«A Genova non si può giocare bene al calcio perché c’è la macaia» sosteneva Gianni Brera. Il Gran Lombardo di riva e di golena, di boschi e di sabbioni, come gli piaceva dire, sapeva scrivere in maniera pregiata e rapida. Era un intellettuale prestato al calcio, dicono i suoi estimatori, grazie alla sua inventiva e padronanza della lingua italiana ha lasciato una profonda impronta sul giornalismo nostrano, coniando numerosi neologismi introdotti e accolti nell’uso del linguaggio, non solo calcistico: centrocampista, contropiede, cursore, disimpegno, goleador, libero (nel senso del difensore senza compiti di marcatura), melina, pretattica, e molto altro. Per questo viene ancora giustamente venerato, ma qualche cazzata la scriveva pure lui. Nessuno è perfetto del resto. Nella città di Genova infatti a calcio si è sempre giocato tanto e bene, a volte straordinariamente bene, e sono due i club cittadini che hanno contribuito a scrivere la storia di questo sport, club tuttora ai vertici della tradizione sportiva nazionale: i rossoblu del Genoa e i “cugini” blucerchiati della Sampdoria. Il Genoa, fondato nel 1893 dai cittadini inglesi residenti in città, è addirittura il club più antico d’Italia fra quelli ancora esistenti, e la prima dinastia fra quelle avvicendatesi nel nostro calcio. Il Grifone, è questo il rampante simbolo del sodalizio genoano, fu il vincitore del primo campionato italiano nel 1898, aggiudicandosi complessivamente nove massimi campionati nazionali tra il 1898 e il 1924 e una Coppa Italia nel 1937. La macaia c’era già, naturalmente.
Questa particolare condizione meteorologica si verifica proprio nel Golfo di Genova, accade quando spira da sud-est il vento caldo di scirocco, allora il cielo è coperto e il tasso di umidità soffocante. Lo stato d’animo melanconico che provoca è celebre grazie alla citazione nella canzone Genova per noi del cantautore Paolo Conte, nell’onirico verso «macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia». E chissà se era una giornata macaiosa quel 12 agosto 1946, quando nasceva a Genova il più giovane fra i grandi club d’Italia: la Sampdoria. Questo sodalizio, durante la presidenza di Paolo Mantovani, sarà capace di aggiudicarsi uno scudetto nel 1990/91, 4 volte la Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa delle Coppe, oltre a disputare la finale della Coppa dei Campioni d’Europa nel tempio londinese di Wembley nella stagione 1991/92, perdendo con un gol di scarto e solo allo spirare dei tempi supplementari, contro i blaugrana del FC Barcelona, per un soffio. Di macaia, forse. Provocando quel giorno la poco sportiva ma comprensibile soddisfazione dei supporter genoani, dal 1937 a digiuno di trofei nazionali e costretti a subire gli sfottò dei sampdoriani, che li prendono in giro dalla metà degli anni Ottanta ricordando che il Genoa vinceva solo ai tempi dei lampioni a gas, del cilindro da frac e dei café-chantant. Oltraggio per gli orgogliosi tifosi rossoblu, che rispondono con distacco definendo la Sampdoria un club parvenu, vincente solo in virtù dei denari di una proprietà florida, comunque non all’altezza della tradizione del Grifone, irraggiungibile per i blucerchiati. Del resto non è il rapporto con chi abbiamo vicino che cambia il nostro umore?, soprattutto in uno spazio angusto. Ecco perché un derby a Genova conta di più. Anzi, a Genova conta solo il derby, spettacolo impareggiabile di colori e suoni, celebrato dalle tifoserie che si sfidano dalle opposte gradinate, la mitica Gradinata Nord per il Genoa e la magnifica Gradinata Sud per la Sampdoria, che accendono quella sfida con il loro contributo inimitabile.
Fra quelle metropolitane di Torino (1907), Milano (1909) e Roma (1929) quella di Genova è di gran lunga la stracittadina più giovane, ma non meno carica di tensione da quando (1946) la fusione fra la Sampierdarenese e l’Andrea Doria, conferendo una parte dei rispettivi nomi e i colori sociali di entrambe, opporrà al Genoa una degna rivale per la supremazia cittadina: l’Unione Calcio Sampdoria. Il 3 novembre 1946 si giocherà così il primo derby della Lanterna, al quale assisterà anche il Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, che sarà testimone dalla tribuna dello Stadio Luigi Ferraris gremito, insieme a Sindaco e Arcivescovo, del perentorio successo dei blucerchiati vincitori per 3-0 bissato anche nella stracittadina del girone di ritorno, vinta 3-2: per la prima volta il Genoa perdeva la supremazia cittadina. In precedenza altri club del Genovesato (il capoluogo prima del 1926 andava dalla Lanterna all’insenatura di Vernazzola mentre all’interno non oltre il camposanto di Staglieno), espressioni sportive dell’orgogliosa autonomia dei comuni limitrofi a Genova, si erano sfidati disputandosi il privilegio di affrontare l’allora impareggiabile Grifone rossoblu, che negli anni Venti si imponeva sulla scena nazionale piegando le altre grandi squadre dell’epoca, l’Ambrosiana-Inter, la Juventus, il Milan, la Pro Vercelli e il Torino. Il Genoa (che aveva sfiorato il titolo anche nelle edizioni precedenti, avendone già 7 in bacheca) sarà campione d’Italia imbattuto nel 1922/23 e quasi imbattuto nel 1923/24, cedendo poi il titolo del 1924/25 solo al Bologna che tremare il mondo fa ( e solo alla quinta partita di spareggio, in un clima ostile e fra le pistolettate intimidatorie dei fascisti felsinei).
Il Genoa non raggiungerà più il decimo titolo e la tanto agognata stella, arrivando dietro di un soffio al Toro del trio delle meraviglie, composto da Adolfo Baloncieri, Julio Libonatti e Gino Rossetti, all’Ambrosiana-Inter del Balilla Giuseppe Meazza, e alla Juventus di Edoardo Agnelli che sarebbe poi diventata quella fortissima del quinquennio d’oro, ossatura della Nazionale azzurra di Vittorio Pozzo, campione del Mondo nel 1934 e nel 1938 e campione olimpico nel 1936. I rossoblu degli anni Venti erano in effetti una squadra fortissima: sotto la guida autorevole e sicura di mister William Garbutt, il primo allenatore professionista del nostro calcio, schieravano giocatori di livello superiore come il portiere Giovanni De Prà, all’epoca il migliore dell’Europa continentale, l’infaticabile e insuperabile difensore Ottavio Barbieri, l’incontenibile centravanti Felice Levratto soprannominato lo Sfondareti per la sua potenza e il grande Renzo De Vecchi, terzino ineguagliabile, capitano del Genoa e della Nazionale chiamato il Figlio di Dio, che è tutto dire. Il confronto con quella squadra era improponibile ma doveva essere uno stimolo a migliorarsi: la “cittadina” Andrea Doria di Franz Francesco Calì e la “proletaria” Sampierdarenese di testa di bronzo Ercole Carzino, entrambi pure giocatori della Nazionale italiana. La Società Ginnastica Andrea Doria è un sodalizio sportivo nato in una sala della Scuola Svizzera di Genova e intitolato al principe, condottiero e ammiraglio ligure, fondato il 5 settembre 1895 da alcuni atleti fuoriusciti dalla più antica Società Ginnastica Ligure Cristoforo Colombo.
Era dedicato alle sole competizioni ginniche, ma ben presto gli atleti doriani iniziarono a cimentarsi in altri sport improvvisando qualche partita di calcio. Impossibile resistere: organizzeranno la Sezione Calcio nel 1900, adottando una maglia a quarti bianco e blu, esordendo (e perdendo) in campionato il 9 marzo 1902 contro il Genoa, che quell’anno vincerà il suo quarto campionato nazionale. In quegli anni pionieristici il più importante calciatore doriano sarà il carismatico svizzero-siciliano Francesco Calì, consacrato il 15 maggio 1910 niente meno che primo capitano della Nazionale italiana. Sotto la sua supervisione, l’Andrea Doria, sbaragliando squadre come Hellas Verona, Milan, Pro Vercelli e Udinese riuscirà ad aggiudicarsi per ben 4 volte (nel 1902, 1910, 1912 e nel 1913) i campionati nazionali organizzati dalla Federazione Ginnastica Nazionale Italiana (FGNI), che si giocavano in contemporanea ai tornei organizzati da quella che diventerà poi la Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) dove era il Genoa invece a fare la parte del leone. L’Andrea Doria vincerà anche la prestigiosa Palla Henri Dapples, un trofeo calcistico per squadre di club conquistato l’11 dicembre 1904 vincendo contro il Genoa, campione d’Italia in carica. Oltre a Franz Calì, tra i giocatori più famosi che vestirono la maglia doriana si ricordano Aristodemo Santamaria e Enrico Sardi che successivamente avrebbero indossato la casacca del Genoa, prima scontando un anno di squalifica per l’accusa di professionismo, all’epoca vietato. Era successo che il presidente del Genoa, lo scozzese Geo Davidson, gli aveva proposto di giocare per i rossoblu promettendogli un compenso di 3 000 lire. I due atleti, denunciati dal cassiere della banca (che era socio dell’Andrea Doria) dove si trovavano per incassare l’assegno, saranno condannati a due anni, ridotti in seguito a uno, e al pagamento di 1 000 lire di multa, mentre il Genoa all’assemblea generale della Federazione tenutasi a Vercelli rischiò la radiazione ma alla fine se la cavò con un’ammonizione.
Cajenna, era soprannominato il campo dove l’Andrea Doria giocava fin dal 1902. Si trovava a Marassi, proprio nello spazio che oggi separa il campo sportivo dalle carceri genovesi dove si trova la Gradinata Nord, sede del tifo genoano più acceso. Data le ridotte dimensioni dell’isolato, ai margini di quello che era un galoppatoio, la Cajenna non aveva tribune e gli spettatori per assistere alla partita si allineavano tutti ai margini del terreno di gioco, incitando la loro squadra trattenuti da una semplice corda per non entrare in campo. Per gli atleti avversari era un supplizio e per questo il pensiero correva al capoluogo della Guyana francese, la città di Cajenna appunto, sede del famigerato bagno penale che ospitò, fra gli altri, anche il capitano Alfred Dreyfus, il militare francese ebreo ingiustamente accusato di alto tradimento. Lo stadio del Genoa invece nasce nel 1910, quando il presidente del Grifone accetta la proposta del marchese Musso Piantelli di costruire un campo da calcio all’interno del galoppatoio situato nel terreno di sua proprietà nel complesso della Villa Centurione Musso Piantelli, residenza cinquecentesca tuttora esistente a ridosso dell’ingresso carrabile per i pullman delle squadre allo stadio Luigi Ferraris. Il 22 gennaio 1911 in occasione della partita tra il Genoa e l’Inter campione d’Italia lo stadio sarà ufficialmente inaugurato con il nome di Campo di Via del Piano, adiacente alla più antica Cajenna. I due campi da gioco erano separati semplicemente da uno steccato e il Genoa riceveva dai “cugini” doriani 1.000 lire di indennizzo più 200 lire annuali per la manutenzione di quello che alla fine era praticamente un unico prato.
Nel 1926 la politica sportiva si allineava alle intenzioni del regime fascista e per volontà dei gerarchi genovesi la Cajenna era dichiarata inagibile, al fine di penalizzare l’Andrea Doria privandola del “suo” campo di gioco e quindi dell’unica fonte di ricavi, per avere respinto a suo tempo una proposta di fusione nel Genoa e suggerendo così in futuro attenzione ai desiderata delle autorità sportive, che miravano a ridurre a due le squadre nella grandi città. Il Genoa colse l’occasione e con il favore delle autorità fasciste propose un indennizzo alla rivale biancoblu nel frattempo finanziariamente in affanno, versandole la somma di 20.000 ed entrando in possesso del terreno. Sul prato che ero stato la Cajenna il Genoa decise di costruire una nuova tribuna situata a nord del campo. Nel giorno di Capodanno del 1933, quando ebbe luogo la cerimonia di intitolazione dello stadio a Luigi Ferraris, giocatore rossoblu caduto nella Grande Guerra, venne sotterrata la sua medaglia d’argento al valore militare in prossimità della porta di gioco situata sotto la Gradinata Nord di uno degli stadi più moderni e funzionali d’Italia, esattamente nel luogo dove una volta giocavano i rivali doriani. Nell’estate del 1927, all’interno del perimetro delle disposizioni federali in tema di calcio (coerenti con il progetto amministrativo fascista della Grande Genova, che nel 1926 sciolse nel capoluogo, tra gli altri, i comuni di Bolzaneto, Cornigliano Ligure, Nervi, Pegli, Sampierdarena, Sestri Ponente, Rivarolo Ligure e Voltri) le squadre dell’Andrea Doria e della Sampierdarenese confluirono in un nuovo progetto: La Dominante, formazione che nella visione dei gerarchi fascisti (richiamando l’appellativo dell’antica repubblica marinara che dominava il Mediterraneo) si poneva come emanazione della nuova Grande Genova, scendendo in campo in maglia nera, colore caro ai fascisti, con bordature verdi mostrando sul petto il grifone rampante abbinato al fascio littorio.
Risultati sportivi deludenti e scarsa partecipazione indussero le autorità sportive a suggerire la fusione della Corniglianese, nella Dominante rinominandola Foot Ball Club Liguria, senza tuttavia ottenere migliore fortuna decidendo così di abbandonare quel progetto sportivo, con il conseguente ritorno nel 1931 dell’Andrea Doria e della Sampierdarenese, coi rispettivi colori sociali. La squadra di Sampierdarena nel 1937 dovrà poi assumere la denominazione di Associazione Calcio Liguria, allo scopo di permettere il sostegno dell’industria locale a un progetto ambizioso cui in effetti seguirono risultati sportivi significativi fino al raggiungimento della 6ª posizione in serie A, fra l’entusiasmo crescente e un vasto seguito popolare, anche grazie al nuovo campo sportivo a Cornigliano. Andrea Doria e Liguria continuarono separatamente le loro attività fino al fatidico 12 agosto 1946 quando l’operaia Sampierdarenese, riavuto il vecchio nome, e la borghese Andrea Doria sancirono volontariamente la loro definitiva fusione, che questa volta andrà a buon fine, scegliendo Piero Sanguineti primo presidente e tessera numero 1 del nuovo club, che vedrà la luce nello studio del notaio Bruzzone in Galleria Mazzini, l’elegante camminamento nel centro di Genova, in prossimità dell’austera piazza De Ferrari. Mentre la città – ancora devastata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale – era impegnata a ricostruire e risollevarsi. Iniziava così l’avventura sportiva della Sampdoria nonché della sua originale maglia blucerchiata.
Genova durante il conflitto mondiale, per l’importanza strategica del suo porto e delle sue industrie civili e militari, fu chiamata a sopportare numerosi bombardamenti aerei e navali, che le devasteranno. Furono colpiti dagli anglo-americani gli scali ferroviari e gli stabilimenti industriali, nonché tutto il bacino portuale da levante a ponente, che erano obiettivi strategici. Ulteriori danni alle strutture portuali furono arrecati negli ultimi giorni della guerra dalle truppe tedesche in ritirata, che minarono e fecero saltare tratti della grande diga foranea, misero fuori uso i bacini di carenaggio e gli impianti meccanici, disseminarono di mine lo specchio d’acqua portuale e affondarono decine di imbarcazioni di ogni tipo e dimensione. Le bombe alleate non risparmieranno nemmeno il centro abitato, e in particolare la citta antica, provocando migliaia di morti e oltre centomila sfollati fra i genovesi. Le vittime tra la popolazione civile tutto sommato furono contenute, ma solo grazie all’utilizzo delle numerose gallerie-rifugio presenti in città, mentre gravissimi furono i danni materiali alle case di abitazione e al patrimonio artistico cittadino: chiese, conventi, palazzi storici, teatri e ville risultarono colpiti, riportando danni strutturali gravissimi, in alcuni casi fino alla completa distruzione. Le zone cittadine di Piccapietra e del Castello, densamente popolate e fulcro della vita sociale, erano ridotte praticamente a crateri, quasi completamente rase al suolo. Tuttavia immediatamente dopo la Liberazione Genova si riprese con rapidità prodigiosa e già nel 1946, appena rimesso in efficienza il porto, si pensava di dar corso ai lavori di ampliamento verso ovest, dove sorgeranno dinnanzi a Cornigliano e a Sestri Ponente, un grande impianto siderurgico costruito strappando al mare 1 000 000 di m2, il nuovo aeroporto internazionale e il bacino petrolchimico.
Mentre le industrie cittadine erano in ripresa Giuseppe Siri – in quel fatidico 1946 – diventava a soli 40 anni l’arcivescovo di Genova. Il suo carattere deciso, poco incline ai compromessi, e la tenace difesa delle proprie convinzioni divisero spesso l’opinione pubblica, suscitando grandi consensi e forti opposizioni. Ovunque tuttavia era riconosciuta e rispettata la statura intellettuale di questo longevo cardinale che governerà l’arcidiocesi ligure per 41 anni, sarà presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) e parteciperà in quattro occasioni al conclave per l’elezione del papa. A Genova, città cui fu profondamente legato, il cardinale Siri fondò e sostenne numerose organizzazioni assistenziali, pastorali e culturali e fu particolarmente vicino al mondo del lavoro fondando l’Opera dei Cappellani del Lavoro, per portare assistenza pastorale all’interno delle fabbriche. Genova infatti era sempre di più le sue fabbriche, anche per l’avvio di un processo di immigrazione che ne avrebbe mutato profondamente il volto, tramite uno spettacolare incremento della popolazione residente che nel secondo dopoguerra arriverà a sfiorare i 900 000 abitanti. Tuttavia, alla fine e come conseguenza della seconda guerra mondiale l’Italia era letteralmente spezzata in due. Infatti, i combattimenti lungo la cosiddetta Linea Gotica dell’inverno del 1945 avevano gravemente compromesso, spesso distruggendole del tutto, le linee di comunicazione rendendo così molto difficoltosi gli spostamenti fra il nord e il resto della Penisola. In queste condizioni, la FIGC decise di far ripartire il campionato di calcio con una formula che ricordava quella dei campionati precedenti il 1926, nessun girone unico all’italiana quindi.
In pratica la stagione 1945/46 funzionò così: nel Settentrione i club che avrebbero avuto titolo sportivo per iscriversi alla Serie A (della stagione soppressa a causa del conflitto mondiale del 1943/44) si sarebbero affrontati in un girone di andata e ritorno nel campionato dell’Alta Italia, mentre nel Meridione, non essendoci un numero sufficiente di club di vertice si organizzò il campionato del Centro-Sud, ammettendo sia le squadre di Serie A che quelle di Serie B, con il medesimo criterio del titolo sportivo pre-bellico. Al termine dei due campionati le prime quattro classificate di entrambi i raggruppamenti si sarebbero affrontate in un girone unico nazionale con partite di andata e ritorno che avrebbero determinato la vincitrice del campionato e assegnato lo scudetto, che andrà al Grande Torino, al suo terzo titolo, il secondo consecutivo se non si considera il periodo di pausa dovuto al secondo conflitto mondiale. Una citazione a parte meritano però Andrea Doria e Sampierdarenese, che tornavano entrambe a disputare separatamente la massima competizione nazionale. Nel girone dell’Alta Italia, dove si sfidarono tutte le squadre di serie A del Nord, vinto anche quello dal Toro davanti alla Juventus, la Sampierdarenese arrivò 14ª, e quindi ultima (anche se fra le migliori), mentre l’Andrea Doria, che aveva costruito una squadra ambiziosa, si classificò addirittura in 9ª posizione. Tutto ciò era stato possibile perché nel frattempo era successo che lo stesso 25 aprile del 1945, il giorno della Liberazione, in seno alla FIGC si era costituita una commissione straordinaria per l’Alta Italia presieduta su indicazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) da Giovanni Mauro, allo scopo di prendere atto delle ingiustizie sportive che il regime aveva generato nel ventennio e rendere ad ogni società la giusta categoria di merito persa, ristabilendo tutti i diritti sportivi violati.
Ed è proprio al commissario straordinario Mauro che dobbiamo il ritorno alle denominazioni di Genoa, Inter e Milan in luogo di Genova 1893, Ambrosiana-Inter e Milano, nonché la soluzione del nodo genovese. Mauro infatti era persuaso a considerare una prevaricazione la nascita del club La Dominante, poi Foot Ball Club Liguria, risultato della fusione imposta alla più quotata e borghese Andrea Doria dalle autorità fasciste a vantaggio della Sampierdarenese, ipoteticamente favorita in quanto espressione della località (di Sampierdarena) dove si era formato il Secondo Fascio più antico d’Italia, dopo quello di Milano fondato da Benito Mussolini. Per l’effetto, come misura antifascista, accolto il reclamo degli ex dirigenti dell’Andrea Doria, il sodalizio biancoblu fu ammesso a partecipare – con il titolo sportivo del 1927 – al Campionato dell’Alta Italia nel 1945/46 dove così bene poi figurerà. La stessa autorizzazione fu concessa dal commissario straordinario Mauro, alla Sampierdarenese, che conserverà il titolo sportivo dell’Associazione Calcio Liguria, a quel punto sciolta. Concluso quindi l’estenuante campionato del 1945/46 la FIGC ritenne possibile tornare nell’edizione 1946/47 alla formula del girone unico di Serie A, ma dovette affrontare non poche discussioni sul titolo a parteciparvi da parte di diversi club che chiedevano il riconoscimento di aspettative basate sui risultati conseguiti nei cosiddetti campionati di guerra, come ad esempio la cosiddetta Coppa Federale vinta dalla squadra dei Vigili del Fuoco de La Spezia (che sconfissero niente meno che il Grande Torino e il forte Venezia), senza ottenere alcun riconoscimento posteriore né la tanto agognata Serie A.
Tramontata l’ipotesi di adottare un formato a 22 squadre, presa in considerazione dalla FIGC allo scopo di accontentare il maggior numero di piazze, si giunse alla decisione di permettere l’iscrizione alla nuova Serie A post-bellica della stagione 1946/47 “solo” a 20 club, ripescando il Bari e la Sampierdarenese, che aveva ereditato il titolo sportivo dell’Associazione Calcio Liguria, mentre l’Andrea Doria avrebbe dovuto ricominciare nella migliore delle ipotesi dalla Serie B, nonostante i brillanti risultati della stagione precedente. A Sampierdarena tuttavia c’era poco da festeggiare, infatti il sodalizio di casa si trascinava da tempo e senza soluzione di continuità in uno stato di profonda crisi finanziaria, e pur potendo contare su un pubblico affezionato e un sostegno diffuso a corredo del titolo sportivo che le garantiva la partecipazione alla Serie A del 1946/47, non sembrava in condizione di iscriversi al campionato entro il termine previsto, non avendo in cassa il necessario quattrino. Si trovava nella situazione opposta l’Andrea Doria, la dirigenza del club doriano infatti era tradizionalmente accorta e attenta nella gestione, sostenuto da alcune famiglie della ricchissima borghesia cittadina, come i Rissotto, il club si era radicato nell’elegante quartiere cittadino di Carignano, e aveva condotto un mercato estivo importante, col risultato di rafforzare una rosa già competitiva, che infatti nell’ultimo Campionato dell’Alta Italia era arrivata alle spalle delle grandi squadre metropolitane. Tuttavia ripartire dalla Serie B non avrebbe permesso ai biancoblu, un sodalizio prestigioso ma con un seguito popolare molto ridotto e senza uno stadio “di casa”, di far quadrare i conti, imponendo lo smantellamento della squadra. Era il tempo di assumere decisioni impegnative e d’individuare soluzioni creative.
Fu così che i soci dell’Andrea Doria e la Sampierdarenese iniziarono a parlarsi e i dirigenti si misero al lavoro per trovare una soluzione, tratteggiando un accordo in grado di soddisfare le comuni aspettative superando ogni dualismo in vista dell’imminente campionato di calcio di Serie A. La fama che gli abitanti di Genova si guadagnarono fin dal Medioevo, è testimoniata da un antico proverbio latino: Genuensis, ergo mercator, un detto che sintetizza alla perfezione quel mercanteggiare così famoso nel mondo, sul quale i genovesi basarono il proprio impero coloniale. In nome del rischio del fallimento in un caso e dell’anonimato nell’altro i due club – fino al giorno prima acerrimi rivali – trovarono un’intesa soddisfacente: l’unione avrebbe fatto la forza. Adesso però occorreva mettere i patti nero su bianco e prendere alcune decisioni dirimenti: a cominciare dal nome del nuovo sodalizio, da comunicare alla FIGC iscrivendolo per tempo al campionato. I doriani in virtù del conferimento dei capitali necessari a investire e alla dote di ottimi giocatori come Giuseppe Baldini e Adriano Bassetto – che formeranno il leggendario attacco atomico, in grado di proiettarli in Nazionale – pretendevano di anteporre Doria nel nome del neonato club, ma “Doria-Samp” non piacque ai sampierdarenesi che, pur avendo perso il sorteggio dedicato, si indispettirono e decisero di non transigere. Alla fine, forti della proprietà del titolo sportivo, i ponentini vollero anteporre la sigla Samp, che nelle loro intenzioni legava idealmente il club alla loro delegazione, che era stato comune autonomo e dal 1865 elevato a città del Regno. Sampierdarena, anticamente un minuscolo borgo di pescatori e agricoltori, derivava infatti il suo nome dalla piccola chiesa di San Pietro dell’Arena, che lambiva il mare circondata da poche povere case, era diventata imposta uno dei luoghi di villeggiatura più celebri d’Europa, trasformandosi nella cosiddetta Manchester d’Italia per la straordinaria concentrazione e il successo industriale della sua economia. I sampierdarenesi desideravano fortemente rivendicare il loro prestigio anche attraverso la Sampdoria, così la pensavano dalle parti del Bar Roma di Piazza Vittorio Veneto.
Secondo la tradizione, l’equipaggio della nave che per ordine del re longobardo Liutprando nel 725 trasportava i resti mortali di Sant’Agostino dalla Sardegna per trasferirli a Pavia, toccata terra sulla spiaggia sampierdarenese, decise di ricoverare le reliquie del santo in una cella nella chiesetta del borgo, in attesa di riprendere il viaggio a piedi verso la capitale longobarda. Con la costruzione ordinata nel XII secolo dalla potente famiglia genovese dei D’Oria della nuova chiesa di Santa Maria della Cella, l’antica chiesetta sarà soffocata dallo sviluppo delle costruzioni del complesso monastico sortole via via attorno (e rivedrà la luce solo a causa delle bombe cadute nel 1944 che diraderanno diverse costruzioni). Proprio a partire dalla fine del XII secolo, alla tradizionale attività della pesca si affiancò la cantieristica navale che raggiunse un alto livello di specializzazione nella costruzione di galee per la repubblica genovese poi impiegate nelle crociate dell’epoca, offrendo un primo grande impulso allo sviluppo dell’economia di quel borgo che godeva di una posizione incantevole. Non a caso dal Cinquecento alla fine del Settecento l’area di Sampierdarena divenne una prestigiosa residenza suburbana per le ricche famiglie patrizie genovesi, e uno fra i luoghi di villeggiatura più conosciuti d’Europa. All’epoca sul principale asse viario del borgo, sorsero sontuosi palazzi che suscitarono l’ammirazione di illustri viaggiatori, in particolare la Villa Imperiale Scassi, detta “la Bellezza” per il fasto della sua struttura architettonica e dei suoi interni e per lo scenografico parco che risaliva fin quasi al culmine del colle di Promontorio, la Villa Grimaldi, detta “la Fortezza” a motivo della sua massiccia e severa struttura, con pochi decori esterni, e di aspetto monumentale e la Villa Lercari Sauli, detta “la Semplicità” per la linearità delle sue forme che con semplici arcate e colonnine conferivano all’edificio una perfetta armonia.
Queste antiche dimore nobiliari formano il gruppo delle ville cinquecentesche noto come “triade alessiana” perché costruite secondo i dettami architettonici dal celebre architetto perugino, traendo spunto dalla magnifica Villa Giustiniani Cambiaso di Albaro concepita e disegnata proprio da Galeazzo Alessi. Era successo che del XVI secolo, con il consolidarsi della ricchezza in città, gli appartenenti alle famiglie dell’oligarchia che governava la repubblica, iniziarono a far costruire grandi palazzi di villeggiatura nei dintorni di Genova, chiamando a progettarli i migliori architetti dell’epoca. Addirittura l’Alessi concepì e introdusse a Genova un modello architettonico innovativo: il cosiddetto cubo alessiano. Si trattava di un edificio compatto, a base quadrata e senza corte interna ma con un ampio salone al centro del piano nobile, la copertura piramidale e alte logge aperte nel prospetto principale o nella facciata posteriore, che determinavano un nuovo rapporto con lo spazio esterno. Il cubo diveniva elemento dominante nel paesaggio genovese, sorgendo principalmente sulla collina di Albaro e a Sampierdarena, località prossime alla città, ma anche nei centri rivieraschi più vicini, a levante da Quarto a Nervi e a ponente da Cornigliano a Voltri e nelle valli del Polcevera e del Bisagno che erano i siti di villeggiatura preferiti dai genovesi più abbienti, che qui avevano casa e che d’estate erano usi appunto a recarsi in villa per trascorrere la stagione calda. Inizialmente legate a fondi agricoli, nel tempo molte di esse sono state trasformate in vere e proprie dimore nobiliari di altissimo pregio, arricchite da preziose opere d’arte e da parchi e giardini curatissimi.
Con la fine dell’indipendenza di Genova che di fatto passava sotto il controllo della Francia, in una città assediata e affamata dagli austriaci e bombardata dagli inglesi e poi ripresa dai francesi, Sampierdarena perdeva molto del suo prestigio. Infatti, durante l’occupazione napoleonica, molte ville a ponente di Genova vennero trasformate in depositi, ospedali o presidi militari, subendo un inevitabile degrado. Con la caduta dell’imperatore corso, e il successivo Congresso di Vienna, Genova riconquistò un’effimera indipendenza, durata meno di un anno, prima dell’annessione della Liguria intera al Regno di Sardegna governato dai Savoia che a quel punto però su Genova investiranno molto. Nel 1853 infatti per volontà del governo sabaudo, che ne finanziò interamente la costruzione, veniva realizzata la ferrovia Torino-Genova, per collegare la capitale del Regno al “suo” porto, attraverso la realizzazione di un’opera che costituì un avvenimento di importanza eccezionale ed ebbe risonanza anche al di fuori dei confini italiani. Per attraversare l’appenino fu infatti costruita la Galleria dei Giovi, un traforo di 3 254 metri all’epoca il più lungo d’Italia. Sampierdarena sarebbe stata attraversata da un lungo viadotto ad archi lungo l’intero abitato da Ponente a levante, in una posizione intermedia tra i due assi viari, interessando l’area già occupata dai giardini delle ville patrizie. Pochi anni dopo, parallelamente alla ferrovia veniva realizzato un nuovo asse stradale (l’odierna via Giacomo Buranello), che divenne il nuovo centro commerciale del borgo, determinando lo spostamento a monte del centro urbano.
L’apertura di nuove strade e della linea ferroviaria sia passeggeri che merci ponevano le premesse per il definitivo sviluppo industriale della zona e il previsto incremento dei traffici portuali giustificava un progetto di straordinario ampliamento del porto commerciale, che sarà presentato la prima volta nel 1874, quando Sampierdarena contava già numerose aziende manifatturiere tessili, corderie, oleifici, saponifici e zuccherifici, ma arrivarono e si erano insediate le prime industrie legate alla lavorazione del ferro. La prima era stata la fonderia dei fratelli Joseph-Marie e Jean Balleydier insediatasi nel 1832 alla Coscia, lì dove era più comodo l’approvvigionamento delle materie prime, che all’epoca provenivano quasi esclusivamente via mare dall’isola d’Elba. Pochi anni dopo, nel 1846 era stata la volta della grande fabbrica meccanica Taylor e Prandi per la costruzione di locomotive e materiale rotabile, insediata nella zona – un tempo conosciuta come i prati dell’Amore – della Fiumara. Il governo sabaudo nel 1853 ne favorirà lo sviluppo incoraggiando una cordata di imprenditori genovesi, formata da Carlo Bombrini, Raffaele Rubattino, Giacomo Filippo Penco e dal giovane ingegnere Giovanni Ansaldo, che ne assunse la direzione legandovi il suo nome, a rilevarla. Nascerà così la Gio. Ansaldo & C., che acquisirà in breve tempo una posizione preminente nel panorama dell’industria metalmeccanica nazionale rendendo Genova una delle capitali industriali d’Italia.
Proprio nella grande fabbrica dell’Ansaldo alla Fiumara venne costruita dall’Ansaldo la prima locomotiva interamente prodotta e assemblata in Italia: la FS 113, chiamata proprio Sampierdarena. Sul piano sociale, a causa della presenza e dello sviluppo incessante delle grandi industrie, la popolazione registrò un incremento vertiginoso, a Sampierdarena arrivarono maestranze specializzate da tutta Italia, mentre sopravvivevano attività tradizionali, come quelle legate alla pesca e alla ristorazione, accanto agli operai salariati. Senza praticamente soluzione di continuità, oltre la zona del Campasso, dove c’erano mulini e alcune industrie tessili, anche la zona di Campi divenne un grande polo industriale. In quegli anni, e in particolare nel 1897, l’imprenditore piemontese Ferdinando Maria Perrone acquistava Il Secolo XIX, il prestigioso quotidiano fondato nel 1886 a Genova. Con tale acquisizione, Perrone intendeva sostenere una politica protezionistica in favore dell’allora giovane industria italiana, scegliendo Luigi Arnaldo Vassallo come direttore. Si trattava di uno dei più autorevoli e importanti giornalisti dell’epoca, con lui il giornale raggiunse le 45 160 copie giornaliere e fu il primo in Italia ad uscire con una foliazione di sei pagine, anziché le tradizionali quattro. Perrone acquisirà così da editore ulteriori conoscenze e competenze, sviluppando le sue notevoli capacità relazionali che gli servirà per arrivare all’inizio del Novecento al vertice dell’Ansaldo.
Orti e frutteti che caratterizzavano il tipico paesaggio agrario genovese erano oramai scomparsi per far posto a capannoni, magazzini e ciminiere. La politica della cosiddetta Sinistra storica di Urbano Rattazzi, Agostino Depretis, Francesco Crispi e Giovanni Giolitti che vedeva proprio nella crescita industriale, sostenuta dallo Stato, le premesse per fare dell’Italia una solida potenza economica a Genova si estrinsecò in particolare nel ponente cittadino. A Campi, tra Sampierdarena e Cornigliano, l’Ansaldo nel 1897 acquisirà un’officina siderurgica, della Società Italiana Delta, e successivamente a partire dal 1902 al 1912 prima Ferdinando Maria Perrone divenuto nel frattempo proprietario dell’Ansaldo e poi i suoi figli amplieranno l’impianto con nuove attrezzature, capannoni e magazzini allargandosi a macchia d’olio su tutto il territorio della bassa Val Polcevera, con il disegno di poter controllare tutti i processi produttivi legati alle trasformazioni del materiale ferroso: dallo scavo del carbone, che avveniva nelle miniere e nello stabilimento di Cogne, alla realizzazione dell’acciaio per la produzione dei prodotti finiti. In essi l’Ansaldo produrrà, nel tempo, dalle locomotive alle automobili, dalle macchine fotografiche alle turbine a vapore, dai proiettili di artiglieria alle strutture necessarie alla realizzazione delle grandi navi da guerra e passeggeri fini a quando non sarà travolta dalla crisi post bellica. Il destino di quella parte di città oramai era nell’acciaio, infatti nel 1934 nascerà con il nome di Società Italiana Acciaierie di Cornigliano (SIAC) un polo industriale con l’obiettivo di raggruppare e razionalizzare tramite l’IRI le attività siderurgiche dell’Ansaldo avviate sin dal 1898 e incentrate negli stabilimenti di Campi.
Il processo di industrializzazione del territorio provoca non solo ma soprattutto a Sampierdarena il rapido incremento della popolazione, già al censimento del 1861 infatti San Pier d’Arena risultava il comune più popoloso dell’area genovese (escluso il capoluogo) con 14 339 abitanti, che risulteranno in costante aumento alle rilevazioni successive: la popolazione conterà 34 084 residenti nel 1901 e 51 977 nel 1921, alla vigilia dell’annessione a Genova e in un tessuto sempre più congestionato. Il flusso migratorio proveniente in particolare dal Meridione, la formazione di un piccolo ceto imprenditoriale legato all’indotto delle grandi industrie e, per la prima volta, l’impiego massivo di manodopera femminile sempre più emancipata, determinarono un forte antagonismo sociale originando le società mutualistiche a difesa dei diritti dei lavoratori: la più antica di queste sarà la Società Operaia di Mutuo Soccorso (SOMS) Universale Giuseppe Mazzini fondata nel 1851, mentre nel 1872 Giovanni Bosco istituirà a Sampierdarena un Oratorio salesiano, ancora oggi noto come Istituto Don Bosco, fra i più articolati e importanti d’Italia. Nel pieno dell’espansione industriale poi un gruppo di cittadini fonderà il 29 luglio 1898 la Pubblica Assistenza (PA) Croce d’Oro, per assicurare il primo soccorso e il trasporto agli ospedali dei malati e delle vittime dei numerosi infortuni sul lavoro, un’associazione benemerita di volontariato, attiva ancora oggi nel primo soccorso e più in generale nel volontariato socio-sanitario. Era nata invece pochi anni prima, il 6 giugno 1891, la Società Ginnastica Comunale Sampierdarenese, fondata su ispirazione di alcuni appassionati della SOMS Universale e di un’associazione ginnica tra numerosi studenti. Il sodalizio si aprirà presto a molte altre discipline raggiungendo livelli di assoluto prestigio, inviando i suoi atleti addirittura alle Olimpiadi. Naturalmente si arriverà anche alla pratica del calcio, dedicandogli una apposita sezione, costituita il 19 marzo 1899 fra l’entusiasmo generale di tutta Sampierdarena.
Gli appassionati sampierdarenesi di football tireranno i primi calci al pallone al campo delle Fornaci ove, nella zona dell’odierna via Rota, c’era una grande fornace di mattoni e nell’ampio spiazzo andavano ad esercitarsi i primi giocatori della neocostituita Sampierdarenese e poi, qualche anno dopo, i militi della Croce d’Oro. Il Genoa, prima di trasferirsi nel 1897 al campo sportivo di Ponte Carrega, disputava proprio lì vicino i suoi primi incontri nella cosiddetta Piazza d’armi del Campasso. Era un vasto prato incolto di proprietà di due industriali scozzesi, che lo avevano concesso al Genoa e così permisero in futuro alla Sampierdarenese di utilizzarlo, tale John Wilson e tale Alexander Maclaren, e si estendeva dall’argine del torrente Polcevera al Belvedere. Il nome della zona – il Campaccio – aveva una connotazione dispregiativa e descriveva una zona allora poco abitata dove, anche quando ne erano sorte ovunque non venne mai costruita alcuna villa nobiliare, a motivo di un ambiente ritenuto insalubre e acquitrinoso percorso dai ruscelli che discendevano dalla collina di Belvedere e sferzato del vento che lì soffia irruento in tutte le sue direzioni: la tramontana, il grecale, il maestrale, il libeccio e lo scirocco. La Piazza d’armi sarebbe stata poi completamente coperta, quindi tagliata verticalmente dalla ferrovia, occupata dal parco ferroviario e da altre fabbriche, ed infine da case (per ultime, quelle dei ferrovieri). Intanto nel 1900 la Sampierdarenese disputerà le eliminatorie per partecipare al suo primo campionato nazionale, ma sulla sua strada troverà niente meno che il Genoa, detentore del titolo, che le infliggerà una lezione molto severa: la partita terminerà con la vittoria per 7-0 dei genoani, e la Sampierdarenese da allora non risulta aver disputato alcun campionato fra il 1901 e il 1915, anno di inizio della Grande Guerra, mentre la sezione calcio della polisportiva di era comunque organizzata nel 1911 un club autonomo.
Era da poco terminata la prima guerra mondiale quando a causa di una crisi finanziaria l’Associazione del Calcio Ligure – vivace realtà valpolceverina in cui erano confluite l’Enotria di Bolzaneto e l’Itala di Rivaloro Ligure – rinunciava a continuare la propria attività sportiva e confluiva nella Sampierdarena conferendole in dote diversi giocatori, fra loro il futuro capitano Ercole Carzino, i suoi colori sociali, in onore ai quali la Sampierdarenese ritenne doveroso aggiungere la banda rossa ligure sulle divise da gioco, fino a quel momento bianconerocerchiate, e soprattutto il titolo sportivo che permetterà al club di Sampierdarena l’iscrizione alla Prima Categoria. Si può perciò affermare che il rosso, dei quattro colori tradizionali dell’odierna Sampdoria, sia derivato non direttamente dalla Sampierdarenese, ma dall’antico club Ligure e ancor prima dall’Enotria di Bolzaneto e dall’Itala di Rivarolo. La Sampierdarenese nel 1919 si trasferirà nello Stadio di Villa Scassi, un impianto sportivo ricavato nel parco a monte della cinquecentesca villa Imperiale Scassi, detta La Bellezza. La struttura poteva ospitare sulle tribune in legno 5 000 spettatori stipati come in una scatola: proprio a scàtoa de pìloe diventerà il soprannome con cui i sampierdarenesi inizieranno a chiamare affettuosamente il loro fortino, teatro di un primo periodo di grandi soddisfazioni per la Sampierdarenese. Inaugurato con un derby vinto 4-1 contro l’Andrea Doria, in quegli anni allo Stadio di Villa Scassi scenderanno squadre importanti e per nessuna sarà mai semplice, cadrà una volta anche la Juventus, mentre verranno sconfitte in più di un’occasione tutte le squadre più accreditate dell’epoca: i grigi dell’Alessandria, i nerostellati del Casale, il Genoa, l’Inter, il Milan, la Pro Vercelli e il Torino, con la Sampierdarenese protagonista di alcune apparizioni nella massima serie nazionale, con l’exploit del 1922 quando addirittura dopo aver eliminato la SPAL di Ferrara in semifinale, raggiungerà la finale del campionato di Prima Categoria organizzato dalla FIGC, pareggiando a Sampierdarena e a Novi Ligure, perdendo poi lo spareggio sul campo neutro di Cremona contro la Novese, che si laureerà Campione d’Italia.
Simbolo di quell’indomita Sampierdarenese era propio il suo capitano Ercole Carzino, un figlio del suo tempo, nato proprio a Sampierdarena dove la sua famiglia si era trasferita dal Monferrato in cerca di lavoro. Il padre era un socio della SOMS Universale, e avvierà tutti i figli verso la pratica del calcio. Ercole era un mancino, giocatore combattivo, addirittura rude quanto di inesauribile energia, che giocò principalmente come mediano, in grado di galvanizzare i compagni di squadra e particolarmente abile nel gioco di testa, tanto da venir soprannominato testa di bronzo. Carzino vestì anche la maglia azzurra, giocando la sua unica partita ufficiale in Nazionale il 6 novembre 1921 contro la Svizzera. Quella Sampierdarenese bene allenata dall’austriaco Karl Rumbold si fece conoscere e apprezzare, ospiterà allo stadio di Villa Scassi il TSV München 1860, l’Olimpique Marsiglia, il Borussia Dortmund che in tournée per l’Italia vollero affrontarla, mentre l’anno successivo – prima fra le squadre italiane – sarà invitata al prestigioso Torneo Internazionale di San Sebastián, famosa in località basca, gemellata con Biarritz, di villeggiatura internazionale, dove si farà onore affrontando e vincendo la semifinale contro gli indiscussi campioni belgi dell’epoca, il Royale Union Saint-Gilloise, perdendo in finale solo coi padroni di casa della Real Sociedad di San Sebastián. La Sampierdarenese si toglierà anche la soddisfazione di alzare al cielo la Coppa Cesare Alberti, un torneo calcistico a cui prendevano parte le squadre di Genova, vinto sconfiggendo proprio il Genoa che la coppa l’aveva messa in palio. Poco dopo sarebbe intervenuto lo scioglimento disposto dalle autorità sportive fasciste per dare vita a La Dominante, abbandonando il campo di casa che verrà demolito nel 1928 per fare spazio all’apertura dell’attuale via Antonio Cantore.
E infatti, dopo la poco felice parentesi della Dominante e del FBC Liguria, la Sampierdarenese, continuerà a giocare allo Stadio del Littorio di Cornigliano, un impianto all’inglese dedicato esclusivamente al gioco del calcio, che poteva contenere fino a 15 000 spettatori (e nei caldi mesi estivi, trovandosi in riva al mare, era sede di spettacoli operistici). Il club manterrà tuttavia la storica casacca biancocerchiata di rossonero e sarà protagonista di una scalata avvincente, partita dalla terza serie nella stagione 1931-1932, quando sotto la guida del grandissimo allenatore austriaco Hermann Felsner, già due volte campione d’Italia con lo straordinario Bologna che tremare il mondo fa, otterrà l’immediata promozione in Serie B. Nella stagione 1933-1934 arriverà poi la storica promozione in Serie A, dopo un campionato estenuante giocato a 26 squadre, fino all’ultimo atto di uno spareggio contro il Bari, giocato sul campo neutro di Bologna che la Sampierdarenese affronterà in tenuta verde: una muta di maglie donata dal presidente del Bologna Renato Dall’Ara, visto che entrambe le squadre si erano presentate in divisa bianca. Dopo altri tre campionati nella massima serie, tuttavia, il regime fascista impose al club di assorbire Rivarolese e Corniglianese, nonché assumere la denominazione Associazione Calcistica Liguria, comprendendo Corniglianese e Rivarolese, allo scopo si disse allora di permettere all’Ansaldo di sostenere un sodalizio non più espressione di un solo quartiere, sia pure importante, ma dell’intera città pur consentendo di mantenere i colori della Sampierdarenese, a rimarcare la continuità fra i due sodalizi.
Quella squadra era stata affidata al piemontese Adolfo Baloncieri, campione d’Italia dieci anni prima in campo col Torino del trio delle meraviglie, e considerato unanimemente tra i più grandi calciatori d’ogni epoca, al pari di Giuseppe Meazza e Valentino Mazzola. Approdato al Liguria nel 1937, ottenne importanti risultati nella stagione 1938/39 quando la squadra fu artefice di un campionato al vertice e duellò per il titolo col Bologna prima di declinare nel girone di ritorno, chiudendo il campionato al sesto posto, un piazzamento al di là di ogni previsione iniziale, che lo rese il tecnico del momento, portandolo a Napoli in polemica con la dirigenza del club ligure a causa di un dissidio legato alla cessione di un giocatore. Tornò dunque dopo due stagioni al Liguria che nel frattempo era retrocessa, in tempo per vincere il campionato di Serie B, dopo un inizio stentato, con un fenomenale girone di ritorno e risalire così in massima serie, e l’anno dopo una tranquilla salvezza in Serie A con un onorevole 11º posto. Il teatro di quelle gesta sportive sarà danneggiato dagli eventi bellici in arrivo, così lo Stadio del Littorio sarà parzialmente recuperato ed utilizzato come campo di allenamento dalla Sampdoria nei primi anni di attività, e intitolato nel 1950 al portiere del Grande Torino, il ligure Valerio Bacigalupo, per essere poi definitivamente demolito nel 1958 sul sito che tristemente poi ospiterà la rimessa degli autobus dell’azienda di trasporto pubblico genovese.
Ma torniamo all’estate del 1946. Il nome della nuova formazione si faceva attendere e stilata la lista delle 20 partecipanti al nuovo campionato a girone unico, la FIGC che doveva preparare il calendario inserì la nuova formazione con la sigla provvisoria “Samp” non avendo ricevuto indicazioni diverse tanto che lo stesso statuto del club in copertina e all’articolo 1 si riferirà prudentemente al neocostituito club come Unione Calcio Sampierdarenese-Doria “Sampdoria”, intanto dopo lo scorporo della sezione calcio a seguito della fusione del 12 agosto 1946, la Società Ginnastica Andrea Doria ha proseguito la sua attività di polisportiva mentre un gruppo di ex soci della Sampierdarenese decise di istituire nel giugno dello stesso anno l’Unione Sportiva Dilettantistica Sampierdarenese 1946, una società che da quel momento in avanti mantiene in vita il ricordo del club biancorossonero, senza però rivendicare alcuna continuità storica con esso. Anche la divisa del neonato sodalizio rispecchiò entrambi i rami fondatori, che ne crearono una davvero originale. La casacca della Sampierdarenese, bianca con fascia rossonera – anche se il rosso era in realtà l’eredità del precedente assorbimento, quello dell’Associazione del Calcio Ligure, avvenuto nel 1919, andò a miscelarsi con l’uniforme dell’Andrea Doria, ripartita verticalmente a metà tra bianco e blu. Il risultato finale fu una maglia di un blu intenso attraversata da una particolare fascia colorata, in cui le tinte andavano a combinarsi, nell’ordine, in blu-bianco-rosso-nero-bianco-blu; al centro della citata fascia colorata campeggiava lo scudo di San Giorgio, già sul petto dell’Andrea Doria, segno di appartenenza cittadina trattandosi della bandiera genovese.
Poiché le maglie risultavano a sfondo blu marchiate dal caratteristico anello di fasce disposte in orizzontale, rosso e nero, molto in alto sul petto e listato di bianco, i giocatori sampdoriani sono da sempre chiamati con l’appellativo di blucerchiati. Questa fascia, inizialmente era fissa all’altezza del cuore, ma a partire dai primi anni 1980 ha ciclicamente variato la sua posizione, più in alto o più in basso, per far posto ai marchi degli sponsor. I pantaloncini da gioco della Sampdoria sono generalmente bianchi o più raramente blu, mentre i calzettoni, per anni composti da iconiche righe orizzontali biancoblu sono col tempo diventati prima più spesso blu con risvolti bianchi, poi monocromatici blu o bianchi o intonati alla divisa come i pantaloncini. Un’altra caratteristica singolare era rappresentata dai numeri sulla schiena che erano sovrapposti alle fasce colorate, mentre spesso un colletto a polo con scollo chiuso da bottoni, altrimenti detto all’inglese, dava alle divise una rifinitura spesso rimpianta dai tifosi sampdoriani. Tra i principali simboli sampdoriani c’è poi un’altra peculiarità: il Baciccia, il marinaio che appare nel logo della Sampdoria. Ma chi è davvero questo signore che vediamo raffigurato con una pipa in bocca e la barba folta?
Baciccia è il diminutivo, forse originato dalla pronuncia infantile di Battista, di un nome molto diffuso a Genova, nelle sue diverse varianti: Giovanni Battista, Giovan Battista o Giambattista o anche nella parlata locale Gio Batta. Essendo Genova la città portuale per eccellenza, in termini grafici il Baciccia è stato raffigurato in una silhouette di colore nero con il profilo tipico del marinaio, stilizzato con barba, un caratteristico berretto in testa, la pipa e i capelli spettinati dal vento. Lo si vede all’interno del logo societario che con l’inizio della stagione 1980/81 viene introdotto per la prima volta sopra le maglie blucerchiate, inizialmente sul lato sinistro del petto. Poi, nel corso degli anni, il suo posizionamento è cambiato varie volte, arrivando anche ad essere posizionato sul braccio. Nel capoluogo ligure il diminutivo ha un significato identico di balilla cioè il nomignolo del patriota genovese Giovan Battista Perasso che nel 1746 con il suo “Che l’inse?” dette il via alla rivolta popolare contro le truppe occupanti dell’Impero asburgico, e pure nelle cronache dello scrittore inglese Charles Dickens Pictures from Italy il Baciccia è identificato e citato: “In consequence of this connection of Saint John with the city, great numbers of the common people are christened Giovanni Baptista, which latter name is pronounced in the Genoese patois Batcheetcha like a sneeze. To hear everybody calling everybody else Batcheetcha, on a Sunday, or festa-day, when there are crowds in the streets, is not a little singular and amusing to a stranger”.
Quattro colori: il blu, il bianco, il rosso e il nero. Ripetuti in sequenza, per creare un’alchimia ipnotica e magica. La maglia della Sampdoria, lo hanno sancito giurie e riviste più o meno accreditate è ritenuta fra le più bella in assoluto, certamente aggiungendole uno stemma inconfondibile possiamo definirla originale. Oltre al soprannome dei suoi giocatori, quello di blucerchiati, proprio in virtù della caratteristica fascia colorata che attraversa orizzontalmente la maglia blu, sono caratteristici altri due storici appellativi, quelli de la Samp e il Doria, nati – uno declinato al femminile e l’altro al maschile – come contrazione della denominazione sociale, ma sono anche evocativi della due radici del club: quella della Sampierdarenese e l’altra dell’Andrea Doria. Meno conosciuto è l’appellattivo più in voga soprattutto nel secondo dopoguerra, agli albori del club e usato soprattutto dalle tifoserie rivali, soprattutto quella del Genoa che lo utilizza tuttora per denigrare i rivali cittadini definendoli “Ciclisti”, perché rimanda alla somiglianza tra la casacca sampdoriana con quelle usate nel mondo del ciclismo, anch’esse in gran parte disegnate con una fascia sul petto. Per sdrammatizzare, occorrerebbe aggiungere che Fausto Coppi, piemontese di nascita e tifoso del Grande Torino, ma genovese d’adozione, per aver vissuto a Sestri Ponente, aveva una spiccata simpatia calcistica proprio per la Sampdoria, lasciandosi immortalare spesso con la maglia blucerchiata, che tutto considerato forse gli ricordava quella iridata di campione del mondo, che rappresenta il Campionissimo meglio di qualsiasi altra.
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