno: rendere grande il River, ma grande davvero, senza badare a spese e attingendo largamente alle proprie finanze personali. Appena arrivato alla presidenza del sodalizio, che da circa un ventennio non vinceva, in un clima generale di rassegnazione dei propri tifosi, don Antonio decise di scuotere l’ambiente: fece confezionare, rinnovandole, le mitiche maglie bianche con la banda rossa in diagonale, provvedendo a consegnarle personalmente ai suoi giocatori, che ammoniva, uno per uno: “Cuídenla mucho, porque ésta es la camiseta de River”, come dire, cerca di averne cura e di meritarla, perché questa è la maglia del River!, in seguito decise di mettere mano al portafoglio per acquistare due giocatori straordinari: Carlos Peucelle, dal Club Sportivo, e Bernabé Ferreyra, dal Club Tigre, per una somma a quei tempi inaudita, pagata per la maggior parte in lingotti d’oro, meritando così il soprannome che da allora accompagnerà il club della capitale: “Los Millonarios”.

Don Antonio però aveva appena iniziato. E con l’entusiasmo che cresceva in modo irrefrenabile intorno al club decise di comprare un vasto terreno ai margini del prestigioso quartiere di Núñez e nel 1935 diede inizio alla costruzione di uno stadio gigantesco, inaugurato non appena furono agibili tre delle quattro tribune previste: nel 1938 era pronto. Il Monumental si presentava con il suggestivo aspetto di un ferro di cavallo, aperto verso il Río de la Plata, già in grado di ospitare ben oltre 60 mila spettatori; alla fine degli anni Cinquanta verrà attuata poi la chiusura dell’ovale, con la costruzione del primo anello della quarta tribuna, finanziata con il denaro pagato dalla Juventus al River, a seguito della cessione di Omar Sívori ai bianconeri. Don Antonio decise di affidare la sua squadra che iniziava a prendere forma a un giovane tecnico ungherese: Imre Hirschl, che aveva trasferito in Sudamerica il proprio know-how mitteleuropeo; don Antonio fu coraggioso, ma il giovane tecnico lo ripagò: grande equilibrio difensivo e rapidi cambiamenti in campo nella disposizione dei ruoli, a seconda delle fasi di gioco, portarono il River Plate alla vittoria del campionato nel 1936 e nel 1937 gettando le basi di quel gruppo formidabile che il suo successore affinerà. Toccherà infatti a Renato Cesarini, la celebre ex mezzala sinistra della nazionale italiana e della Juventus, di trasformare quella squadra già molto forte ne “La Máquina”, ovvero la rappresentazione dominante, anche sul campo da gioco, di quello che era diventato il River Plate: un club ambizioso e solido finanziariamente, ottimamente organizzato e gestito secondo criteri imprenditoriali, con uno stile che Liberti amava definire fútbol empresa e che Cesarini, insieme a Carlos Peucelle, nel frattempo ritiratosi dall’attività agonistica e diventato il direttore tecnico del club, riuscirà a trasferire nella prestigiosa “Escuela de River”. Lì nasceranno talenti del calibro di Alfredo Di Stéfano e Omar Sivori, per citare solo i due più celebri.

In quel periodo così denso di successi Don Antonio amava ripetere: “Dios no me dio la posibilidad de tener hijos pero me dio otra chance: ese lugar para mí lo ocupa River!” Non aveva mai avuto i figli che tanto avrebbe desiderato, ma Dio gli aveva concesso il privilegio di colmare quel vuoto occupandosi del River Plate!, che peraltro era di grande supporto alla Nazionale argentina, capace in quella decade di vincere quattro volte su cinque il massimo trofeo continentale, la Coppa América. Intanto, sulla sponda europea dell’Atlantico, un altro uomo aveva attraversato quel decennio dedicando tutta le sue energie alla squadra di calcio del suo cuore: il Torino; anche lui con l’obiettivo di renderla grande. L’Ing. Ferruccio Novo però stava per vivere un dramma senza pari, che nessuno al mondo avrebbe mai più dimenticato: accadde il 4 maggio 1949, la tragedia di Superga. Quel giorno sul Piemonte ed in particolare su Torino era in corso una tempesta di vento, pioggia e lampi, mentre la nebbia avvolgeva le pendici delle colline lambendo la città; ad un certo momento del pomeriggio, pochi minuti dopo le cinque, si avvertì un boato terribile che rintronò nel grandioso edificio della Basilica. Il trimotore Fiat G.212 delle Avio Linee Italiane, con a bordo 31 persone, fra le quali l’intera squadra sportiva del Torino, di ritorno dall’estero, si schiantò a piena velocità contro il muraglione del terrapieno posteriore del grande tempio. Il cappellano, don Tancredi Ricca, accorse sul luogo dello schianto, dove erano nel frattempo convenuti alcuni volenterosi contadini per portare soccorso, ma purtroppo non c’erano sopravvissuti fra i rottami dell’aereo, solo sagome annerite dal fuoco. Uno spettacolo spaventoso. I bagagli della comitiva erano stati scaraventati lontano dalla carlinga, letteralmente esplosa e accartocciata contro il muraglione, e fu allora che fra i soccorritori si levò una voce: “C’è una maglia rossa … misericordia, sono quelli del Torino!” Al sacerdote, rientrato in Basilica, non restò che dare l’allarme per telefono: “Sono tutti morti!”

“Il Grande Torino è calcio, ma non soltanto”. Fu Dino Buzzati a scriverlo, quando il Corriere della Sera gli chiese, come inviato speciale, di seguire – e spiegare agli italiani – la tragedia; “Anche chi non sa di sport, anche chi non mai ha sentito nominare – ma è impossibile – Valentino Mazzola, e così anche l’intellettuale che non ha mai letto di sport e disdegna il calcio, oggi si sono sentiti stringere il cuore”, così scriveva Buzzati, perché “Il dolore è davvero di tutti. Il tifo non conta”. Secondo Gianni Brera la spiegazione di tanto affetto diffuso era che “Quei calciatori, considerati pressoché imbattibili da oltre quattro anni, ossatura della Nazionale, non sono per una città, non sono solo per una sua parte: perché il Torino era lo sport, era la sua sintesi più armoniosa. Il Torino era l’Italia”. Forse anche in ragione di questa speciale grandezza, la Federazione decise di proclamare ufficialmente il Torino vincitore del torneo e quindi conferirgli il titolo campione d’Italia 1948/49; anche se il sodalizio granata in realtà aveva totalizzato sino a quel momento 52 punti, e mancavano quattro turni alla fine del campionato (tre di quelli li avrebbe disputati in casa nell’inespugnabile Filadelfia); erano ben quattro i punti di vantaggio sulle inseguitrici dell’Inter e del Milan (ma il Torino non poteva contare più nemmeno un titolare da mandare in campo) è vero, ma furono proprio i dirigenti delle due squadre milanesi – che con 48 e 46 punti avrebbero potuto ancora aggiudicarsi lo scudetto – a proporre generosamente la proclamazione del Torino, approvata all’unanimità. Tuttavia alla ripresa del torneo, dopo Superga, il presidente Novo decise che il Torino sarebbe tornato in campo per disputare le ultime partite di campionato, allo scopo di onorare il gesto delle avversarie di proclamarlo campione d’Italia, schierando i migliori ragazzi delle giovanili, cosa che fecero cavallerescamente anche gli avversari del Genoa, della Sampdoria, del Palermo e della Fiorentina, vincendo così – il Torino – anche sul campo.

Quando la notizia della tragedia arrivò a Buenos Aires il presidente del River, don Antonio, si commosse profondamente: da tempo accarezzava l’idea di organizzare una sfida senza precedenti, il suo River Plate contro il Grande Torino, per incoronare la più forte squadra al mondo. Entrambe le compagini erano infatti senza rivali in patria e nessuno avrebbe osato mettere in discussione la loro superiorità, nemmeno a livello continentale. Purtroppo non sarebbe stato più possibile giocarla quella sfida. Allora Don Antonio decise: “Nos vamos a Turín”, perché il River aveva il dovere morale, secondo il suo presidente, di recarsi in Italia per rendere omaggio alla memoria di quei campioni appena caduti e alla squadra che era un mito sportivo e adesso era diventata immortale, offrendo inoltre l’occasione al sodalizio torinista di una concreta solidarietà verso le famiglie dei caduti, destinando loro l’incasso di una partita celebrativa da organizzare. Il presidente Novo giudicherà il gesto “Una immediata prova di fraterno amore, e di una grandiosità pari a quella della tragedia”. Fu così che il River, con tutti i suoi campioni e con l’approvazione del presidente argentino, il generale Juan Domingo Perón, e di sua moglie Evita, partì alla volta dell’Italia. Il 26 maggio 1949 ebbe quindi luogo a Torino una partita unica. Infatti, il Club Atlético River Plate, con indosso le casacche bianche attraversate dall’iconica banda trasversale rossa, scese in campo per affrontare un gruppo di undici fuoriclasse, prestati da tutte le squadre italiane, che per l’occasione indossavano la maglia granata e si chiamavano Torino Simbolo, in un Comunale al limite della capienza; la partita-spettacolo terminò 2-2, e fu bella davvero. Così, prima di tornare a Buenos Aires, sia il presidente della Repubblica italiana, Luigi Einaudi, che Sua Santità, il papa Pio XII, vollero incontrare i calciatori del River Plate applaudendo il loro comportamento tanto nobile, che rinsaldava il vincolo fra i popoli fratelli dell’Italia e dell’Argentina.

E questa magnifica pagina di sport e amicizia troverà una degna replica quando – in occasione dei festeggiamenti per il cinquantenario della sua fondazione – il River Plate inviterà a Buenos Aires proprio il Torino Simbolo a giocare al Monumental; così il 29 giugno 1951, davanti a quasi centomila spettatori, niente meno che il generale Perón scese sul terreno di gioco per salutare uno a uno quei calciatori giunti dall’Italia, passando in rassegna le squadre e dando il calcio d’inizio. La partita la vinceranno nettamente gli argentini per 3-1, ma il Torino sarà applaudito con entusiasmo e salutato da un magnifico striscione granata apparso sulle gradinate e dedicato al capitano del Grande Torino: “Mazzola presente”. A fine partita il presidente Novo, distrutto dal lutto sempre vivo per i suoi ragazzi scomparsi e scosso dalla commozione, aveva omaggiato gli argentini regalando loro le maglie granata, che i giocatori del River Plate indosseranno nelle stagioni successive, preferibilmente nel mese di maggio, onorando così eternamente la memoria del Grande Torino. Trascorsi sette mesi da allora il River tornerà in Italia per affrontare il Torino: accadrà il 16 gennaio 1952 al Comunale, coi granata che (quell’anno arrivarono al 15° posto su 20 e non retrocessero in Serie B per soli due punti) pur non essendo all’altezza dei loro avversari riuscirono con orgoglio a difendere un memorabile pareggio, e fu comunque grande spettacolo, sempre allo scopo di raccogliere fondi, per ovviare in questo caso ad una situazione finanziaria assai difficile per Novo, il quale – commosso sino alle lacrime – consegnerà al presidente del River, don Antonio, un piatto d’argento con inciso il motto latino Cordium consensus vitam parit novellam [Il consenso dei cuori prepara il rinnovarsi della vita], come ringraziamento per l’amicizia e la sensibilità dimostrate.

Nella successiva stagione, quella 1952/53, il Torino vestirà per la prima volta una casacca ispirata alla divisa del River Plate, aggiungendo alla tradizionale seconda maglia bianca una striscia diagonale granata; peraltro, dopo aver fantasticato di riuscire a ricostruire una grande squadra in tempi brevi e non esserci riuscito, ormai deluso, sfiduciato e annichilito dal dolore, Ferruccio Novo abbandonerà la presidenza della società, sostituito da un gruppo di dirigenti passato alla storia come il Comitato di reggenza, che governerà la società per stagioni in cui la squadra per due volte otterrà un dignitoso 9° posto; in seguito arriverà, nella stagione 1955/56, un nuovo presidente: un industriale, banchiere e senatore, Teresio Guglielmone; egli tuttavia lascerà presto per motivi di precaria salute, e gli subentrerà in una condizione di precarietà un Comitato esecutivo che, nella stagione 1956/57, cercherà di mettere ordine e del quale faranno parte: Arturo Colonna, Beniamino Gay e Antonio Vespucio Liberti. Sì, proprio “quel” don Antonio Vespucio Liberti, che addirittura dovrà assumere la direzione tecnica del Toro, accompagnando per 4 giornate di campionato sulla panchina granata – dopo l’esonero di Fioravante Baldi – il fidato Oberdan Usello, che cederà poi la guida tecnica della società a un personaggio pittoresco ma inaspettatamente efficace: un allenatore serbo, Blagoje Marjanovic, che arriverà quasi per caso e salverà il Toro che, da ultimo in classifica su 18 squadre, condurrà a fine campionato al 7° posto, realizzando una vera e propria impresa, sempre fedele al suo proclama: “Per salvarsi le tattiche difensive non servono. Bisogna avere coraggio, rischiare. Per andare avanti occorrono gol e vittorie. E convinzione!”

Questa storia di #EternaAmicizia o, se preferite, #EternaAmistad, certifica la correttezza di un’affermazione impegnativa: oltre all’amore dei suoi tifosi il Toro aveva guadagnato il rispetto di tutti gli avversari e l’ammirazione di ogni sportivo, ovunque; nessuna squadra al mondo infatti ha mai rappresentato per il calcio quello che ha significato, e significa – perché, come scrisse Indro Montanelli, gli eroi sono sempre immortali – il Grande Torino.

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Granatismo, sostantivo maschile. Il Toro e l’Enciclopedia Treccani.

La passione e il tifo per la squadra di calcio del Torino, i cui giocatori indossano la casacca granata, dal 2008 è definita in Treccani fra i neologismi: granatismo, sostantivo maschile.

Giusto. Infatti l’identità di una squadra passa anche dalla divisa, anzi nel calcio i due concetti si fondono. È tramite la maglia, la divisa appunto, che si identifica la squadra, il suo colore è un simbolo intimo, che anima il tifoso in ogni città o nazione, e rappresenta la storia, la missione e gli obiettivi di un sodalizio. Proprio la maglia della squadra del cuore permette all’individuo di sentirsi gruppo, e di condividerne con altri il culto, così centrale nel calcio. Allora, veniamo al colore di quella del Toro, di maglia. Non lo sappiamo con certezza, perché nessuno l’ha scritto inequivocabilmente e sopravvivono quindi alcune teorie sul perché la scelta del colore cadde sul granata. Alcuni parlano di un possibile riferimento al club svizzero del Servette Football Club 1890, la squadra che deve il nome a un quartiere di Ginevra, una delle formazioni più forti all’epoca dei pionieri del calcio, soprannominata les Grenat [i granata] e molto amata dalla comunità elvetica, così vivace a Torino. Altri sostengono un’altra teoria, che evoca l’omaggio alla casacca maroon degli inglesi dello Sheffield Football Club, riconosciuta nella storia di questo sport come la più antica squadra di calcio al mondo, fondata nel lontano 1857 nella cornice della città inglese dell’acciaio. Peraltro c’è un’altra spiegazione possibile, molto più romantica, che vede nella gradazione scelta dai fondatori del Toro un richiamo alla Brigata Savoia, magnifica protagonista della difesa di Torino in occasione del tremendo assedio franco-spagnolo del 1706. E vale la pena di raccontarla bene, questa storia.

“È senz’altro l’invenzione di osservatori superficiali la leggendaria monotonia della città, come un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciano ingannare. Invece, sotto quell’apparenza così ovvia, Torino è una città per intenditori”. Così definiscono la città sabauda ne La donna della domenica, uno dei loro capolavori, Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Città per intenditori, quindi. Non potrebbe essere altrimenti. Una città fiera e quasi straniera al resto del Paese dove quasi tutto è nato: l’automobile, il cinema, il cioccolatino, la gianduia, il grissino, la radio, la televisione, il tramezzino, il vermut e l’Unità nazionale. Una città considerata magica, dai conoscitori dell’occulto, che incarna e racchiude una profonda tensione verso il mistero, sullo sfondo di una metropoli ordinata e precisa, ammantata di grazia, densa di riserbo e chiaroscuri, agiata senza sfarzo, elegante ma discreta, golosa di piccoli piaceri accompagnati da un’energia non manifesta, che cela un cuore folle. E un cuore Toro. A proposito, proprio a Torino, in Italia, è nato (anche) il calcio.

La società calcistica più antica d’Italia è il Genoa, come i rossoblu genovesi dichiarano orgogliosamente. Ed è vero, naturalmente. Tuttavia occorrerebbe una precisazione. Infatti il Genoa è certo la squadra più antica d’Italia, ma fra le quelle ancora in attività. Per amor di verità bisogna riferire che, al tempo della fondazione del glorioso sodalizio del Grifone – avvenuta nel 1893 a Genova – in quel di Torino si palleggiava già da un bel pezzo. Francesco Crispi nel 1887 formava il suo primo governo, Giuseppe Verdi tornava a scrivere e trionfava alla Scala con l’Otello. Invece l’Italia, che aveva appena festeggiato i suoi primi 25 anni dall’unificazione, rinnovava il trattato della Triplice Alleanza con Germania ed Austria-Ungheria. E sempre in quel 1887 Edoardo Bosio, un ragioniere di origine elvetica, impiegato presso la sede torinese della grande casa inglese di tessuti Thomas & Adam, rientrando a Torino dopo una lunga trasferta presso la casa-madre a Nottingham, portava con sé un vero pallone di cuoio brevettato per il gioco del calcio e una copia delle regole dell’association football, che lui aveva praticato ed era capace di giocare. Bosio aveva in effetti l’intenzione di creare un’organizzazione che consentisse la diffusione della pratica di quel gioco, e per questo fondava il primo undici italiano, il più antico sodalizio d’Italia in assoluto, che in quel 1887 indossava una camicia a righe rossonere, un berretto in testa e lunghi calzoni: era il Torino Football & Cricket Club, che aveva sede in piazza Solferino, nel salotto di casa del fondatore.

Un paio d’anni dopo, nel 1889, veniva approvato con l’unanimità dei voti in Parlamento il cosiddetto Codice Zanardelli che aboliva la pena di morte (ancora in vigore nei principali Stati europei) per tutti i reati, e consentiva la libertà di sciopero, in condizioni non-violente e anti-intimidatorie. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena ed aumentava la discrezionalità del giudice al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo, ammettendo inoltre l’infermità mentale certificata come causa di esonero dal processo, rendendo quella italiana una società più liberale. In quello stesso anno, venne fondato, per volontà del grande ammiraglio, esploratore e alpinista italiano Luigi Amedeo di Savoia, futuro Duca degli Abruzzi, il Nobili Torino. La seconda squadra più antica d’Italia, che permetteva ai rappresentanti dell’aristocrazia cittadina di cimentarsi con il calcio, sfoggiando una maglia a strisce gialle e nere. E sempre allora Friedrich Nietzsche, ebbe un crollo mentale, proprio mentre si trovava a Torino, città che il grande pensatore amava più di ogni altra. Successe che trovandosi in Piazza Carignano, nei pressi della sua casa, dove aveva scritto L’Anticristo, Il crepuscolo degli idoli ed Ecce Homo, vedendo un cavallo adibito al traino di una carrozza fustigato a sangue dal cocchiere, Nietzsche intervenne in difesa dell’animale. Dopo averlo abbracciato, avergli sussurrato qualcosa di incomprensibile e baciato, il grande filosofo cadde a terra in preda a violenti spasmi, e fu soccorso. Dopo questo singolare episodio di follia in pubblico Nietzsche verrà condotto lontano da Torino, per essere ricoverato in Svizzera e non si riprenderà fino al termine dei suoi giorni dal devastante accesso di follia che l’aveva colto nella città sabauda, ma la sua lucida dottrina verrà considerata la più influente nel plasmare la mentalità occidentale fra il XIX e il XX secolo.

Fondendosi poi nel 1891 con il Nobili, il Torino Football & Cricket Club assumerà la denominazione di International Football Club e sarà la squadra protagonista delle prime due edizioni del campionato italiano di calcio, che inizierà nel 1898. Il nuovo club adotterà brevemente una casacca di colore granata, ispirata alla divisa maroon dello Sheffield Football Club, il più antico club di calcio al mondo, salvo poi abbandonarla in favore di una maglietta a strisce bianche e nere. Il 16 marzo 1898 a Torino si era costituita intanto la Federazione Italiana Football (Fif), che poi sarebbe diventerà Federazione Italiana Giuoco Calcio (Figc): ancora non lo poteva immaginare nessuno, ma questo nuovo sport stava per entrare prepotentemente in modo decisivo nell’immaginario e nella vita degli italiani, diventando fenomeno sociale e culturale, e non semplicemente sportivo. Sempre a Torino, poco più di due mesi dopo la nascita della federazione, l’8 maggio 1898, al Velodromo Umberto I veniva organizzata la prima edizione del Campionato italiano di calcio, con 4 squadre partecipanti. Sarà il Genoa ad imporsi, unico sodalizio non torinese, inaugurando la prima – benché breve – rivalità del nostro calcio, quella contro l’International, che perderà la finale ai tempi supplementari contro i genovesi, mentre nel successivo campionato il Genoa difenderà il titolo ripetendo la stessa finale, ma questa volta sconfiggendo l’International di stretta misura. Quest’ultima società poi, a causa di una crisi finanziaria, si fonderà nel 1900 con un altro sodalizio cittadino, che aveva mosso i primi passi già nel 1894 come sezione calcistica del Circolo Pattinatori del Valentino, club di pattinaggio e hockey su ghiaccio nato vent’anni prima, e poi diventata autonoma nel 1897 con il nome di Torinese, grazie all’intervento del duca degli Abruzzi, quel Luigi Amedeo di Savoia, che era già stato ispiratore dei Nobili Torino.

La fusione con l’International diede i suoi frutti, tanto che il nuovo Football Club Torinese arrivò a giocare la finale del terzo campionato nazionale, contendendo l’edizione del 1900 al solito Genoa, che tuttavia prevarrà nettamente e sarà per la terza volta consecutiva campione d’Italia, mentre a Enrico Bosio – che dovremmo considerare il padre del football, in Italia – sempre sconfitto in tre finali su tre, rimarrà la soddisfazione di aver segnato il primo gol ufficiale nella storia del calcio italiano. Intanto, nella città sabauda oramai si stava affermando un’altra squadra: la Juventus, nata nell’autunno del 1897 come “società civile per gioco, per divertimento, per voglia di novità”, su iniziativa di alcuni giovani studenti della terza e quarta classe del liceo classico Massimo d’Azeglio. I ragazzi si davano appuntamento in prossimità di una panchina non distante dalla loro scuola, di fronte alla pasticceria Platti verso il corso Duca di Genova, oggi corso Re Umberto, all’angolo di corso Vittorio Emanuele II, per discutere di sport, e in particolare del football, che dalla Gran Bretagna si stava diffondendo nel resto d’Europa. I ragazzi si ritrovavano poi nella vicina piazza d’armi del quartiere Crocetta per giocare a calcio, e lì scelsero la prima divisa sociale che prevedeva una camicia bianca e pantaloni alla zuava, che sarà presto sostituita da una camicia rosa con cravattino nero, finché nel 1903 arrivarono da Nottingham, sempre Nottingham!, delle divise da gioco più moderne, quelle del Notts County a strisce verticali bianche e nere.

Nel 1906, l’anno in cui il Torino vedrà la luce, proprio la Juventus era la squadra campione d’Italia, avendo vinto nella primavera dell’anno precedente il titolo nazionale, sconfiggendo il Genoa nella partita decisiva. In Europa invece il clima stava cambiando, e iniziava proprio quell’anno una vera e propria “corsa agli armamenti”. Successe quando la Royal Navy britannica varò il 10 febbraio, presso l’arsenale di Portsmouth, la HMS Dreadnought [il cui nome significa: “che non teme nulla”]. Fu una nave così rivoluzionaria per l’epoca che il suo nome di battesimo divenne il termine generico per indicare le navi da battaglia moderne, che avevano pensionato le precedenti. La sua introduzione innescò infatti una vera e propria gara ad armarsi tra la Gran Bretagna e le altre marine militari del mondo, in particolare quella della Germania imperiale, circostanza che gli storici considerano una delle cause della prima guerra mondiale. Il 7 febbraio del 1910 quella la nave fu poi il teatro di una burla che all’epoca fece molto “rumore”, perché organizzata da Horace de Vere Cole, un ricco cittadino anglo-irlandese considerato un gran burlone, i cui scherzi avevano ampia risonanza mediatica. Egli inviò addirittura un falso telegramma alla Royal Navy proponendo di accettare una visita a bordo della temibile nave militare da parte di alcuni membri della casa reale abissina durante il loro viaggio in Inghilterra che lui aveva organizzato.

Questi in realtà erano cinque amici di Cole, tra cui c’era la scrittrice Virginia Woolf, vestiti con abiti tribali e con il volto dipinto di nero. I falsi diplomatici durante l’intera visita mostrarono di non comprendere una sola parola di inglese, e si espressero rivolgendosi ai disorientati ufficiali della Royal Navy solo in un incomprensibile idioma di fantasia ricco di termini greci e latini esclamando ripetutamente “Bunga! Bunga!”, come segno di ammirazione per la potenza della nave da guerra e dei suoi apparati. L’espressione, fece allora il giro del mondo, e quasi cento anni dopo, tornerà agli onori delle cronache in Italia, per altri motivi. Invece, sempre in Italia ma al confine con la Svizzera, il 19 maggio del 1906 venne inaugurato dal re Vittorio Emanuele III e dal presidente elvetico Ludwig Forrer, un’imponente opera di ingegneria: all’epoca della costruzione, e per i successivi 76 anni, la più lunga galleria ferroviaria del mondo. Il traforo del Sempione. Il traffico regolare dei treni iniziò in realtà solo il successivo primo giorno di giugno, quando l’opera – che avrebbe permesso al mitico Orient Express di collegare Parigi a Istanbul, senza attraversare la Germania – fu celebrata nel corso dell’Esposizione Universale che si tenne in quello stesso anno a Milano, in grandiosi padiglioni ed edifici appositamente costruiti nell’area alle spalle del Castello Sforzesco, l’attuale Parco Sempione. Appunto.

La sera del 3 dicembre di quello stesso 1906 poi un gruppo composito di sportsmen si diede finalmente appuntamento a Torino, nei locali della birreria-ristorante “Voigt” di Via Pietro Micca, sotto i portici del Palazzo Fiorina. Si tratta di un edificio splendido, concepito nel 1860 e ancora oggi esistente, la cui costruzione venne finanziata dalla famiglia Fiorina, che lo fece arricchire con magnifiche decorazioni tra il liberty e il tardo-barocco ed eleganti porticati con capitelli neoclassici. Il rossiccio condominio fu sede dell’omonimo Grand Hotel Fiorina, per molti anni il più lussuoso di Torino, e della storica libreria Slavia, poi nel 1872 rinominata Petrini, dove Edmondo De Amicis scrisse il suo capolavoro: il libro Cuore. I commensali quella sera erano di diversa estrazione, ma tutti animati dal desiderio di contendere alla Juventus, quell’anno sconfitta in finale dal Milan per non essere voluta scendere in campo, ma già campione d’Italia la stagione precedente, il primato cittadino. C’erano alcuni soci del Football Club Torinese, perché il sodalizio giallo e nero era oramai prossimo allo scioglimento, e altrettanti soci dissidenti della Juventus, guidati niente meno che dal suo ex presidente. Alfredo Dick, che da poco era stato estromesso dalla maggioranza dei soci bianconeri. Questi ultimi nonostante gli ottimi risultati sportivi e di gestione mal sopportavano un’impronta sempre più autoritaria e il crescente ostracismo espresso da Dick verso gli italiani, criticati per il loro stile di vita, da lui giudicato troppo distante dal rigore svizzero che avrebbe dovuto caratterizzare la “sua” Juventus.

Alfredo Dick era un affermato imprenditore del settore calzaturiero, dove aveva fondato la società anonima Manifattura di Pellami e Calzature – M.P.C., sviluppando diverse partnership commerciali e diventando nel 1909 presidente della neonata Associazione dei Fabbricanti Italiani di Calzature, alla quale aderirono i più grandi calzaturieri di quel periodo: Oreste Vitale (Borri e Vitale di Busto Arsizio), Giovanni Gilardini di Torino, Ermenegildo Trolli (calzaturificio Di Varese) e il cavalier Pietro Giulini di Vigevano. Si trattava di un uomo rigoroso, con un carattere difficile e spigoloso. Ad esempio, nel 1906 fece perdere alla Juventus, campione in carica, la finale contro il Milan a tavolino, per non averla fatta scendere in campo, per principio. Non essendogli stata rinnovata la presidenza Dick, risentito, abbandonò la Juventus e le tolse il terreno di gioco – il Velodromo Umberto I – che lui aveva preso in affitto personalmente, per offrirlo al Torino, che contribuì a fondare, prima di morire. La tragedia accadde nel 1909 quando, come amministratore delegato della Manifattura Pellami e Calzature, Dick aveva compiuto una serie di errori tecnici nelle emissioni degli ordini, a causa dei quali l’azienda perse quasi centomila lire. Dick allora si assunse la responsabilità dei propri errori di fronte al consiglio d’amministrazione e, sconvolto più dalla vergogna che dal danno economico – non irreparabile – il giorno successivo si recò nei suoi uffici, presso il Velodromo Umberto I, e si suicidò sparandosi a una tempia. Aveva solo 44 anni e lasciava la moglie e quattro figli.

Ma adesso torniamo qualche anno indietro, alla sera del 3 dicembre 1906, quando presso la birreria Voigt (oggi bar Norman) in via Pietro Micca, venne costituito il direttivo della nuova società: vicepresidente Alfredo Dick (ex Juve), segretario Walter Streule (ex Juve) e tesoriere Kuster; consiglieri furono scelti Oreste Marzia (ex Juve), Muetzell e Federico Ferrari-Orsi mentre i revisori sarebbero stati Pletscher, Emilio Valvassori e Enrico Debernardi. E così a soli dieci minuti dallo scoccare della mezzanotte, un brindisi festoso consacrava lo svizzero Franz Josef Schönbrod, eletto dagli altri soci all’unanimità, primo presidente del Foot Ball Club Torino, il nuovo sodalizio cittadino cosi fortemente voluto da Dick, il cui statuto, “espressamente esclusa ogni questione politica o religiosa”, fissava i colori sociali nel “granata e bianco”. È giunto quindi il momento di avanzare un’altra ipotesi oltre a quelle già tratteggiate circa la scelta del colore. Il granata, appunto. E quella che segue di ipotesi è senz’altro la più romantica, e a parer mio la più probabile. Infatti, nel 1906 correva il bicentenario dell’assedio di Torino, evento epocale nella storia del Piemonte, avvenuto appunto nel 1706 – durante la Guerra di successione spagnola – quando oltre 44 mila soldati francesi accerchiarono Torino, difesa da circa 10 mila soldati sabaudi che combatterono strenuamente dal 14 maggio fino al 7 settembre, quando l’esercito a difesa della città, comandato dal Principe Eugenio e dal duca Vittorio Amedeo II, costrinse i nemici francesi alla ritirata. Il fallito tentativo di conquistare la città, che gli storici considerano l’inizio del Risorgimento, e la sconfitta dell’esercito del Roi Soleil, il potentissimo Luigi XIV di Francia, fece conquistare ai piemontesi il rispetto di tutta Europa.

E proprio al duca Vittorio Amedeo II, che a seguito di questa vittoria diventerà il primo re della dinastia di casa Savoia, dobbiamo forse l’iconica maglia del Toro. Difatti, mentre infuriava la battaglia decisiva per le sorti dell’assedio, i due Savoia – Eugenio e Vittorio Amedeo II – dopo aver studiato attentamente la loro tattica, dall’alto della collina di Superga, decisero di attaccare il nemico su più fronti, contemporaneamente, per rompere gli equilibri militari e la morsa dei francesi. Quindi dall’alba fino al pomeriggio del 7 settembre francesi e piemontesi si scontrarono presso Lucento, esattamente dove oggi ha sede il centro sportivo della Continassa e si allena la Juventus, e presso la località detta in piemontese Madòna ‘d Campagna. Vinsero i piemontesi, su entrambi i fronti. E tuttavia trovandosi a distanza e non riuscendo a comunicare a vista, fu un cavalleggero della Brigata Savoia, partito al galoppo, a portare le informazioni necessarie da un comando all’altro. Attraversando le linee nemiche in rotta il soldato sabaudo venne però ferito gravemente e arrivò morente al cospetto del Duca, con la divisa intrisa di sangue, per riferire il messaggio che fu solo in grado di sussurrare, prima di spirare fra le braccia del nobile condottiero: “Savoie bonne nouvelle”. Savoia buone notizie: abbiamo vinto, Torino è salva. E fu così che Vittorio Amedeo II, prendendo in mano la stoffa della divisa intrisa dal sangue del giovane, si commosse e stabilì che da quel giorno, a ricordo del sacrificio di quel soldato e della vittoria dei piemontesi, la Brigata Savoia avrebbe indossato un fazzoletto di colore granata, come il sangue versato.

Allora, quale miglior colore per la divisa del Foot Ball Club Torino? La scelta convinse tutti i soci, e se alla sua prima partita, un’amichevole giocata il 16 dicembre 1906 contro la Pro Vercelli, non è certo che il Torino sia sceso in campo con un completo granata, è sicuro che – agli ordini del capitano Johann Friedrich Bollinger – il Toro sfoggiò la sua iconica divisa il giorno della sua prima gara ufficiale, con poco più di un mese di vita alle spalle. Era appena iniziato il 1907 e in Piazza Castello aveva aperto la Buvette Mulassano, che sarebbe stato eletto a elegante ritrovo della nobiltà torinese, ma anche degli artisti del vicino Teatro Regio, fra splendidi specchi, tavoli in marmo e ricche decorazioni, quando il 13 gennaio, sul campo del Velodromo Umberto I, in zona Crocetta, nella cornice invernale offerta da un clima rigido a causa delle precedenti nevicate, il Toro affrontò e sconfisse la Juventus per 2-1, nella prima stracittadina della storia, fra bianconeri e granata: il cosiddetto derby della Mole. La Juventus fu così eliminata dal campionato nazionale proprio dal neorivale Torino che al primo successo abbinò anche quello nella partita di ritorno, ottenuto con un roboante 1-4 siglato da Hans Kämpfer che segnò tutte le 4 reti, stabilendo un record rimasto imbattuto e portando il Toro al girone finale dove per un soffio, un solo punto di differenza, la formazione granata non si laureerà campione d’Italia al primo tentativo, cedendo il prestigioso alloro al Milan.

E allora, una volta ancora: buon compleanno, Toro.

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